sabato 31 dicembre 2022

Meloni, Rauti e la Russa: agli inizi di un corto circuito

Inutile girare attorno alle cose. Fratelli d’Italia ha uno zoccolo duro di elettorato che all’occasione non indugia ad esprimersi in favore dell’esperienza missina, a rivendicare l’appartenenza alla storia di questo partito, che ebbe tra i suoi fondatori Giorgio Almirante, che ai tempi del regime fascista era stato segretario di redazione della rivista di Telesio Interlandi “La difesa della razza” e poi a Salò capo di gabinetto al ministero della propaganda della Repubblica Sociale Italiana. Un elettorato che oscilla tra l’1 e il 2 per cento. Alla prima prova elettorale Fratelli d’Italia prese l’1,9%. A questo elettorato in Fratelli d’Italia nessuno vuole rinunciare. Giovedì, 29 dicembre, Giorgia Meloni ha tenuto la consueta conferenza stampa di fine anno, la prima di un Presidente del Consiglio donna. 43 domande e risposte per una maratona di tre ore. Va da sé che la stragrande maggioranza delle domande verteva sui grandi temi della Legge finanziaria, che veniva approvata in concomitanza, dopo 70 giorni di governo, e sulle riforme annunciate nel programma elettorale. Lei ha risposto a tutte le domande senza mai scostarsi di un millimetro dalla sua posizione di destra, ribadendo la ferma volontà di portare fino in fondo quanto promesso: giustizia, presidenzialismo, fisco, Pnrr, politica estera, emergenza Covid, sicurezza. Non poteva mancare dai soliti provocatori la domanda sulle origini del suo partito, che due sortite di Isabella Rauti e Ignazio La Russa dei giorni precedenti, in occasione dell’anniversario della nascita del Msi, 26 dicembre 1946, avevano riproposto con dichiarazioni celebrative. La Rauti, che nel governo Meloni è sottosegretario alla Difesa, aveva detto riferendosi al Msi, di cui il padre Pino era stato segretario nazionale, che “le radici profonde non gelano”, rivendicando con ciò la continuità col Msi. La Russa, che è Presidente del Senato, aveva voluto ricordare il padre, che era stato tra i fondatori del Msi in Sicilia e la propria lunga militanza, dagli scontri all’Università al più alto scranno di Palazzo Madama. Ovvio che simili dichiarazioni provocassero reazioni da parte del mondo politico di sinistra, con richiesta di dimissioni, e della comunità ebraica in Italia, che non manca mai in simili circostanze di dire la sua. Essi, non paghi delle precisazioni fatte più volte dalla stessa Meloni sul rapporto col fascismo, ora vogliono anche che Fratelli d’Italia tagli i rapporti col Msi. La Meloni ha risposto con una domanda: “Un partito che ha avuto un ruolo molto importante nella storia di questa nazione e che è sempre stato chiaro sulla lotta all’antisemitismo, perché ora deve diventare impresentabile? Non mi piace questo gioco al rilancio per cui si deve sempre cancellare di più”. Una risposta ragionevole, moderata, volta a non sollevare ulteriori allarmismi di maniera da parte delle opposizioni; e su specifica domanda se celebrerà il 25 aprile ha risposto affermativamente. Vedremo che accadrà alla data fatidica. Per ora cerchiamo di spiegarci le sortite “non innocenti” di Rauti e La Russa e la risposta-domanda, rassicurante, di Meloni. Le parole dei due grossi esponenti del partito sono un chiaro segno di riconoscimento nelle “radici che non gelano”, che sono missine e nello strato più profondo fasciste, dunque sono rivolte al passato solo per non dimenticare le origini. Quelle della Meloni, anche per ragioni anagrafiche, non possono che riconoscersi nella liturgia resistenziale, rivolte al presente e al futuro. La Meloni ha detto recentemente di non avere avuto mai in simpatia i regimi dittatoriali e c’è da crederle. Il suo ruolo istituzionale, inoltre, la obbliga al rispetto delle ragioni fondanti della Repubblica e sa e riconosce che il suo successo elettorale e politico è avvenuto dentro le sue regole. Rinnegare queste regole vorrebbe dire autodelegittimarsi. Il corto circuito, Msi sì Msi no, che ne deriva non è solo tra Fratelli d’Italia e le istituzioni, ma anche all’interno del partito. È una piccola crepa che potrebbe allargarsi. Nessuno vuole perdere quel pezzo di elettorato e non solo per ragioni sentimentali ma anche e soprattutto per ragioni di peso elettorale. Ci sono ex missini, estranei a Fratelli d’Italia, come Gianni Alemanno, già ministro dell’agricoltura e sindaco di Roma, che hanno incominciato a lavorare per dare a quegli elettori approdi elettorali diversi nel caso non fossero paghi del governo Meloni e del suo inevitabile processo di omologazione. D’altra parte è riconosciuto da molti osservatori che in Italia si continua ad avere nei confronti del fascismo un giudizio se non proprio positivo quanto meno non negativo. E questa è gente che vota.

sabato 24 dicembre 2022

Meloni e il postfascismo

Gli oppositori di Giorgia Meloni intitolano il suo governo postfascista, con evidente intento denigratorio. Se con simile definizione si vuole significare la discendenza innegabile del partito della Meloni, Fratelli d’Italia, dal Msi, partito a sua volta dichiaratamente postfascista, con ciò volendo indicare anche una sorta di evoluzione del fascismo in epoca quando essere fascista è vietato dalla Costituzione, nulla quaestio. È così, non c’è da arrampicarsi sugli specchi per negarlo. Se invece si vuole accusare il governo Meloni di conservare concretamente in sé qualcosa della sua matrice fascista, allora il discorso cambia, perché di fascismo né il suo partito né il suo governo hanno nulla, non potendo avere nulla. Non solo e non tanto per effetto della Costituzione, ma per ragioni oggettive. È un governo come tanti che lo hanno preceduto, figlio di una crisi politica che dagli anni Novanta del secolo scorso ad oggi non ha trovato uno sbocco. I governi Monti (2011), Letta (2013), Renzi (2014), Gentiloni (2016), Conte (2018 e 2019), Draghi (2021) e infine Meloni (2022) sono tentativi di venir fuori dalla crisi politica iniziata con la caduta della partitocrazia, che aveva caratterizzato nel bene e nel male circa cinquant’anni di storia. Insistere nel definirlo postfascista fa più male agli oppositori che alla Meloni e al suo governo, che può dimostrare di essere un governo di destra, liberalconservatore. Gli oppositori, infatti, ad incominciare dal Pd, erede della tradizione democristiana e comunista, i due volti della democrazia italiana, dovrebbero allora certificare il proprio fallimento, avendo reso possibile un “fatto” contro cui si sono battuti per tutti i precedenti anni perché non si verificasse. Se consideriamo i connotati del fascismo storico, esso è presa del potere con la forza, conservazione del potere con la dittatura, ovvero con la forza e con l’inganno, crisi del potere e caduta con la catastrofe nazionale. Ora tutto questo nel governo della Meloni non c’è né in avvenire può esserci. Tutto si svolgerà come si è sempre svolto o come le leggi del momento impongono. Che ciò sia vero lo dimostrano alcuni dati. Primo, non è andato al potere con nessuna “marcia”, con nessuna violenza, con nessuna intimidazione, ma con regolari elezioni democratiche e non ha neppure celebrato il centenario della Marcia su Roma come cosa sua, della quale menare vanto. Di anormale, se così si può dire, c’è solo il fatto che si è votato entrando in autunno, in un periodo troppo vicino alla fine dell’anno, quando ci sono scadenze importanti come la legge finanziaria. Tutti i passaggi di questo governo sono stati dettati dalla fretta di chiudere gli adempimenti entro il 31 dicembre. Secondo, il governo Meloni è nato in Parlamento, opera regolarmente secondo tradizione parlamentare e cadrà quando in Parlamento non avrà una maggioranza a sostenerlo. Dunque: il governo Meloni è un governo democratico di destra e, volendolo proprio contestualizzare, è un altro tentativo, come si diceva, per uscire dalla crisi del potere politico in Italia. Il proposito di mettere in atto una riforma in senso presidenzialista, che è la sua ambizione più alta, è un obiettivo da raggiungere nella prospettiva della durata della legislatura. Si dirà: non è solamente questione di fascismo storico, c’è anche un aspetto politico. A questo punto, però, non basta enunciare bisogna dimostrare. In che cosa si teme possa essere in qualche modo fascista il governo della Meloni? Fino ad oggi ha solo detto e dimostrato con gli atti di voler intervenire sui bisogni impellenti del Paese, considerate anche le condizioni oggettive in Italia, in Europa e nel mondo. Con la legge finanziaria ha voluto rispettare i vincoli europei in materia di conti. Con le poche risorse a disposizione (35 miliardi) ha inteso privilegiare le categorie della produzione e del commercio, dopo i disastri provocati dal Covid, in ciò dimostrando il consueto volto della destra moderata. La riforma della giustizia del ministro Carlo Nordio, almeno per quel che fino ad oggi si sa, vuole riportare la giustizia nell’alveo delle garanzie di un moderno Stato di Diritto, con interventi profondi nelle carriere dei magistrati, nel Consiglio Superiore della Magistratura, nelle intercettazioni, nella certezza della pena, nel rapporto magistratura-politica. Nella scuola vuole accentuare l’importanza del merito, peraltro prevista dalla Costituzione. Nella società persegue un indirizzo che premia il bisogno e il merito, con la correzione del reddito di cittadinanza, che ha provocato non pochi danni al mondo del lavoro e creato guasti nella società. In politica estera ha ribadito la fedeltà al Patto Atlantico, ma anche sollecitato una maggiore intraprendenza dell’Europa. Francamente in tutto questo il fascismo, né ante né post, c’entra a niente. Semmai il contrario. Giorgia Meloni si è detta contraria a forme di governo dittatoriali ed è andata perfino a piangere nel Museo Ebraico per quello che gli ebrei hanno subito con le leggi razziali del fascismo e con la loro persecuzione nazifascista in tutta Europa. Si può dire che con questo governo la leader di Fratelli d’Italia abbia posto una pietra tombale su ogni retaggio fascista e perfino sul postfascismo più duro a morire.

sabato 17 dicembre 2022

Qatargate e Italianjob

Questo incredibile 2022 ci sta riservando fino alla fine dei suoi giorni, sullo sfondo di un resistente Covid 19, che ormai dura da tre anni, delle sorprese, alcune nefaste ed altre più interessanti, in attesa anche di sviluppi. Tra le nefaste, la guerra scatenata il 14 febbraio da Putin contro l’Ucraina, che al momento non si sa come e quando potrà finire. Tra le interessanti, la ricorrenza del primo centenario della Marcia su Roma di Benito Mussolini (28 ottobre 1922) con l’ascesa al potere di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (elezioni del 25 settembre 2022), che è quanto resta del Msi, in verità molto poco, il partito erede del fascismo fondato nel dicembre del 1946. In quest’ultimo scorcio di anno, ormai siamo agli sgoccioli, ecco un’altra sorpresa, meno grave della guerra in Ucraina ma assai più brutta per l’immagine dell’Europa e nello specifico dell’Italia. Si è venuti a sapere che il Qatar, paese che ha ospitato i mondiali di calcio, dove è notorio non vengono rispettati i diritti umani, per accreditarsi presso le istituzioni europee e l’opinione pubblica mondiale, ha versato grosse somme di denaro ad alcuni parlamentari, anche di una certa importanza, e ai loro entourages per perorarne la causa. Nell’operazione avrebbero avuto una parte i servizi segreti e i soldi del Marocco. Fino ad oggi, ma non siamo che agli inizi, la gran parte dei soggetti corrotti dal denaro qatariota-marocchino, sacchi e trolley pieni di Euro per un milione e mezzo, ben otto arrestati, è italiana e di sinistra, legata al Pd e ad Articolo Uno. E anche se la maggior figura istituzionale coinvolta, la vice presidente del Parlamento Europeo, Eva Kaili, socialista del Pasok, è greca, l’Italia la fa da “padrona”, perché il di lei compagno, Francesco Giorgi, è italiano, già assistente parlamentare dell’italiano Antonio Panzeri e poi dell’italiano Andrea Cozzolino, sempre del Pd. I soldi sarebbero passati attraverso le Ong del Panzeri, la Fight impunity e quella dell’italiano Niccolò Figà-Talamanca, la No peace without justice, che ha tra i suoi fondatori Emma Bonino, italiana. Lungi dal voler mettere tutti nella stessa tramoggia, ci limitiamo a riprendere i fatti per come emersi fino ad oggi. Sarà il tempo poi il giusto separatore. Riconosciamo intanto che i nomi di queste due Ong sono davvero freudiani: Lotta all’impunità e Non c’è pace senza giustizia. Due paraventi formidabili. Chi avrebbe mai potuto sospettare che dietro impegni così belli e nobili si nascondessero turpi maneggi, servizi segreti stranieri, corruzione e chissà cos’altro? A parlare di questa vicenda, che secondo fonti greche coinvolgerebbe una sessantina di persone, si rischia di scadere nel maramaldeggiamento e nel cattivo gusto. Ma non si può non considerare che a sinistra tutte le volte che parlano di questione morale rivendicano la loro superiorità e citano come loro marchio di garanzia Enrico Berlinguer, che, a questo punto, dopo i paraventi delle parole importanti, finisce per essere pure lui un paravento. Il danno che da questa vicenda viene all’Europa e all’Italia – finora non è emerso altro e altri – è grande. Ma bisogna anche dire che le istituzioni europee ben poco hanno fatto quando potevano fare per impedire che i mondiali di calcio si svolgessero in un paese “assurdo”, vuoi per la sua piccolezza, vuoi per i tempi per costruire dal nulla degli stadi modernissimi, vuoi per come la sua classe dirigente tratta i diritti umani. In questi anni sui cantieri degli stadi da costruire tassativamente entro dieci anni sono morti migliaia di lavoratori, costretti a lavorare per pochi dollari e senza condizioni di sicurezza. E non è che non si sapesse. Infantino, presidente della Fifa, ha ragione di gloriarsi degli ottimi risultati raggiunti in termini di spettacolo e di soldi, ma non pensa alle vittime dei suoi circenses. Quel che emerge, a parte il cosiddetto Qatargate e un ironico Italianjob, subito così battezzato dalla stampa europea, è che nel mondo chi ha i quattrini può tutto, può perfino bloccare i campionati di calcio in tutto il mondo, giunti ad uno dei momenti topici, quando si chiude il girone di andata e si cercano i giusti assetti per la seconda parte del torneo. La Fifa e l’Uefa sono responsabili di questa bruttura, che neppure l’indiscutibile bellezza del torneo può cancellare o in qualche modo sbiadire. Quanto all’Italia, bisogna amaramente ammettere che non stupiamo più nessuno. Se perfino chi si vanta di essere la vedetta della pubblica moralità finisce per essere un sentinaio di porcherie e quel che è peggio davanti agli occhi del mondo, c’è poco da adontarsene quando poi di tanto in tanto ci rappresentano tra pizze, spaghetti e pistole; ed ora anche spie internazionali e mazzette di soldi. Non ci resta che constatare, tra sofferenza ed ironia, che l’Italia, neppure entrata nei mondiali di calcio, ancor prima che questi si concludessero, ne è uscita da protagonista.

