domenica 28 novembre 2010

Il testamento biologico è un atto di pietas civile

Ex abrupto: sono favorevole al testamento biologico. Lo sono per senso di umanità e di solidarietà. Ritengo normale che un essere umano, nel pieno delle sue facoltà mentali e in condizioni di serenità di spirito, lasci per iscritto a testamento, tempestivamente depositato presso le autorità civili, che cosa altri, famigliari o amici, debbano fare di lui e per lui, nell’ipotesi che, giunto o trovantesi in condizioni irreversibili di sofferenza o di morte cerebrale, lui non sia più in grado di decidere per sé.
Anzitutto, i conti con la religione. La Chiesa ha ragione di fare la chiesa; avrebbe torto se facesse un’altra cosa. Fa benissimo, dunque, ad essere contro l’aborto, contro ogni forma di procreazione forzata, contro matrimoni tra gay, contro ogni comportamento innaturale, contro ogni forma di interruzione della vita che non sia quella voluta dalla natura, che lei identifica nel Signore Iddio.
Quando la Chiesa aveva anche il potere giudiziario e lo esercitava direttamente o attraverso il potere politico, che la stessa condizionava, puniva i peccatori come criminali. Più o meno come fanno oggi l’islamismo ed ogni altro stato teocratico. Oggi la Chiesa ha solo il potere di dire. Chi vuole ascoltare, ascolti; e se no faccia pure quel che vuole. Se la vedrà con Dio!
Conserva, tuttavia, una notevole capacità di influenzare le scelte del potere politico nelle sue varie articolazioni. Non solo in Italia. Pensiamo agli Stati Uniti d’America, dove un candidato alle presidenziali vince o perde a seconda del suo legame coi valori della Chiesa. Ma in nessun paese del mondo un politico al governo si mette deliberatamente contro la religione. Se lo fa, non dura.
In Italia non siamo sempre all’equiparazione del peccato col reato. Lo Stato non punisce chi non crede in Dio, chi fornica, chi desidera la donna o la roba degli altri. Punisce chi ruba, chi uccide, chi rende falsa testimonianza. Ma ci sono moltissimi casi in cui il discrimine tra peccato e reato non è così netto. In questi casi lo Stato sbaglia a seguire la posizione della Chiesa, perché diversi sono i suoi compiti.
L’essere umano nella sua essenzialità di vita risponde a pulsioni ed esigenze che non possono non prescindere da altro. Nessuna legge, dello Stato o della Chiesa, può stabilire quando devo mangiare, quando devo dormire, quando devo lavarmi, quando devo digerire e via di seguito. Sono esigenze, queste, che dipendono dalla fisiologia e in parte dalla volontà. I cittadini hanno diritti naturali che lo Stato dovrebbe garantire come diritti positivi.
Un diritto naturale potrebbe essere la morte. L’individuo può sentire l’esigenza di morire, quando è nelle spire del dolore o quando è malato e per lui, ridotto al puro stato vegetativo, non c’è possibilità alcuna di superare la fase del male che lo sta conducendo inevitabilmente a morte.
L’uomo respinge istintivamente il dolore, fa di tutto per alleviarlo; lo sopporta quando sa che c’è un dopo. Il dolore è un’offesa alla vita, per quanto faccia parte della stessa. Quando diventa condizione senza possibilità alcuna di venirne fuori, porre fine al dolore è il più naturale di tutti gli istinti. Quando, pur senza avvertire dolore, si è corpi privi di raziocinio e di volontà, è più che giusto porre fine all’inutile sofferenza propria e dei famigliari.
Implorava Jacopone: “O Segnor, per cortesia, manname la malsanìa”, perché voleva soffrire per poter espiare le sue colpe. Implorava una vita di sofferenza, lunga, lunga, lunga, per poter soffrire di più e peggio. Jacopone non sarebbe mai stato per l’eutanasia, ovvero per la dolce morte per evitare di soffrire inutilmente. Non solo perché riteneva che non si soffre inutilmente, ma soprattutto perché vivere e soffrire per lui erano la stessa cosa; perché per lui soffrire doveva essere condizione di vita. Se proprio doveva morire, allora voleva essere divorato da un cane e defecato sugli sterpi.
Oggi non so quanti potrebbero pensarla come Jacopone da Todi. Sicuramente ce ne sono. Soprattutto ci sono quelli che credono che non si vive inutilmente e che neppure si soffre inutilmente. Sono i credenti, non necessariamente mistici. Di fronte ai quali chi non ha cappello per scappellarsi provveda ad averne uno, perché di fronte a persone simili la massima riverenza è ancora poca.
Ma per i più, non necessariamente materialisti e miscredenti, le cose stanno diversamente; e lo Stato dovrebbe provvedere a riconoscere le loro esigenze. E’ necessaria una legge che renda quanto meno facoltativo il diritto di fare un testamento biologico