sabato 10 dicembre 2022

Quella parte di Italia che non ci sta

Il clima politico in Italia si sta imbarbarendo. Non siamo ai tempi del terrorismo, per intenderci, ma c’è chi dimostra di non sapere neppure che in Italia il terrorismo c’è stato e che potrebbe tornare. Magari senza rendersi conto della gravità di quello che dice. Come fa Giuseppe Conte, capo del M5S, che “paventa-minaccia” rivolte sociali e guerre civili se il governo dovesse abolire il reddito di cittadinanza, il pane elettorale della sua stessa nutrizione politica. Al seguito o accanto a Conte c’è una parte di Italia che sta mostrando un volto politico inedito, poco rassicurante per la convivenza civile. Un volto sapientemente nascosto quando era la parte vincente e le era facile ostentare tolleranza. È una certa sinistra che, proprio mentre l’altra parte, la destra, ritenuta da sempre poco o punto democratica, dimostra di aver superato la fase di adattamento e sta al governo come una qualsiasi altra forza politica, non gradisce l’evoluzione avvenuta. Non ci sta che i da sempre diseredati ora governino il Paese. Le ultime elezioni hanno rovesciato il rapporto ed hanno dato ragione a chi ha saputo aspettare il suo turno per settantasette anni. I nuovi perdenti, però, invece di ragionare sulle cause e sugli eventi che hanno determinato il ribaltamento, rispondono con astio e odio, stizziti e arrabbiati. Giornalisti, opinionisti e uomini di cultura, ospiti quasi fissi dei tanti talk show, diventano lividi, rischiano l’itterizia ogni volta che parlano della Meloni e del nuovo governo. Non ci sono santi, non riescono a digerire la vittoria della destra. Superfluo fare nomi, basta seguire la televisione. Essi, caduta l’accusa di fascismo, ormai non ci crede più nessuno, ora parlano di inadeguatezza della destra con altrettanta spocchiosa superiorità culturale. Poi ci sono i balordi dei socialmedia e dei centri sociali, che alla Meloni ne dicono di tutti i colori e c’è chi ne appende il fantoccio per i piedi, a monito di Piazzale Loreto. L’obiettivo è di ricreare nel Paese un clima di avversione e di intolleranza diffuso. Si tratta di episodi, di casi singoli, ma sono ormai tanti e tali che forse è opportuno parlare di fenomeno. Essi avvelenano il clima politico e sociale con le loro intemperanze, per ora solo verbali e dimostrative. Gli episodi di violenza nei confronti della Meloni non si contano più. Contro di lei sono mobilitate le sinistre, da quella più estrema dei centri sociali alle tante associazioni femministe, alla comunità Lgbt. Alcuni sindacalisti a Milano, per la Prima alla Scala, volevano che si impedisse a Giorgia Meloni l’ingresso. Nello stesso torno di tempo un cosiddetto leone della tastiera minacciava di ucciderla insieme alla figlia se gli avesse tolto il reddito di cittadinanza. Un balordo si dirà. Ma di balordi è piena la storia e sappiamo che quando entrano in funzione possono determinare cataclismi epocali. La miscela che maneggiano Giuseppe Conte e questa sorte di Lumpenproletariat è esplosiva. Si mischiano componenti micidiali: il risentimento sociale per paura di perdere uno pseudo diritto, quello di essere pagato senza lavorare, e l’ideologismo di chi ancora si sente erede della Resistenza e crea a bella posta un nemico da eliminare, che non può essere che il fascismo. E se pure sanno tutti che il fascismo non è un prodotto che si compra al banco, altro essi non trovano per giustificare il loro odio politico. È stato detto mille volte che il governo di Giorgia Meloni non vuole togliere il reddito di cittadinanza, ma vuole rivederlo in modo da garantire un reddito ancor più congruo a chi non può lavorare, per comprovata disabilità, e mettere in condizione gli altri, beneficiari abusivi, gli abili, di trovarsi un lavoro o di accettarlo se una qualche agenzia glielo trova. Cosa si risponde da chi potendo lavorare legittimamente preferisce il reddito di cittadinanza e lavorare in nero? Il darsi alla delinquenza, a rubare. Un vero ricatto criminale, che nelle sue varie declinazioni coinvolge non solo lo Stato, ma anche la Nazione e la Società. “Io – ha detto in televisione un tale – da quando percepisco il reddito di cittadinanza non rubo più. Se me lo tolgono, non mi resta che tornare a rubare”. Che è come dire: io voglio essere mantenuto se no provvedo rubando. Insomma, ci sono plaghe in Italia, specialmente nel Mezzogiorno, di gente che ripropone il dilemma: o assistito o ladro, che è un regresso perfino rispetto al precedente: o brigante o migrante. Che ci sia addirittura un partito politico che costruisce le sue fortune elettorali su simili formule sociali significa che la nostra democrazia, che si fonda oltre che sul lavoro anche sulla sicurezza, ha dei grossi problemi.

sabato 3 dicembre 2022

Meloni "costi quel che costi"

Nel suo libro autobiografico, Io sono Giorgia, Giorgia Meloni usa spesso, ne ho contate una decina, l’espressione “costi quel che costi”. La usa al termine di un ragionamento e di una promessa d’impegno e sempre per la realizzazione dei suoi progetti politici. Una sorta di draghiano whatever it takes, con cui l’ex presidente della Bce è diventato famoso nel mondo. La Meloni in quel suo “romanzo di formazione” rivela un carattere forte e deciso sicché oggi è conosciuta anche da chi non ha avuto modo di conoscerla prima, dai primi approcci politici giovanili, nel 1992, alle sue prime sortite da Presidente del Consiglio di questo primo mese e mezzo di vita del suo governo. Sanno tutti oggi con chi hanno a che fare. La Meloni è un tipo tosto. Sarà anche per questo che le femministe del nostro Paese, la comunità Lgbt e affini, per lo più comunisti, hanno ripreso ad usare, questa volta nei suoi confronti, slogan truculenti e striscioni con su scritto frasi datate 1968, che pensavamo sepolte sotto la coltre di una sinistra ammuffita e micotica. Nel corteo organizzato da “Non una di meno” contro la violenza sulle donne, sabato 19 novembre, le organizzatrici hanno fatto sfoggio di cannibalismo promettendole che le avrebbero “mangiato il cuore” e nelle nuove liste di proscrizione di soggetti da eliminare l’hanno messa in testa: “Meloni, fascista, sei la prima della lista”. Siamo tornati all’ “uccidere un fascista non è reato” e a tanta bella rimeria degli anni di piombo, che il comunista Mario Capanna definisce “formidabili” in un suo libro di qualche anno fa. Strano modo di manifestare contro la violenza sulle donne con slogan e cartelli di morte contro una donna. Ma i comunisti sono così, chi non è dei loro è un nemico da abbattere. No alla violenza sulle donne. Sì alla violenza sulla Meloni, che è donna e madre; ma per loro non è né una cosa né l’altra. È una fascista, e tanto basta. Temono che essa s’impegni a fare quanto ha promesso di fare “costi quel che costi”, anche se ha più volte rassicurato che non farà nulla contro i diritti acquisiti. E se la Meloni rassicura, è certo che manterrà l’impegno “costi quel che costi”. Questo non significa che non farà mai nulla di sgradevole per i comunisti, ci mancherebbe altro. Ed è appena il caso di ricordare che anche lei da donna e da cittadina ha dei diritti da difendere, in primis quello di preservarsi da ingiurie e diffamazioni personali. Sarebbe davvero assurdo che uno o una, solo per essere Presidente del Consiglio, nulla deve fare per difendere il suo onore. Chi rappresenta una carica istituzionale, a qualsiasi livello, tanto più al massimo livello, deve sapersi difendere da chi l’attacca senza una ragione dimostrabile. Chi non si cura di questo aspetto ed anzi lo ritiene non degno di considerazione significa che è il primo a non aver rispetto dell’istituzione che rappresenta. In realtà questo governo non ha fatto nulla contro le donne, neppure a quelle speciali di “Non una di meno” e alle viste non c’è nulla di cui preoccuparsi. Minacciare la Meloni perciò è solo farle violenza preventiva e gratuita, un manifestarle tutto l’odio comunista per il solo fatto che esiste come persona di idee diverse e che per questa sua diversità è diventata capo del governo. È noto che la Meloni ha querelato lo scrittore Roberto Saviano quando ancora non era Presidente del Consiglio per essere stata da lui definita “bastarda” in una trasmissione televisiva e che non intende fare remissione di querela stante anche l’insistenza dello scrittore a ritenersi nel giusto. Stessa sorte è toccata al quotidiano “Domani”, diretto da Stefano Feltri, per aver pubblicato che la Meloni avrebbe fatto una “raccomandazione” per favorire un produttore di mascherine anti Covid. Che cosa avrebbe dovuto fare la Meloni? Starsene in silenzio? Così avallando ingiurie ed accuse? Bene ha fatto a querelare. Bene fa a non recedere dalla querela fino a quando i diretti interessati non riconosceranno di aver avuto torto e non le chiederanno scusa, meglio con una spiegazione plausibile. Non c’è niente di meglio per giornalisti e uomini pubblici riconoscere pubblicamente di aver torto quando altro non hanno da dimostrare, anche se ciò comporta un ridimensionamento di quell’aura padreternale che spesso essi ostentano e sulla quale costruiscono una malintesa reputazione. Togliere la querela senz’altro da parte della Meloni sarebbe un atto di debolezza, incomprensibile ed equivocabile, che mal si concilia con un capo di governo che è abituato ad andare fino in fondo, appunto, “costi quel che costi”.

sabato 26 novembre 2022

Meloni e prima: c'è un'altra democrazia

Due recenti episodi, rubricati dagli avversari politici come due errori del governo Meloni, hanno messo in luce due modi diversi di porsi di fronte ai problemi del Paese da parte di chi governa. Uno è il decreto rave party e l’altro è la respinzione della nave Ogn Ocean Viking battente bandiera norvegese con 234 migranti a bordo. Gli oppositori hanno detto che il decreto rave party, scritto male e perciò pericoloso per le libertà dei cittadini, era inutile dal momento che le migliaia di partecipanti avevano sgombrato l’area occupata con i buoni convincimenti della polizia senza che essa ricorresse alla forza. Quanto alla respinzione dell’Ocean Viking, finita poi al porto di Tolone in Francia, gli oppositori accusano il governo di aver provocato un incidente diplomatico col presidente francese Emmanuel Macron. Ma, chiediamoci: come avrebbe agito un governo per così dire prima di Meloni nelle due situazioni? In questi ultimi anni lo abbiamo visto: nel peggiore laissez faire, vuoi per stanchezza, vuoi per abitudine, vuoi per calcolo. Nel primo caso, facendo finta di non vedere. Non è una supposizione, è una constatazione, è sotto gli occhi di tutti il comportamento dell’ex ministro dell’Interno Lamorgese: primum non videre. Nel secondo caso, il governo avrebbe fatto sbarcare tutti i migranti, secondo routine. Questo modo di fare è tipico di tutti i governi che hanno preso l’abitudine a non considerare importanti le esigenze e le sensibilità dei cittadini: non vedere, non sentire, non agire. Aspettare, ché tanto prima o poi passerà. Il governo Meloni, col nuovo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, nel primo caso, rave party, è intervenuto tempestivamente, e già questo è stato un segnale di discontinuità rispetto a prima. E lo ha fatto con la determinazione che non prometteva cedimenti. Il messaggio è stato recepito e i partecipanti, capìta l’antifona, hanno sgombrato tranquillamente, dopo aver fatto perfino la pulizia dei luoghi. Il che non rendeva meno importante approvare un decreto legge per la specifica materia dei rave party, che ormai in Italia se ne fanno parecchi all’anno. Si tratta di eventi che creano non pochi problemi di ordine pubblico oltre ai danni che spesso producono ai privati, proprietari dello stabile o della zona interessati, che non vengono risarciti. La fretta di dimostrare il cambiamento, in genere cattiva consigliera, ha creato dei problemi di elaborazione e interpretazione del testo che si lasciava facilmente sospettare di illiberalità e di incostituzionalità. Il governo non ha avuto difficoltà a ravvedersi e a rimandare al dibattimento in aula ogni aggiustamento. Ma quel che conta è che il governo Meloni ha opposto al blando surfare dei precedenti governi un deciso intervento. Sul caso dell’Ocean Viking la polemica delle opposizioni è tornata a battere il tamburo della presunta inadeguatezza del nuovo governo, che, per inesperienza, avrebbe creato un incidente diplomatico col governo francese. Ma anche in questo caso ciò che balza all’attenzione di tutti, purché tutti vogliano vedere e sentire, è che respingendo la nave carica di migranti in gran parte irregolari, il governo ha imposto all’attenzione europea il fenomeno migratorio del Mediterraneo, che da anni scarica le sue conseguenze sull’Italia. Macron ha accusato l’Italia di disumanità e intanto mandava cinquecento gendarmi alla frontiera italiana di Ventimiglia, dove ogni giorno dalle forze di polizia francesi vengono respinti decine e decine di migranti. Il caso non poteva che porsi all’attenzione di tutta l’Europa, che perciò ha fissato un vertice per elaborare un piano comune. Anche in questo caso il governo ha dato un messaggio di discontinuità rispetto a prima quando tutto finiva per perdersi nel silenzio e nel lasciar fare. Ben lungi dal voler dire che il governo Meloni ha già risolto due problemi, peraltro non nuovi, si vuole semplicemente dire che ha dimostrato di tenere in considerazione la gente comune, la stessa che col voto ha fatto capire come la pensa su rave party e migrazione. Non è cosa nuova la decisionalità dei governi di destra. Spesso le democrazie, cosiddette buoniste, finiscono per scavare abissi di distanza dalla gente comune quando non vogliono o non sanno difenderne gli interessi, a volte anche spiccioli, relativi al malfunzionamento dei servizi e delle istituzioni. Forse sbaglia la classe dirigente ad appiattirsi troppo sui desiderata della gente comune, ma sicuramente – non forse – sbaglia ad adottare comportamenti o provvedimenti che vanno decisamente contro il suo pensiero, che a volte sembrano quasi sfidarlo, liquidandolo come populismo. Un governo, che voglia essere davvero democratico, di destra o di sinistra, nel senso che è frutto di libere elezioni, deve saper conciliare il compito di guida col soddisfacimento delle esigenze quotidiane degli elettori. Un popolo soddisfatto si lascia più facilmente guidare di un popolo indispettito.

sabato 19 novembre 2022

Letizia Moratti o del girellismo

Ecco l’ultimo caso che avrebbe fatto prendere carta e penna al poeta satirico Giuseppe Giusti per cantare le gesta del Girella di turno, anzi della Girella. Letizia Moratti, storica esponente del centrodestra berlusconiano, di recente assessore e vicepresidente della giunta lombarda di Attilio Fontana, si è dimessa per candidarsi alle prossime regionali con una sua lista appoggiata dal terzo polo di Calenda e Renzi, le trottole della politica italiana. Uno può dire: che male c’è? In tempi di giravolte, chi si ferma è perduto. Per restare sul pezzo, più o meno seriamente, la già ministro della Repubblica e sindaco di Milano, ha in mente di attuare un suo programma e siccome il suo centrodestra non glielo consente non candidandola alla presidenza della Regione, ecco che lei se ne va e senza cambiare minimamente idee e progetti – continua a dire che non è di sinistra – si candida con un ipotetico centro pigliatutto, come l’asso nel gioco delle carte napoletane. Questi i fatti, nudi e crudi. Se il centrodestra le avesse assicurato la candidatura lei sarebbe ancora lì coi suoi amici e compagni di cordata. Ma in Italia, si sa, per unire due punti, la via più breve non è una linea diritta, ma una spirale. Per giustificare la sua virata la Moratti dice che non esiste più il centrodestra ma la destra dura e pura, nella quale lei non si riconosce. Insomma non è cambiata lei, sarebbero cambiati gli altri. La solita scusa dei Girella. E a chi le fa presente che fino all’altro ieri, non un anno fa, lei era al governo della Regione accanto a quelli che ora accusa di non essere i moderati che lei predilige, risponde che lei si sente di poter dare di più da presidente, con la sua bontà e la sua competenza, ampiamente dimostrate in passato; e lì a snocciolare il rosario delle sue imprese da che è in politica. Da chi pensa la Moratti di prendere voti? Escluso che li possa prendere dal suo consueto bacino, il centrodestra, spera, anzi si dice convinta, di prendere voti dal Pd, dai Cinque Stelle e perfino da quelli che non votano, i quali, per sua grazia, invece di astenersi, questa volta, andrebbero a votare attratti dalla sua luce. I conti la Moratti se li è fatti puntando decisamente sui voti che alle ultime elezioni nazionali ha preso il terzo polo in Lombardia, poco più del 10%. A lei basterebbe arrivare seconda dietro il candidato di centrodestra per assicurarsi la vittoria al secondo turno. Tutti gli oppositori del centrodestra, infatti, si coalizzerebbero in una sorta di comitato di liberazione nazionale pur di sconfiggere il polo di Meloni-Salvini-Berlusconi. È un ragionamento che in teoria potrebbe filare. Ma in politica i ragionamenti fondati sulle aspettative e non su dati certi è dimostrato che non reggono alla prova dei fatti. Oggi le tendenze dell’elettorato vanno in favore del partito della Meloni e del M5S. Chi potrebbe riversare i suoi voti sulla Moratti potrebbe essere il Pd, ma questo partito, che sta vivendo la sua crisi più grave da quando è nato, ha già un suo candidato, Pierfrancesco Majorino. La situazione si presenta in maniera asimmetrica, come alle ultime Politiche, da una parte il centrodestra più o meno compatto, dall’altra almeno tre formazioni, Pd-Terzo Polo-M5S, che difficilmente troverebbero la capacità di unirsi e fare fronte comune. Perché né il Pd né il M5S sono propensi a dare i loro voti alla Moratti? Perché, se lo facessero, si suiciderebbero. Il Pd ha ragione di tenere duro per non perdere del tutto il contatto con l’elettorato di centrosinistra. Il M5S è in ascesa e non sarebbe proficuo interrompere una tendenza per un successo, che, tutto sommato, sarebbe degli altri. È facile scomodare i comitati di liberazione nazionale, ma questi non nascono se non in presenza di un nemico reale. Quando si formarono in Italia sul finire della seconda guerra mondiale c’era da sconfiggere il fascismo, un nemico reale. Oggi non esiste questo nemico. Le ultime elezioni politiche hanno dimostrato che l’invocato ciellenismo è oggi improbabile, se non impossibile. Non ha funzionato alle ultime Politiche, non funzionerebbe ora. Le varie formazioni politiche che si oppongono al centrodestra devono trovare in se stesse le ragioni della politica, non fuori. Si vota per vincere, non per non far vincere. I sostenitori della Moratti, quelli che dicono che il Pd farebbe bene ad appoggiarla, più che altro sono uomini d’opinione, non di partito, sono politicamente irresponsabili e pensano che il Pd debba chiudere bottega. Pensano ad un nuovo processo politico, di cui al momento non si riesce a vedere nulla. E sperano che comunque qualcosa accadrà. Con la Moratti o senza.

sabato 12 novembre 2022

Nell'Europa dell'ognuno per sé

L’ira funesta di Emmanuel Macron nei confronti dell’Italia per essersi rifiutata di accogliere i migranti della nave Ong Ocean Viking, dirottati al porto francese di Tolone col suo stesso consenso, non è stata solo sproporzionata ma anche rivelatrice di una personalità umorale e vanitosa. La grandeur, il gallico senso di superiorità, si è sentita svilire. Marine Le Pen e i sovranisti francesi lo hanno subito attaccato per aver accolto migranti che l’Italia non aveva voluto, costringendolo a dire che non l’avrebbe fatto mai più e a inviare 500 agenti della Gendarmerie ai confini con l’Italia, per prevenire altri arrivi di migranti via terra. Poi Macron ha chiesto all’Europa di interrompere con l’Italia ogni accordo sui migranti, mentre il suo ministro dell’Interno Gérald Darmanin ha accusato l’Italia di “mancanza di umanità” e il suo omologo italiano di “mancanza di professionalità”. E poi dicono Putin..! Tutto questo è inaudito. Per restare all’anno in corso, dal primo di gennaio ad oggi, l’Italia ha accolto 90.000 migranti e secondo gli accordi di giugno l’Europa avrebbe dovuto ricollocarne 8.000, 3.500 dei quali in Francia, ma a tutt’oggi solo 117 di essi hanno lasciato l’Italia. Diplomazia vuole che si dica che va tutto bene. Dire, invece, come stanno veramente le cose si rischia la rottura. E rottura è stata. Avrà fatto male Salvini ad esultare con una delle sue frasi trionfalistiche, “l’aria è cambiata”, ma Macron si è rivelato semplicemente immaturo. Solo l’arroganza tipica dei francesi poteva arrivare ad accusarci di disumanità. Da anni l’Italia, grazie al lasciar fare di tanti governi che si sono succeduti, di centrodestra e di centrosinistra, ha accolto centinaia di migliaia di migranti, mentre in barba agli accordi europei sulla loro ricollocazione si è lasciato tutto scivolare nell’indifferenza. Oh, come sono bravi gli italiani! Nel frattempo la sicurezza dei cittadini nel nostro Paese è peggiorata. Le nostre città sono sempre meno vivibili. Le stazioni ferroviarie e dintorni sono accampamenti di migranti che non sanno né dove andare né cosa mangiare né dove bere né dove fare i loro bisogni. Purtuttavia questa gente, abbandonata a se stessa – l’accoglienza è un’altra cosa! – deve campare. Immaginiamoci come. Una porcheria indegna. Il governo Meloni ha voluto lanciare un segnale di discontinuità e porre il problema della migrazione clandestina sotto gli occhi dell’Europa intera in maniera diversa da come è stato posto finora. Questo aveva promesso agli elettori. L’Italia non può continuare ad affrontare da sola un fenomeno così vasto e complesso, non può essere più il porto franco di tutti. È vero che anche gli altri paesi europei hanno gli stessi problemi nostri, soprattutto Germania e Francia, paesi che vengono raggiunti per vie diverse dai migranti e ne hanno più di noi in termini quantitativi e percentuali, ma questo non rende meno grave la situazione. Perciò è nell’interesse di tutti risolvere il problema in maniera strutturale. L’atteggiamento finora avuto dai vari paesi europei è quello di ognuno pensi per sé, all’insegna dell’ipocrisia tipica di certe classi dirigenti, che i problemi del Paese più che risolverli li imbiancano. È di tutta evidenza che nessuno vuole i migranti, per lo meno gli irregolari o clandestini. Se così non fosse i vari governi europei non pagherebbero Turchia e Libia per trattanerli in casa loro. E non scomodino sentimenti umanitari questi signori, sanno perfettamente che i trattenuti in Turchia e in Libia vivono in condizioni disumane. Lo sanno, ma siccome non li vedono – come si dice? – occhio non vede cuore non duole. Turchi e libici ogni tanto bussano a denari e ci ricattano facendo partire fiumane di migranti. Le cosiddette navi Ong (Organizzazioni non governative), appostate h. 24, d’accordo con gli scafisti, li raccolgono in mare e ce li consegnano, con la formula “prendere o prendere”. Così assistiamo ad un’assurda invasione, contro cui le classi dirigenti europee, italiane incluse, hanno dimostrato di essere falsamente umanitarie e veramente incapaci. Macron sa bene di essere il Presidente di una Francia che non è padrona di tutto il suo territorio, se è vero che ci sono zone nelle varie città, le cosiddette banlieue, dove la polizia non può nemmeno affacciarsi. La sfuriata di Macron è il tipico fallo di frustrazione. Il governo Meloni vuole mettere fine a questo scandaloso processo di resa incondizionata. Fino ad ora i nostri governi, per non urtare la suscettibilità gallica o teutonica, hanno accettato tutto, ammantandolo di umanitarismo. Ultimamente, per garantire un posto a tavola per Draghi, e sentirci importanti al pari di francesi e tedeschi, abbiamo taciuto su tante cose. È tempo di cambiare. Ma per questo dobbiamo essere tutti d’accordo. La prima seria operazione da fare è eliminare le navi Ong. Questo non significa prenderle a cannonate, come qualche stupido ironizza, ma sapere chi le finanzia e per quali scopi, ed intervenire di conseguenza nei modi e nei termini più opportuni. La seconda operazione è regolare i flussi migratori, che significa accogliere solo quei migranti a cui siamo in grado di fornire lavoro e casa. Finché ognuno cerca di salvare il proprio orto continueremo a prenderci in giro e forse, continuando, prima o poi arriveremo a qualcosa di più. L’incidente della Ocean Viking è servito proprio per arrivare ad una rottura, a far esplodere il caso, che oggi è preludio di un vertice europeo per affrontare finalmente il problema.

sabato 5 novembre 2022

Il governo c'è e non si nasconde

All’albero dell’opposizione pendono sconsolati gli esponenti di una parte politica del Paese che da diversi anni avevano scambiato la democrazia per una sorta di monarchia per grazia di Dio. Si erano perfino dimenticati che le monarchie da secoli si sono trasformate in costituzionali, ossia tali per volontà della nazione. Per questi inconsolabili l’eredità del potere era una sorta di diritto divino. Aver perso le elezioni è stato per loro una tal botta da dimenticare il bello della democrazia, che è sempre il poter tornare al potere attraverso nuove elezioni. Qualcuno glielo dovrebbe ricordare. Appendersi all’albero, dove da sempre celebravano i loro sabba, è un gesto che non produce nulla. I primi provvedimenti del governo Meloni sono stati per condannare i rave-party, cogliendo l’occasione dell’ultimo in quel di Modena; per reinserire al lavoro i 4.000 medici no vax; per alzare il tetto del contante. Contro questi tre provvedimenti gli sconsolati dell’opposizione si sono gettati a testa bassa come tori davanti al rosso della muleta. Rave-party. Il problema esiste in Italia e in Europa. Migliaia di giovani provenienti da ogni parte del continente si danno appuntamento in una certa località e per cinque-sei giorni si sballano fra musica e droga, al di fuori e contro ogni legge. Il malevento comporta seri problemi a tutta la zona in cui avvengono questi raduni, a parte ogni altro reato, dall’occupazione di suolo pubblico o privato allo smercio di stupefacenti. In alcuni paesi europei il problema è stato in qualche modo disciplinato. “Polizia italiana è brava” dicono questi giovani, “perciò veniamo in Italia”. Da noi si è lasciato tutto alla spontaneità di tutti. Ci sono stati in passato nel nostro Paese rave-party devastanti, senza che le autorità preposte intervenissero. Ora, si può discutere quanto si vuole sul testo del decreto legge approvato dal governo e sulla tempistica, ma è indubbio che fosse una necessità. In Parlamento potrà essere integrato e migliorato. Il Parlamento sta per questo. Sembra che gli sconsolati se ne siano dimenticati. Non è ammissibile che essi gridino al lupo al lupo vedendo nell’iniziativa del governo un tentativo di reprimere ogni forma di dissenso e di manifestazione pubblica in Italia. Il governo Meloni, per essere un governo di destra, non necessariamente è come lo scorpione che irresistibilmente finisce per pungere la rana che lo trasporta. Qui la rana è il popolo che l’ha votato. Medici no vax. Gli sconsolati dicono: perché reinserire al lavoro i medici no vax dal momento che meritavano di saldare la loro condanna come accade in ogni paese in cui vige lo Stato di diritto? Giusto! Quei medici andavano puniti fino in fondo; ma non per sempre. Non esistono condanne per sempre in Italia, neppure per i capi dei capi mafiosi. Essi andavano puniti e lo sono stati con la sospensione dal lavoro e dallo stipendio. Ma oggi la situazione, dal punto di vista pandemico, è diversa. Non si corrono più gli stessi rischi, grazie anche al vaccino e al lavoro fatto dai precedenti governi. C’è una nuova emergenza. Mancano medici, per cui tenere fuori dal lavoro 4mila di essi è un non senso. Non voler poi portare a conclusione una vicenda giudiziaria per utilizzarne pragmaticamente gli esiti è davvero demenziale. Lo Stato e chi ne gestisce il potere devono avere il coraggio di avere “torto” quando c’è un superiore fine da raggiungere. Ed oggi è di pacificare il Paese, di utilizzare al meglio le risorse umane e professionali esistenti. Tetto del contante. Il governo ha ritenuto che aumentando lo spendibile in contante possa far circolare di più il denaro e favorire i consumi. La pecunia otiosa produce crisi. Non dello stesso avviso gli sconsolati, che hanno considerato il provvedimento un favore ai soliti evasori fiscali. Da anni in Italia si sacrifica la libertà per evitare che di essa ne approfittino i malviventi dell’evasione, della corruzione e delle mafie. Ma lo Stato non può rinunciare alle sue prerogative di garantire i diritti ai cittadini per evitare che certe libertà degenerino in reati. Lo stato concede ai cittadini ogni legittima libertà, compresa quella di spendere a libero piacimento del proprio, ma poi deve anche intervenire se qualcuno ne approfitta per trasformare una libertà in una scorciatoia per delinquere. A tirar della somma. In rapporto a questi tre provvedimenti il governo si è mostrato un po’ precipitoso (rave-party) e un po’ indeciso (tetto del contante e sanatoria dei no vax); ma è il prezzo che deve pagare una classe dirigente che non ha ancora una dimestichezza di governo. Tuttavia questi tre provvedimenti dimostrano che il governo c’è e che non si nasconde di fronte alle necessità del Paese.

sabato 29 ottobre 2022

Meloni: nuovo giro, nuovo vincitore

Tra le frasi più significative pronunciate da Giorgia Meloni dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, quale Presidente del Consiglio, rigorosamente al maschile, si fa notare quella sul fascismo. “Non ho mai avuto simpatia per i regimi dittatoriali”, aggiungendo “fascismo compreso”. Poteva non dirlo. Poteva fermarsi genericamente ai regimi dittatoriali. Ha voluto esplicitare il pensiero: fascismo compreso. Perché? Per compiacere i suoi avversari che non sanno come attaccarla e ricorrono ai soliti mezzucci? Se così fosse, se cioè avesse ceduto alla tentazione di compiacerli, sarebbe grave per la sua saldezza caratteriale, che finora l’ha contraddistinta. Agli attacchi di fascismo lei non ha mai dato importanza. È incontestabile che in passato di dichiarazioni di simpatia per il fascismo e per Mussolini in particolare ne ha fatte. Più di recente ha detto che il fascismo è materia per storici. Insomma, a dire il vero, un certo imbarazzo la questione glielo provoca. Ma, per negare l’evidenza – e lei lo ha fatto – occorre avere una ragione forte. E, allora, perché la sortita antifascista? Quale la ragione? Per spregiudicatezza, alla Enrico IV di Francia e di Navarra, che disse allegramente “Parigi val bene una messa”, lui che era calvinista? Non pare. A voler essere superstiziosi, non le converrebbe neppure, visto che il re francese finì per essere ucciso da un cattolico fanatico, offeso da tanta “sovrana” spudoratezza. Le ragioni sono due. Una è che si è resa conto che restare optime in certi ambienti è necessaria la forma. Nello specifico, è necessario dire che il fascismo è il male assoluto. Lei non l’ha messa proprio in questi termini, ma si è avvicinata. Di dichiarazioni del genere è probabile che ce ne saranno altre. La seconda ragione, assai più convincente e importante, è politica e non ha nulla a che fare con mancanza di carattere o spregiudicatezza. La Meloni si rende perfettamente conto che un giro della sua vita – ma non solo della sua – si è concluso. Quel partito, dal quale proviene, dopo tante tribolazioni, durate ben settantasei anni, è finalmente giunto al potere per vie assolutamente democratiche, dimostrando che tutte le persecuzioni subite erano pretestuose. Che ciò sia accaduto proprio ad un mese dal Centenario della Marcia su Roma è una di quelle coincidenze-scherzi che fa la storia. Il primo giro la Meloni lo ha concluso vittoriosamente. Il nuovo, quello iniziato dal suo insediamento, è un altro giro, che nulla o quasi ha a che fare col primo. Qui si tratta di governare, di dimostrare veramente che il fascismo è roba da storici e da industriali dell’editoria, che su Mussolini e il fascismo non finiscono di realizzare affari d’oro. Basta considerare tutte le iniziative editoriali, cartacee, televisive e cinematografiche di questi giorni, sorte per la circostanza del Centenario, in gran parte autentiche speculazioni economiche, come fanno i pasticcieri per le evenienze di Pasqua e Natale. Governare, si diceva. Al netto dei problemi da risolvere quotidianamente per la fisiologia dello Stato, della Nazione e della Società, dove pure la qualità e l’efficacia dei provvedimenti sono importanti, il nuovo giro riguarda un progetto politico che si fonda sulla conservazione dei più importanti valori di Dio, di Patria e di Famiglia. Un’impresa, ardua che si è voluto annunciarla con alcune importanti scelte, come a dire che dal mattino si vede il buon giorno. L’elezione dei due presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, “giustamente” è stata definita dagli avversari come fortemente identitaria. Per la verità hanno usato il termine “incendiaria”, ma si può capire, data la non ancora elaborata rabbia per la sconfitta. Anche il cambiamento dei nomi di alcuni ministeri è un avviso, un annuncio, come spesso si dice in politichese, che però è significativo. Altro, poi, quel che seguirà alle promesse. Il primo dato, dunque, che va considerato di questo nuovo giro, non è comprensibilmente di raggiungere determinati obiettivi, fortemente identitari, ma di durare cinque anni, nel corso dei quali avviare – questo è importante! – tutta una serie di inversioni di tendenze in materia dei su riferiti valori. Non si tratta, infatti, di obiettivi facilmente raggiungibili, né nel breve né nel lungo termine. Certi processi durano molti anni. Ma se questo processo non sarà avviato, se non si vedranno certi risultati, che comprovino l’avvenuta inversione di tendenza in leggi e provvedimenti, difficilmente la Meloni potrebbe vincere questo nuovo giro. Salvo che proprio per rimanere in sella non farà che abituarsi all’andazzo tipico del non fare e lasciare che la deriva iniziata dai partiti di sinistra dei precedenti governi continui. In questo caso, per tornare ad Enrico IV, Parigi non varrebbe più una messa ma una cento mille…e Dio sa quante!

sabato 22 ottobre 2022

Giorgia Meloni, prima donna d'Italia

Da quando è apparso, prima delle elezioni, molto probabile e poi dopo, sempre più certo, che Giorgia Meloni sarebbe stata la prima donna d’Italia ad essere incaricata di formare il governo del Paese nella storia della Nazione, e perfino dopo aver ricevuto l’incarico e giurato nelle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, politici, giornalisti, osservatori e critici, hanno ripetuto milioni di volte la stessa identica frase: “Meloni prima donna nella storia della Repubblica” a diventare capo del governo. Ma l’Italia non è nata il 2 giugno 1946, prima della Repubblica c’è stato il Regno d’Italia. Fulmine, ce ne fosse stato uno a dirlo! Sembra cosa da niente, un volersi titillare sulle ragnatele del dibattito pubblico. E, invece, no. Perché il lapsus, voluto o involontario, rivela una falsità storica e un’impostura intollerabili. A furia di negare verità storiche conclamate, per pura propaganda politica, quasi è diventata una verità assoluta: prima della Repubblica c’era il fascismo ma prima del fascismo c’era il nulla. Tanta ignoranza è figlia dell’abitudine di usare la storia come conviene, deliberata negazione di termini sui quali per certa cultura politica grava la damnatio nominis, come per Regno o per Nazione. Sta di fatto che certi comportamenti di antifascisti a diciotto carati somigliano tanto a certi insegnamenti di Joseph Goebbels, il ministro della propaganda nazista: ripetuta più volte una menzogna diventa verità. La verità incontrovertibile è che Giorgia Meloni è la prima donna nella storia d’Italia a diventare Capo del governo. Altrettanto incontrovertibile – repetita juvant – è che l’Italia è Stato sovrano e indipendente dal 17 marzo 1861, quando fu proclamato il Regno d’Italia. Chiedo scusa per l’ovvietà. La Meloni è la prima donna d’Italia in altro e più compiuto senso. È la prima Presidente del Consiglio che proviene dalla parte politica maledetta, la destra sovranista e patriottica, da quel Msi che aveva come simbolo quella stessa fiamma che ancora campeggia nel simbolo di Fratelli d’Italia, il partito che lei ha fondato con Guido Crosetto e Ignazio La Russa. Che ciò sia accaduto a cento anni dalla presa del potere da parte del fascismo sembra quasi una nemesi. È riuscita ad imporsi su vecchie abitudini politiche e su vecchi telamoni, che mai avrebbero pensato di essere demoliti da una donna. Le lucide mattane di Silvio Berlusconi alla vigilia dell’incarico a Meloni da parte di Mattarella si sono rivelate autentici attentati al normale scorrere delle cose, un voler portare il Paese in una direzione diversa, un tentativo, per fortuna, andato a monte. Una lezione per tutti, che dimostra che oggi in Italia o in qualsiasi paese che faccia parte dell’Unione Europea, bisogna fare i conti con l’alleanza in cui si è collocati. Se consideriamo che l’Europa è oggi “in guerra” con la Russia, se pure non direttamente guerreggiata, avere rapporti col suo presidente Putin potrebbe passare per una sorta di connivenza col “nemico”. C’è poco da scherzare di fronte alla furia che da otto mesi si è abbattuta sull’Ucraina, di cui l’Europa e la Nato hanno preso le difese, di fronte alla minaccia nucleare. Le sdolcinature in modalità Vodka-Lambrusco di Berlusconi e Putin fanno male a chi sta soffrendo per una guerra ingiusta e devastante. La Meloni ha dimostrato in tutte le fasi del suo successo, campagna elettorale e formazione del governo, di saper imprimere un ritmo sostenuto, di andare diritta al traguardo senza perdersi in rallentamenti e giravolte, trovando sintonia di vedute e di tempi nel Presidente Mattarella. Berlusconi ha tentato invano fino all’ultimo di sgraffignarle delle “limature” alla formazione del governo, invitandola a pranzo, secondo i suoi soliti modi di fare. Il decisionismo dimostrato dalla Ragazza della Garbatella è pari alla sua freddezza di non scomporsi di fronte agli attacchi dei suoi avversari, palesi e occulti. E sì che in politica quelli che non mancano mai sono proprio i nemici, gli avversari, vecchi e nuovi. Molto probabilmente per il governo della Meloni non tutto scorrerà liscio come l’olio. Il suo governo nasce con inevitabili mugugni e rancori. I suoi due alleati, Berlusconi e Salvini, ma non trascurerei neppure i cosiddetti “moderati”, altro non aspettano che farle gli sgambetti, metterla in difficoltà, sabotare o rallentare importanti iniziative. È il solo modo per riprendersi la rivincita, per vendicarsi delle sue decisioni, per ridimensionare quella che oggi sempre più spesso viene indicata come “una donna sola al comando”.

sabato 15 ottobre 2022

Il sovvertimento certificato

Giovedì, 13 ottobre 2022, è un giorno speciale per l’Italia. A cento anni dalla Marcia su Roma, dalla presa del potere del fascismo, al Senato della Repubblica il sovvertimento delle elezioni del 25 settembre è certificato. Il “fascista” Ignazio La Russa è stato eletto Presidente del Senato, seconda carica dello Stato. Dopo il discorso di Liliana Segre, chiamata a presiedere l’assemblea della prima riunione della XIX legislatura, un discorso tutto antifascista, come era normale che fosse, ecco il discorso di insediamento di La Russa, un “fascista” mai rinnegante, mai pentito, benché, come era opportuno che fosse, defascistizzato per la circostanza. Il Senato, lo si leggeva nei volti degli antifascisti, era una camera ardente. Il morto era nei musi lunghi, nelle espressioni incredule, nel rammarico e nei ghigni di circostanza dei tanti antifascisti, che sull’antifascismo hanno creato le loro fortune politiche per ben 76 anni di Repubblica, loro, i loro padri e i loro nonni. Il morto non era però l’antifascismo, come verrebbe di dire per stare nella metafora, ma il potere politico che di antifascismo si è nutrito in tutti questi anni. A conferma della morte dell’antifascismo è arrivato il voto in favore di La Russa di una ventina di convenzionali antifascisti. Il fascismo e l’antifascismo restano due categorie politiche importanti, che hanno ed avranno sempre un senso, ma come strumenti di lotta politica sono due cadaveri eccellenti. Lo hanno capito prima i fascisti, fin dalla nascita della Repubblica, quando per loro non c’era orizzonte ed era chiaro che essere fascisti voleva dire soltanto conservare un minimo di dignità come uomini di fronte al dilagare spudorato e vergognoso dell’antifascismo. Non che non ci fossero antifascisti autentici, c’erano, e come! Ma erano una minoranza ed erano in gran parte gli stessi che avevano fatto dell’antifascismo durante il regime e per questo erano stati emarginati e perseguitati; c’erano antifascisti autentici ed erano i convertiti e i pentiti sinceri. Ma la stragrande maggioranza era costituita dai soliti che in genere si riconoscono nel pensiero dominante per aver più e migliori opportunità di affermazione e scalata sociale nei più vari settori della vita. Non c’erano più i fascisti veri. Lo hanno capito invece con ritardo e con difficoltà che fascismo e antifascismo sono morti gli antifascisti, perché non è facile rinunciare ad uno strumento politico che tanto latte ha munto. Lo si è visto durante la campagna elettorale che ha arriso a Giorgia Meloni, che gli antifascisti non hanno avuto il coraggio di accusare esplicitamente di fascismo, anzi hanno più volte detto che era controproducente darle del fascista, dal momento che in Italia, stando ai sondaggi della vigilia, aveva il 25% degli elettori dalla sua parte. Ci voleva del coraggio ad accusare di fascismo tanta gente. Qualche avveduto antifascista ha messo in guardia l’ambiente: se poi vince la Meloni non si può dare al mondo l’immagine dell’Italia come di un paese fascista. Ma era un calcolo che non hanno saputo gestire. In realtà la Meloni veniva continuamente bersagliata dagli antifascisti irriducibili per le sue performance comiziesche e le rimproveravano di essere doppia, di esibire un volto bonario e rassicurante nelle vesti istituzionali, e un altro, violento e aggressivo, in quelle di partito. Per non parlare di tutte le ingiurie rivoltegli dagli antifascisti scatenati dei centri sociali durante i suoi comizi, i quali cercavano l’incidente per passarlo poi di competenza ai loro “maggiori” per la solita speculazione. Il popolo italiano, il 13 ottobre, ha avuto modo di toccare con mano l’avvenuto sovvertimento nei due discorsi, della Segre prima e di La Russa poi. La Segre ha fatto un discorso tutto incentrato sulla sua condizione di ebrea deportata, sulla bellezza e la forza dell’antifascismo, sulla centralità del Parlamento, su quel sistema di libertà che le aveva consentito di arrivare un giorno ad essere seduta sullo scanno più alto del Senato della Repubblica. La Russa non ha rinnegato niente del suo passato ed accettato tutto del presente, che ha recepito dalle parole della Segre, ed entrando nello specifico ribadiva che le date storiche dell’antifascismo, del 25 aprile, del 1° maggio e del 2 giugno, sarebbero rimaste fondative della Repubblica a garantire la continuità di certi valori. Poteva dire e fare diversamente? La sua proposta di aggiungere anche tra le feste nazionali anche il 17 marzo 1861, data della proclamazione del Regno d’Italia, era solo una nota identitaria che nulla aveva a che fare col fascismo e con l’antifascismo, un omaggio al sovranismo, di cui il suo partito si fregia e si pregia. Un passaggio, questo, che è stato sottovalutato dagli osservatori, specialmente interessati dei partiti avversi. Invece è importante, perché l’Italia esiste come Stato sovrano dal 1861 non già dal 1945.

domenica 9 ottobre 2022

Cari camerati del M5S

Gran parte di voi molto probabilmente non sa la storia dell’Italia del secondo dopoguerra; e questo non è né un reato né un peccato. Diventa una cosa e l’altra, però, quando non si vuole saperla mentre si pretende di imporsi come forza politica nuova priva di pregresse geniture. Che si può anche capire, non volendo avere responsabilità alcuna su quanto è accaduto ieri e ieri l’altro, che in politica conta moltissimo. Quando il Movimento 5 Stelle si propose nell’agone politico italiano nei primi anni Dieci e partecipò alle elezioni del 2013 sull’onda degli spettacoli sguaiati del comico Beppe Grillo, tutti concludentisi col famoso Vaffa, rimasi sconcertato dal fatto che moltissime persone serie, non tutte giovanissime, che per anni erano state missine ora si dicevano orgogliosamente e convintamente dei Cinquestelle. Persone che alla politica avevano voluto bene per anni in maniera disinteressata anche se non ricambiate e anzi “democraticamente” maltrattate. Chi erano queste persone e da dove venivano? Prima del M5S in Italia c’era stato un altro movimento, il Movimento Sociale Italiano, fondato nel 1946 dai reduci della Repubblica Sociale Italiana. E prima ancora c’era stato il Fronte dell’Uomo Qualunque, fondato nel 1946 da Guglielmo Giannini, direttore dell’omonimo giornale satirico, che lo stesso aveva fondato a Roma nel 1944. Fra queste due esperienze politiche intercorrevano evidenti parentele, l’una e l’altra si riconoscevano nell’antipartitismo e nell’anticomunismo e si esprimevano l’una con la gravità del serio (Msi), l’altra con la satira del faceto (Uomo Qualunque). L’una e l’altra furono accomunate dal sistema politico dei partiti nell’emarginazione quando non nella persecuzione, vedendo in essi, quel sistema, tracce di fascismo e di antipolitica. Il Fronte dell’Uomo Qualunque ebbe vita breve. Non così per il Msi, che continuò per diversi decenni, fino al 1994-95, quando cambiò nome e divenne Alleanza Nazionale, conservando la Fiamma. Fino agli inizi degli anni Novanta, prima del cosiddetto sdoganamento di Berlusconi, il Msi era stato sempre escluso dal sistema partitico italiano a causa delle sue ascendenze fasciste nonostante i tentativi, numerosi, fatti per inserirsi nel gioco democratico. Ma la democrazia italiana non è stata mai perfetta, non è stata mai una retta ma un segmento, è stata una democrazia di parte, detta dell’Arco costituzionale, chiusa a quei partiti che non avevano avuto parte alcuna nella scrittura della Costituzione italiana, come era accaduto al Msi. A questo sistema cosiddetto democratico, ma partitico, il Msi serviva come presenza e costante minaccia fascista nella formula degli opposti estremismi, salvo che l’altro estremismo era il Pci, che non era nel governo ma era nell’Arco, con tutti i privilegi e gli onori connessi, compreso quello di essere sempre più attratto e accolto nel governo. I missini, invece, venivano sistematicamente esclusi dalla vita politica del Paese e questo alimentava in essi rancore e ribellismo. Inquieti e ribelli, insomma, perché troppo avevano sopportato e troppo a lungo. Il missino-missino era diventato rancoroso e ribelle, con accarezzamenti anche dilettantescamente eversivi, che invano i dirigenti del partito condannavano. Uno dei più colti intellettuali dell’area esclusa, lo storico e musicologo Piero Buscaroli, ripeteva spesso di sentirsi nell’Italia dell’Arco costituzionale un sopravvissuto in territorio nemico. E come lui, evidentemente, tantissimi altri missini. Tutta questa premessa, cari camerati Cinquestelle, per dire che rancoroso e ribelle è stato anche il Movimento fondato da Beppe Grillo. Con la differenza che mentre per i missini nulla ha mai fatto il sistema arcostituzionale per recuperarli alla democrazia, anzi li ha respinti, per i grillini non c’è stato nessun problema di inserimento. A Grillo è stato concesso di entrare e di uscire dal codice penale a suo piacimento quando nelle piazze insultava e diffamava a dritta e a manca. Le condizioni politiche erano cambiate fin dal 1989 con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Urss e del comunismo, mentre l’Arco costituzionale si poteva dire crollato sotto i colpi di Tangentopoli. Fu un’impressione la mia che molti grillini, come dicevo in apertura, erano stati del Msi e i più giovani di essi cresciuti in famiglie di missini sfegatati e rabbiosi. Alcuni erano transitati dal movimento di Mani Pulite e dal partito di Antonio Di Pietro l’ “Italia dei Valori”. Molti di essi li conoscevo personalmente. Il che faceva aumentare il mio sconcerto. La mia impressione divenne certezza quando seppi che alcune famiglie di importanti esponenti grillini erano state tradizionalmente missine, come quelle di Alessandro Di Battista e di Luigi Di Maio, e che addirittura il papà di Di Battista teneva a dire che lui non era missino ma fascista, come molti altri che per rabbia dicevano la stessa cosa. Non v’è dubbio che molto è cambiato in Italia, in Europa e nel mondo dagli anni della partitocrazia della cosiddetta Prima Repubblica e dunque si capiscono benissimo i cambiamenti anche personali. Nulla da dire sui tanti Cinquestelle che oggi legittimamente cercano di darsi una identità politica fuori dal generico populismo grillino. Si osserva tuttavia che il tentativo di Giuseppe Conte, leader oggi del partito, di dare al Movimento un’etichetta di sinistra va a sbattere contro una realtà che la storia registra come diversa da quella che essi s’immaginano. Una storia non remota, ma appena di quattro-cinque anni fa, quando lo stesso Conte, uno dei tanti che valeva uno, era a capo di governi in successione diametralmente opposti. Non bastano reddito di cittadinanza e bonus vari per legittimarsi di sinistra. Ancora oggi io vedo in molti Cinquestelle l’antica Fiamma del Msi e il Torchio dell’Uomo Qualunque. Il discorso vale la pena di approfondirlo.

domenica 2 ottobre 2022

Destra: finito un percorso se ne avvia un altro

Fuor da ogni intento propagandistico, che sia a favore o contro Fratelli d’Italia, il successo elettorale del 25 settembre del partito di Giorgia Meloni rappresenta l’ultimo tratto del postfascismo missino, essendo innegabile la derivazione genetica dal partito fondato il 26 dicembre 1946 da Almirante e camerati. Fu quella una scelta di testimonianza, non più disperata come era stata quella fascista di Salò, ma con una prospettiva, di avanzare in democrazia senza rinnegarsi. Questo voleva dire la Fiamma Tricolore con la scritta MSI: una speranza. Il tempo avrebbe fatto il resto. Da allora il partito ha conosciuto diversi tentativi di sopravvivenza, in ognuno dei quali come costante c’era il perseguimento della legittimazione per una partecipazione democratica al dibattito politico del Paese e ove fosse stato possibile al governo. Dopo il drammatico tentativo di inserimento democratico col governo Tambroni nel luglio del 1960, conclusosi coi moti di piazza della sinistra, importanti furono i tentativi di Arturo Michelini di fondare la Grande Destra coi liberali di Giovanni Malagodi e i monarchici di Alfredo Covelli alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, fallito per l’indisponibilità del segretario liberale; l’iniziativa di Giorgio Almirante della Destra Nazionale – Costituente di Destra per la Libertà nella prima metà degli anni Settanta; la nascita di Alleanza Nazionale con Gianfranco Fini nel 1995 (svolta di Fiuggi) dopo un periodo di incertezze e la segreteria di Pino Rauti col tentativo di quest’ultimo di spostare a sinistra il partito; e infine, nel 2012, la fondazione di Fratelli d’Italia per opera di Ignazio La Russa, Guido Crosetto e Giorgia Meloni. Dal 1946 ad oggi quel che c’era da non rinnegare è andato sempre più scolorendosi anche per la scomparsa dei protagonisti di quell’avventura e dei loro sostenitori. Sarebbe tuttavia intellettualmente disonesto non riconoscere che, pur ammettendo sinceramente i molti e gravi errori fatti dal fascismo storico, primo fra tutti le leggi razziali, gli italiani di oggi che si riconoscono come di destra hanno coltivato una certa cultura di derivazione vagamente fascista sempre più fortemente innestata sul tronco della democrazia. Sono i valori fondanti di Fratelli d’Italia che il 25 settembre hanno avuto un formale riconoscimento da parte degli elettori. Ecco, la legittimazione a cui fin dal 1946 mirava il postfascismo è un dato acquisito. E ciò per una curiosa coincidenza è accaduto ad un secolo esatto dalla Marcia su Roma ovvero dalla presa del potere da parte del fascismo. Ma questo di Fratelli d’Italia non è un ritorno. È altra cosa: il 25 settembre 2022 non è il 28 ottobre 1922. Se a caratterizzare il fascismo è la violenza e se a caratterizzare la democrazia è il pacifico e libero concorso di forze politiche diverse, la vittoria elettorale di Giorgia Meloni è democrazia. Come sarà il nuovo corso? Il fatto che la Meloni formerà e guiderà il nuovo governo pone una serie di riflessioni su come declinare i valori della destra, che negli anni dell’opposizione sono stati in fiero contrasto con tutta una visione della vita della sinistra. Dico della sinistra e non democratica perché la sinistra non esaurisce la democrazia, né questa è di sinistra o non è. La prima riflessione è che operando in un contesto democratico, di cui si è convintamente sostenitori, suggerisce di rispettare la libertà e i diritti di tutti. Il che significa che sul piano dei diritti acquisiti ma dalla destra non condivisi non ci può essere alcuna marcia indietro, come da parte avversa si è sostenuto in campagna elettorale e ancora si sostiene senza nessun fondamento. Una politica di destra oggi non può che mirare al recupero di certi valori senza forzature. Secondo quanto ha detto la Meloni in campagna elettorale occorre mettere in essere politiche che impediscano ai giovani di scivolare o precipitare nelle devianze. Queste non possono essere considerate dallo Stato come normalità da amministrare con criteri assistenzialistici e ipocritamente pietistici, come fa la sinistra, ma mali da prevenire, da evitare. Una politica di destra non può non mirare alla diminuzione di aborti, di tossicodipendenze e di tante altre sconvenienze, quando non patologie, sociali. Il problema del calo delle nascite, per esempio, non può prescindere dall’aborto, dalle unioni civili e dalle tante forme di “famiglia” che non producono figli. La questione della migrazione clandestina, altro esempio, va affrontata sì nel contesto delle leggi internazionali e dell’Europa ma senza perdere di vista gli interessi nazionali immediati e di prospettiva. La cultura scolastica deve aprirsi ad una vera pluralità di posizioni, prima fra tutte la tradizione italiana col recupero della centralità della lingua, della letteratura e della storia. L’approccio metodologico in tutti i settori non può essere reprimere, ma scoraggiare per un verso e incoraggiare per un altro, mettendo in essere opportune politiche di valorizzazione e di perseguimento. A fronte della diversa prospettiva finora avuta la destra di governo non può che ritenere concluso il lungo percorso affrontato in ben 76 anni di storia. Da qui in avanti si torna sì all’avanzare senza rinnegarsi ma calato in un contesto diverso, non più ricerca di riconoscimento e di legittimazione, che in una democrazia dovrebbero essere scontate, ma esercizio di governo. Dovrebbe iniziare per la destra la fase construens. Se la Meloni saprà declinare i valori della destra che rappresenta con le metodiche democratiche e sortirà risultati positivi, il suo governo sarà la dimostrazione che davvero un lungo percorso si è concluso e che uno nuovo è stato iniziato, non solo per la destra ma per la democrazia in Italia.

martedì 27 settembre 2022

Giorgia Meloni, i vivi e i "trapassati"

Tra i primi pensieri di Giorgia Meloni dopo il risultato elettorale che l’ha elevata a leader del primo partito d’Italia, in odore di premier, uno è corso alle “persone che non ci sono più ma meritavano di vedere questa nottata”. Un omaggio bello nei confronti dei tanti che se ne sono andati per fine naturale e che in questo lungo cammino, durato settantasei anni, si erano prodigati per tenere viva la fiamma tricolore del primigenio Msi, un impegno di fede e di testimonianza. Un riconoscimento alla sua storia politica, al suo ambiente umano e politico, dal quale ella ha tratto ispirazione, conforto e collaborazione. Quale senso dare al bel pensiero della Meloni? Dice Benedetto Croce in un passo sui “trapassati” in “Etica e politica”: «Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? “Dimenticarli”, risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. “Dimenticarli”, conferma l’Etica. “Via sulle tombe!”, esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni. E l’uomo dimentica. Si dice che ciò è opera del tempo; ma troppe cose buone, e troppo ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè a un essere che non esiste. No: quella dimenticanza non è opera del tempo; è opera nostra, che vogliamo dimenticare e dimentichiamo». Giorgia Meloni ha dimostrato di non voler dimenticare, che in politica, come si può immaginare, è una sfida ardua. Ha ricordato le care persone della sua vita politica in un momento di successo. Ora deve dare un senso a quel ricordo. Al di là delle singole persone a cui ella ha pensato, ricordare i “trapassati” della sua gente significa fondamentalmente rispettarle nello spirito di ciò che si accinge a fare. La lunga marcia è finita. Quel che sembrava impossibile è oggi una realtà. Questa realtà richiede altro impegno ed altra testimonianza, per non vanificare i sacrifici fatti, per non tradire le aspettative. Inizia una nuova era. Quel partito doveva conquistare il potere e dimostrare di saperlo fare con le regole della democrazia. È riuscito: punto e a capo. Quel che viene dopo è un’altra storia. Nessuno è così ingenuo da pensare che tutte le critiche che il Msi ha fatto nel corso degli anni agli altri partiti e ai vari governi che si sono succeduti trovino in quel che ora farà Fratelli d’Italia perfetta rispondenza. Una cosa è il dire, un’altra il fare. È sempre Croce che lo dice e sempre in “Etica e politica”. Nell’azione politica, anche quando si è animati dai migliori propositi, poi ci sono difficoltà oggettive da affrontare, spesso impreviste e imprevedibili, come Covid e guerra in Ucraina oggi, per intenderci, e ci sono gli avversari che cercano di ostacolare, poiché il loro successo di domani si fonda sul tuo insuccesso di oggi. Lo sanno bene in Fratelli d’Italia, avendo fatto una lunga opposizione. Il prodotto politico è sempre la sintesi di condizioni favorevoli e sfavorevoli. Quel che non si deve dimenticare, se si vuole dare un senso al ricordo dei “trapassati”, è lo spirito dell’azione, che non sta tanto nel perseguire l’interesse degli italiani, formula generica e banale, ma nella sollecitazione genuina dell’agire politico. Per esemplificare: se si è parlato contro la corruzione e l’approssimazione, senso vuole che non si deve essere né corrotti né approssimativi. Può anche non bastare per conseguire un risultato buono, ma così operando non si tradisce lo spirito. I segnali per ora sono da decifrare. Rispondendo ad una domanda di Enrico Mentana su “La 7”, Ignazio La Russa, che di Fratelli d’Italia è il più anziano, il più radicato nel Msi, ha ipotizzato che la Meloni, nel ricordare i “trapassati”, abbia pensato a Pinuccio Tatarella, il cosiddetto ministro dell’armonia, come l’iniziatore di una politica nuova della destra, tacendo su Giorgio Almirante, dando così ragione a Benedetto Croce. Forse La Russa aveva dimenticato che la campagna elettorale era finita. O forse non aveva ben capito lo spirito puro del ricordo della Meloni. Storicamente fu Almirante a dare una sterzata al partito prima con Destra Nazionale (1972) e poi con la Costituente di Destra per la Libertà (1975). I tempi non erano maturi per pensare altro. È riuscita la Meloni dopo cinquant’anni. Nessuno poteva immaginare che una donna potesse diventare un giorno il capo di uno dei partiti tradizionalmente più maschilisti d’Italia e che lei e non altri lo elevasse al rango del potere. Ma così vanno le cose del mondo, che non accadono mai invano e che sono sempre la conseguenza dei precedenti fatti.

sabato 24 settembre 2022

Elezioni 2022: le incognite di un sovvertimento

C’è un aspetto che finora non è stato colto nel corso della campagna elettorale in tutta la sua importanza. Sondaggi e opinionisti politici hanno detto più volte che la vittoria della Destra è certa, che semmai non è certa l’entità. Anche gli osservatori stranieri sono di quest’avviso. I diretti interessati si sono schermiti, come era opportuno che facessero, ma non hanno escluso l’esito vincente delle elezioni, limitandosi a dire andiamo piano, non abbiamo ancora vinto, attenti a non commettere errori, a offrire il fianco agli avversari. Gli stessi avversari lo hanno ammesso anche se hanno continuato a sperare nell’alea dell’imprevisto, di ciò che può succedere negli ultimi giorni prima del voto, sperando negli astensionisti, ben il 40% degli aventi diritto al voto, e affidandosi alla forza della propaganda, che, si sa, si fonda sulle bugie, sulle emozioni, sulle fascinazioni. Lo hanno fatto anche per incoraggiare i loro sostenitori. Non potevano dire: compagni, raccogliamo i ferri e buona notte. Il campione del vendere cara la pelle è stato senza dubbio il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano del Pd, il quale ha scomodato Stalingrado e scenari sanguinolenti – qui dovranno sputare sangue! – per incitare i suoi alla resistenza, all’impegno, a credere nel miracolo del sovvertimento dei pronostici. Ma il vero sovvertimento – è questo l’aspetto di cui in apertura – è che dopo settantasette anni il fascismo, sia pure svuotato di ogni contenuto specifico e generico, risulta vincente sul sistema politico che lo ha sempre perseguitato, combattuto, discriminato, escluso. La fiamma del Msi sta lì proprio ad indicare la continuità, un segno del passato, non del presente e meno ancora del futuro. La vittoria di Fratelli d’Italia, se ci sarà, non sarà sostanziale, ma altamente ed esclusivamente simbolica. Non ci sarà nessun regime con Giorgia Meloni al potere, non ci sarà nessun cambiamento di rotta significativo in nessuno dei settori della politica, non in quella estera, non in quella interna, non in quella economica e sociale. E del resto, come si fa dovendo stare in un ordine di cose che non dipende da Roma, ma da Bruxelles? Come si può intervenire sui diritti civili acquisiti quando sono difesi dall’Europa? Dunque, il probabile passaggio dei poteri sarà più sui binari della continuità che su quelli dello scarto. La domanda da porsi, invece, è su quanto potrebbe durare un governo costituito da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Carlo Calenda, leader del cosiddetto terzo polo, gli dà sei mesi di vita. Meloni, Salvini e Berlusconi hanno continuamente ribadito, quasi una sorta di giuramento, che il loro governo sarà di legislatura, che durerà cinque anni e che farà tutte le cose che sono nel loro programma unico. Ma nello stesso tempo hanno assunto posizioni diverse su questioni non di poco conto, come sullo scostamento di bilancio, con Salvini favorevole e Meloni contraria, e soprattutto in politica estera e in particolare su Putin e la guerra in Ucraina. Su questo specifico punto ci sono state autentiche e incredibili affermazioni di chi, come Berlusconi e Salvini, è da sempre sospettato di amicizia col dittatore russo. Le affermazioni del Cavaliere da Vespa a “Porta a Porta” di giovedì, 22 settembre, hanno toccato l’assurdo di giustificare Putin, che, a dire di Berlusconi, in fondo è intervenuto per difendere le popolazioni russofone dalle violenze degli ucraini e di creare a Kiev un governo di persone perbene. Poi, come al solito, ha cercato di dire di non essere stato capito e che il pensiero manifestato non era il suo ma quello dei si dice. Roba o da imbecilli da ricoverare o da furbi imbroglioni. La seconda che ho detto! Di fronte a quel che si è visto e sentito viene da pensare che anche sulla durata e sulle modalità del durare o del cadere il governo di destra, se ci sarà, non si differenzierà molto dai precedenti governi di questi ultimi anni, per non dire di tutta la tradizione democratica italiana. Salvini e Berlusconi, quest’ultimo soprattutto, hanno già dato prova di non essere affidabili. Troppo generiche le dichiarazioni di fedeltà all’Europa, alla Nato e agli Stati Uniti, lasciate sempre sullo sfondo e subordinate a politiche concrete basate sui fatti. Va bene l’Europa ma Putin in fondo in fondo è un buon cristiano (Berlusconi). Va bene le armi agli ucraini ma le conseguenze non devono ricadere sugli italiani (Salvini). Si tratta di posizioni equivoche che al momento di decidere il da farsi possono costituire intoppi importanti. Paradossalmente la più moderata di tutto lo schieramento di destra è Giorgia Meloni, che è stata tacciata di draghismo. Lei, l’unica oppositrice a Draghi!

domenica 18 settembre 2022

Giorgia Meloni delenda est

Tornano come i frutti di stagione ogni volta che c’è una campagna elettorale importante, specialmente quando la Destra sembra prossima ad un successo. Chi sono? Ma i difensori della Costituzione e della democrazia! Chi vogliono colpire? Ma Giorgia Meloni, la quale, come Cartagine per i Romani, “delenda est”, deve essere fermata, non ci sono santi. Perché Meloni non è fascista – si dice – ma è bene farla sembrare tale, chi vuol capire, capisca! È un’esplosione di iniziative: libri, giornali, trasmissioni televisive, spettacoli teatrali. Sono tutti contro il “delinquente Mussolini”, contro il fascismo “male assoluto”, accozzaglia di feroci assassini, dei quali da italiani bisogna vergognarsi. È un’autentica pandemia, una pioggia di virus sparati ad altezza d’uomo, per la quale non c’è vaccino che tenga. E che c’entra Mussolini con la Meloni? C’entra! Perché ai tempi della sua prima giovinezza disse che Mussolini era stato il più grande uomo politico del secolo. Per certi nemici non c’è acqua che passi! Il “Corriere della Sera” (15.10.2022) ha titolato a caratteri cubitali e policromi un articolo di Aldo Cazzullo sull’argomento: “La vergogna del fascismo”. È la presentazione del suo ultimo libro, intitolato, per l’appunto, “Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo” (Mondadori). Lo stesso Cazzullo ha rievocato la Marcia su Roma con una trasmissione televisiva su “la 7” (14.10.2022). Una cosa della quale c’è davvero da vergognarsi per la sua patente povertà di conoscenze, per le volute miserabili omissioni e per la volgarità degli intenti propagandistici. Con Cazzullo si è aggiunto un eroe. Targhisti, prendetene atto! Per questa gente migliaia e migliaia di studi e di ricerche sul fascismo, che hanno dato ben altre definizioni e spiegazioni del fenomeno in Italia e nel mondo, ben altra narrazione della sua storia, non contano niente, Renzo De Felice ha trascorso la vita a vendere merletti. Ma non basta. Potevano mancare i seminatori di sospetti? E così, a pochi giorni dal voto, scendono in campo i servizi segreti americani che la buttano sul chi coglie coglie: più di venti paesi nel mondo hanno ricevuto soldi dalla Russia, 300 milioni di dollari. E subito il pensiero corre all’Italia, ovviamente non a quella di Letta o di Renzi-Calenda ma a quella di Meloni, Salvini e Berlusconi. L’ex ambasciatore americano alla Nato, Kurt Volker, dà ad intendere a “la Repubblica” che nella lista c’è anche Fratelli d’Italia, salvo poi a smentire e rassicurare nero su bianco. Ma quando la bomba la butti, qualche effetto lo fa, specialmente nella propaganda. “Voce dal sen fuggita / più richiamar non vale” diceva il Metastasio. E infine, come era prevedibile, contro la Meloni e la Destra rispuntano il sangue e le brigate rosse. Il Presidente della Regione Puglia, Emiliano, dice che non passeranno, che dai suoi paraggi dovranno sputare sangue. Chi è il soggetto di non passeranno? Chi sono quelli che devono sputare sangue? Ma, ovvio: i fascisti, quelli che non dovevano essere evocati in questa campagna elettorale, perché sarebbe stato stupido e controproducente farlo: la Meloni non è fascista, l’Italia non corre pericoli fascisti (Letta, Calenda e compagni copyright). Ora i terroristi rossi, sempre in agguato a rispuntare in difesa della Costituzione e della democrazia (così dicono!), promettono alla Meloni di farle fare la fine di Moro. Lo scrivono sui muri oltre che nei social. E sempre più durante i comizi della leader di Fratelli d’Italia ci sono i disturbatori, che sanno di farla franca, non solo perché si sentono autorizzati da quel sentirsi superiori e in linea col potere costituito, ma anche perché a difendere la Meloni non ci sono più i ragazzi del Fronte della Gioventù, di cui la Meloni è stata agli inizi della sua carriera leader nazionale. Ma forse, sotto sotto, Letta e compagni sperano che qualcuno dei ragazzi del Fronte torni in piazza legittimamente a difendere la sua gente, le sue idee politiche. Così democratici e compagni possono dire: ecco, i veri fascisti non cambiano mai! Guido Crosetto, che di Fratelli d’Italia è stato cofondatore, ha messo in guardia fin dall’inizio della campagna elettorale il suo partito: di qui al voto gli avversari faranno di tutto, ma proprio di tutto, per impedire a Giorgia Meloni di approdare al risultato che il popolo italiano sembra volerle assicurare. Se riusciranno per ora non lo si può dire, ma che quel risultato possa essere contenuto e ridotto è certo. Come altrettanto certo è che i metodi usati sono sempre gli stessi, quelli di una democrazia tanto a modo alle apparenze e tanto spregiudicata nella realtà.

sabato 10 settembre 2022

Partito conservatore, sì ma conservare cosa?

Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia, ha detto che il suo è un partito di conservatori e lei stessa è presidente del Partito Conservatore Europeo. In questi ultimi due anni la sua comunicazione si è incentrata sulla conservazione dei tre grandi valori: Dio, Patria, Famiglia. Dalla famosa presentezione di se stessa, “Io sono Giorgia”, Roma 19 ottobre 2019, fino all’esibizione spagnola a sostegno del partito di estrema destra Vox, giugno di quest’anno, ha rivendicato con forza questi suoi valori, senza avere tentennamenti o preoccupazioni, limitandosi a precisare che questi scavalcano il fascismo per ricondursi a Mazzini. Questa sua posizione, aperta e coraggiosa, in un ambiente in cui incombe il politically correct, le ha fatto crescere il consenso degli italiani, insieme, evidentemente, ad altri fattori, fra situazioni oggettive, meriti suoi e demeriti degli altri. Se oggi è la più probabile candidata alla Presidenza del Consiglio lo deve anche a questo suo essere stata. Non v’è alcun dubbio. Da quando, però, è iniziata la campagna elettorale e le sue quotazioni nei sondaggi sono aumentate fino ad avere più del 25 % dei favori popolari, primo partito in Italia, Meloni è stata più guardinga fino a chiudersi in difesa quando si è trattato di affrontare la questione dei diritti civili e in particolare quelli dei Lgbtqia+. Non diversamente da lei si sono comportati i suoi collaboratori e fiancheggiatori della stampa. Perché? Mentre i suoi avversari non si chiedono perché la Meloni è arrivata a minacciare la democrazia in Italia, per usare il loro linguaggio, e l’attaccano anche sul piano personale per la sua inadeguatezza, sempre per usare il loro linguaggio, perfino lei si guarda bene dal rivendicare come giuste le battaglie combattute contro le degenerazioni del costume civile, che tanto successo le hanno dato. In realtà alla base c’è un problema di non facile soluzione. Che cosa c’è oggi nella moderna società da conservare? Per tornare a Dio Patria Famiglia, constatiamo. Dio? Lo ha ridimensionato anche la Chiesa e non da ora, anche se con Papa Francesco è diventato un Dio sempre più laico, tutto proteso a salvaguardare la pace, l’uguaglianza, l’ambiente. Matteo Salvini, leader della Lega, è precipitato giù nei sondaggi da quando si è messo a baciare croci e santini, nell’indifferenza della Chiesa. Conservare il Dio tradizionale è come voler conservare una cosa che non c’è più. La Patria? Oggi, ridimensionata anche lei. Essa non è più quella racchiusa nel concetto ottocentesco trascinato nel Novecento fino alla seconda guerra mondiale. Voler conservare quella Patria vuol dire o uscire dall’Europa o restare dentro ma rivendicando una sovranità improbabile, dato che l’Unione Europea ha richiesto per il suo essere e formarsi la revisione del concetto di sovranità. Parlare di cessione di parte di sovranità, come spesso si fa, è un non senso in quanto il concetto di sovranità non consente divisione della stessa in parti. Si può spezzettare perfino la Nazione, ma la Sovranità è impossibile. All’Unione Europea non c’è stata nessuna cessione di sovranità, ma solo una conventio di gestirla nell’ottica di interessi comuni. La Patria autoreferenziale, come era intesa prima dell’Unione Europea, non c’è più; ergo non ha più senso parlare di confini della Patria neppure per arginare le ondate di migranti. La Famiglia? Le statistiche ci dicono che sta precipitando verso livelli anno dopo anno. Si riducono i matrimoni, sia civili che religiosi, crescono sempre più le coppie di fatto anche fra soggetti dello stesso sesso. È un fatto che la famiglia tradizionalmente intesa perde sempre più centralità. Si rivendica l’aborto come un diritto naturale inalienabile, come altrettanto inalienabili si considerano i diritti di stabilire il genere che si vuole in dispregio anche della natura. L’individuo che cerca la felicità confligge con gli interessi dei classici soggetti collettivi della destra: Nazione, Patria, Società. Di fronte a tali e tanti cambiamenti, delle due l’una: o accettare la realtà per come si è trasformata, cercando tutt’al più di frenarne il processo, o passare da una impraticabile conservazione alla reazione con l’impedire che questo processo continui ad libitum. Scartata quest’ultima opzione per ragioni assai comprensibili – il caso Italia non è isolato, anzi in Italia ancora si registra qualche sussulto di resistenza, altrove ormai è dilagato – non rimane che gestire con razionalità problemi non più lasciati ad una spontanea deriva. Accettata l’opzione europeistica, come continua a dire e a rassicurare Giorgia Meloni, resta il non facile problema di dover conservare l’inconservabile, per certi aspetti l’inesistente. È questo il suo tallone d’Achille e di ogni conservatore oggi.

sabato 3 settembre 2022

Ed ora il presidenzialismo

Il tempo nella politica non passa invano e non va sempre verso il peggio, checché ne dicano in tanti nel nostro Paese, ripetendo luoghi comuni, a volte beceri, nei confronti della politica e dei politici, tutto ridotto ad una questione di poltrone e di papponeria. Spesso si confonde il populismo, che è un modo di intendere l’esercizio politico, con la satira che ha per scopo di far ridere: castigat ridendo mores. Da questo non sono esenti né la stampa di destra, che spara titoli in prima pagina a volte anche di dubbio gusto, vedi testate come “il Giornale”, “Libero” e “La Verità”, né quella di sinistra, vedi “Il Manifesto” o “Il Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio. Se si guarda all’ultimo quinquennio, 2018-2023 (XVII Legislatura), non ancora concluso, caratterizzato dai governi nei quali i Cinquestelle hanno fatto la parte del leone, con i primi due guidati da uno di loro, Giuseppe Conte, e il terzo dal tecnico Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, con un esecutivo di unità nazionale, ci accorgiamo di cambiamenti se non proprio radicali di sicuro significativi. Senza entrare nel merito degli obiettivi conseguiti, non in questa sede, che verte su altro, vediamo che alcuni punti del programma realizzati hanno cambiato lo scenario sociale e politico, grazie o per colpa, a seconda della condivisione o meno, dei Cinquestelle. Essi avevano promesso il reddito di cittadinanza, e lo hanno realizzato. Avevano promesso il taglio dei parlamentari, e lo hanno realizzato. Avevano promesso il Super Ecobonus, e lo hanno realizzato. E via di seguito, con il decreto sui corrotti e con altri provvedimenti dettati dalle circostanze come le contingenze, pandemia per esempio, hanno suggerito. Questa legislatura, in scadenza prematura, ha dimostrato che se una forza politica riceve dall’elettorato in maniera chiara e netta il potere necessario per fare le cose può veramente cambiare e incidere. E se sono riusciti i Cinquestelle, in gran parte inesperti e incapaci, absit iniuria verbis, meglio potrebbero riuscire forze politiche che vengono da più lontano e da esperienze più importanti. Ora è il caso di Giorgia Meloni, che, con Fratelli d’Italia nello schieramento di Centrodestra, con la Lega e Forza Italia, ha in programma il presidenzialismo, ovvero il cambiamento della nostra Repubblica in senso presidenziale o semipresidenziale da parlamentare che è. Il risultato dipenderà dalla consistenza delle forze in campo e dalla loro capacità di giungere ad un compromesso, che potrebbe non escludere altre forze politiche più moderate. Il presidenzialismo o Nuova Repubblica, come Giorgio Almirante lo chiamava, è stato per anni il cavallo di battaglia del Msi, che lo propose al XII Congresso del partito (Napoli, 5-7 ottobre 1979), come di recente ha tenuto a ricordare Enrico Letta in polemica con Berlusconi. Fratelli d’Italia ha presentato in Senato un disegno di legge, il 703, per l’elezione, appunto, del Presidente della Repubblica a suffragio universale e diretto. Ovvio che una simile elezione preveda tutta una serie di aggiustamenti costituzionali. Non si tratta, infatti, solo di una diversa modalità di elezione, ma degli effetti ricadenti nel testo e poi nella prassi. Un cambiamento epocale per la nostra democrazia, che, ove dovesse vincere le elezioni il Centrodestra, può verificarsi dando inizio veramente alla Seconda Repubblica. Tale non può intendersi quella uscita da Tangentopoli nella prima metà degli anni Novanta del secolo scorso. Cosa può voler dire il presidenzialismo, a parte i dati tecnici? Oggi il Centrodestra, che lo propone, vuole mettere fine all’indecoroso spettacolo dell’elezione parlamentare, coi partiti che si muovono come in una fiera paesana, con trattative a volte nascoste, con intese a volte disattese, col preciso intento di assicurare al Quirinale un personaggio dell’establishment per garantire l’establishment. Come dire: chi ha il potere non vuole perderlo e fa di tutto per procurarsi un garante per perpetuarne la titolarità. Lo spettacolo offerto nelle ultime elezioni presidenziali ha dimostrato la crisi di questo sistema. Esso non ha garantito un avvicendarsi ordinato e per ben due volte, con Giorgio Napolitano e con Sergio Mattarella, si è dovuto fare ricorso ad una riconferma. Ricordiamo ancora le durissime parole di Napolitano rivolte ai parlamentari di Senato e Camera in seduta comune nel reintraprendere il percorso dopo che il Parlamento aveva bocciato la quasi fatta elezione di Romano Prodi. L’attuale sistema non funziona perché non ci sono più le condizioni politiche e partitiche di prima. Di qui la necessità di cambiare in senso popolare.

sabato 27 agosto 2022

L'offensiva contro Giorgia Meloni

Non si era mai vista in Italia tanta mobilitazione in campagna elettorale contro un politico in lizza in settantasei anni di vita repubblicana, neppure ai tempi del Msi e di Giorgio Almirante, quanta se ne vede oggi contro Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. E dire che è donna e in quanto tale dovrebbe avere il sostegno delle femministe! Non si predica in Italia, un giorno sì e l’altro pure, che ci vogliono le donne nei posti di maggiore responsabilità? Non si voleva una donna alla Presidenza della Repubblica, prima che Mattarella venisse rieletto? Dispiace, ma questa donna oggi la destra ce l’ha, la sinistra no. La sinistra non è stata e non è capace, a parte qualche operazione di correttivo, come le due vicesegretarie del Pd, di dare spazio alle donne. Non sono solo i politici competitor, Letta Calenda Conte Di Maio Bonino Fratoianni, o i conduttori televisivi di certe reti che subdolamente fanno passare messaggi di astio e di velenosità contro Meloni e la destra, ma ora sono in campo anche cantanti e influencer, incuranti di probabili conseguenze come il ricevere fischi e non solo da parte di chi legittimamente potrebbe contestarli. Perché, quando si scende in campo, in campo trovi di tutto. Iniziò qualche giorno fa la cantante Giorgia, che, con termini poco eleganti, non dico femminili perché oggi le donne sono sboccate quanto e forse più degli uomini, disse che anche lei si chiamava Giorgia ma non rompeva i coglioni alla gente. Ha continuato Loredana Bertè, che ha intimato alla leader della destra di togliere la fiamma dal simbolo “e basta!”. Così di seguito, Fiorella Mannoia, che, in verità, era già nota per le sue esternazioni sinistrorse. E più recente è intervenuta la moglie del rapper Fedez, l’influencer Chiara Ferragni, che ha sollevato il problema dell’aborto, dicendo che se vince la destra in Italia per le donne sarà un problema abortire, come è dimostrato dalle regioni, il Molise e l’Umbria, dove governa la destra. Tesi, queste, fatte proprie dai media e dai social ed ampiamente diffuse. La Boldrini, ex terza carica dello Stato, vorrebbe che in Italia si potesse abortire con una semplice telefonata al proprio medico, come gli si può comunicare un raffreddore o un mal di stomaco. Manca ancora un mese al voto e la campagna elettorale si fa sempre più barbara. È bastato che la Meloni pubblicasse sui suoi social lo stupro subito da una donna ucraina, in Italia come profuga, da parte di un uomo di colore, in Italia richiedente asilo, perché fosse accusata come della più brutta delle nefandezze. E c’è stato chi ha ipotizzato addirittura la legge Severino se la Meloni fosse stata denunciata e condannata per aver violato la legge sulla privacy. È bastato che la leader della destra facesse tutto un discorso contro lo stato di disagio dei giovani per prevenire ed evitare devianze, inserendo maldestramente fra queste anche l’anoressia e la bulimia, perché fosse immediatamente accusata da Enrico Letta, leader del Pd, di aver offeso le donne anoressiche e bulimiche, costringendo la Meloni a fotografarsi con sua madre che è vistosamente obesa, per dimostrare quanto lei ce l’ha così poco con le persone che hanno questo problema. Si vive ogni giorno con l’ultimo cavillo per screditare la leader di FdI, una donna che ha un passato politico coerente e pulito. Hanno convenuto i suoi avversari di non attaccarla sul piano del vissuto “neofascista”, temendo che è controproducente, ma la tentazione di scivolare su questo è tanta che quando non possono farlo loro in Italia girano dal largo chiamando in soccorso giornali e politici stranieri. I quali esprimono delle perplessità sui trascorsi politici della Meloni e sulle sue capacità di presiedere in Italia un governo in uno dei momenti più difficili non solo per l’Italia ma per l’Europa e il mondo. Si è distinto in questo l’economista americano da anni in Italia Alan Friedman. Un punto su cui insistono gli avversari della Meloni è la posizione dell’Italia in Europa e nel Patto Atlantico, sapendo che essa ha già dato ampie garanzie della sua appartenenza al mondo occidentale in tutte le sue declinazioni politiche. Ma, evidentemente, Letta e compagni sanno che in politica basta lanciarla una menzogna e ripeterla un paio di volte perché questa incominci a farsi strada come una verità. Per cui lo schieramento avversario è amico di Putin e chi lo vota vuol dire che sta con l’autocrate russo, responsabile della guerra in Ucraina. Non è finita. Di qui al voto ne sentiremo ancora delle belle, perché in questo nostro Paese più che sulle proposte e sul confronto politico, ci si muove sullo scontro delle minchiate.

sabato 20 agosto 2022

Elezioni: il terremoto che verrà

Ha detto Carlo Calenda, frontrunner di Azione, che chiunque vinca il 25 settembre il governo che si farà non durerà più di sei mesi. È la volpe che sa di non arrivare all’uva? O sono le parole sconsiderate di un politico, che peraltro si ritiene unico per bravura, che invita gli elettori ad astenersi? Come se di astenuti non ce ne fossero già abbastanza! Come se il male della democrazia italiana non fosse questa fuga degli italiani dal voto! Sono entrambe le cose. Calenda è convinto di essere la cocuzza più brillante del cocuzzaro politico italiano. Si sbrotola di elogi e di esperienze pregresse, salvo poi a farsi bacchettare come uno studentello impreparato da due giornalisti come Luca Telese e Marcello Sorgi (v. “In onda” su La 7 di giovedì, 18 agosto). Era convinto che l’intesa elettorale con Matteo Renzi avrebbe raggiunto il 20% dei consensi e dunque dei voti. Pare, stando ai sondaggi, che forse arriverà appena-appena al 10. Di qui il rendersi conto che per quanto lo riguardano queste elezioni lo lasceranno dove lo hanno trovato: nel limbo dei comprimari, di quelli cioè che riusciranno a contare qualcosa solo in dipendenza di altri. E gli altri sono per un verso Giorgia Meloni del Centrodestra e per un altro Enrico Letta del Centrosinistra. Ma in quel contesto del contare qualcosa nel gioco degli altri si è rivelato maestro Matteo Renzi, il quale già lancia segnali di “collaborazione” al futuro governo, sia dall’opposizione che nella maggioranza. Calenda fa finta di non capire e intanto si candida al “sereno” numero due, dopo il primo, celeberrimo, che è stato Letta. Renzi il vizio di lasciar “sereni” amici e alleati non l’ha perso. Il 25 settembre con ogni probabilità registrerà un terremoto politico. Per la prima volta nella storia d’Italia una donna si candida, con buone probabilità di riuscirci, a guidare il prossimo governo. Ma c’è anche un’altra prima volta, assai più importante, almeno sotto il profilo politico. Per la prima volta è una donna che proviene, pur con tutti i cambiamenti suoi e del contesto, dal partito che nell’immediato dopoguerra raccolse l’eredità scomoda del fascismo, quel Msi che brilla col suo simbolo, la fiamma, nel partito nuovo della destra italiana, che è Fratelli d’Italia. Non è possibile che tutto questo accada senza lasciare il segno. Gli elementi di discontinuità sono tanti e tali che difficilmente non potrà accadere nulla, come pensa Calenda. Siamo, invece, ad un nuovo punto e daccapo, come quello verificatosi dopo la fine della Prima repubblica in seguito a Tangentopoli. Non sempre la vicinanza a quanto accade consente di veder bene, di accorgersi dei cambiamenti in fieri. Una donna a capo del governo e per di più non tradizionalmente antifascista è un’autentica rivoluzione nel costume e nella politica italiani. Sono tutti concordi gli antidestra che è colpa della legge elettorale se tutti si agitano in un mare di contraddizioni. Si dicono costretti ad ingurgitare rospi a colazione, pranzo e cena. Sono invece loro che hanno scientemente deciso di sacrificare la coerenza per tentare di invertire un processo di destrizzazione in Italia. Un processo che è nell’ordine delle cose. Essi perciò rischiano di voler fermare l’acqua con le mani, come direbbe il buon Bersani, maestro di metafore. È per questo antidestrismo che Letta nel suo schieramento ha tutto e il contrario di tutto. Purché riesca ad impedire alle destre di vincere le elezioni. Il Pd fa “sua” l’agenda Draghi, che non si sa in cosa consista...senza Draghi. Ha in seno comunisti, radicali e verdi. Ha un Fratoianni di Sinistra italiana che non ha mai votato in favore di Draghi, ha un Bonelli che è sempre contro tutto, ha la Bonino che si è fatto il giro di tutti gli schieramenti. Dell’agenda Draghi si è appropriata anche Azione-Italia viva, i cui leader giurano che non si metteranno mai insieme né con le destre né con le sinistre, estreme, evidentemente. Tutti quelli che pensano di essere gli eredi di Draghi fingono di dimenticare che il governo Draghi era un governo di unità nazionale e il suo capo era alla fin fine un commissario ad acta, voluto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Intanto il più diretto interessato all’agenda Draghi, ossia Draghi stesso, tace. Conoscendolo, difficilmente, come i suoi fans vorrebbero, prenderà parte alla campagna elettorale con qualche sua dichiarazione, in qualche modo spendibile in termini di propaganda in favore di qualcuno. Letta, Calenda e Renzi sperano in un endorsement, magari nel corso dell’intervento che il Presidente del Consiglio terrà al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini mercoledì prossimo 24 agosto. Ma Draghi è ben cosciente di quanto sta avvenendo in Italia. Sa che la terra politica sta tremando; e quando la terra trema conviene essere prudenti e mettersi al riparo.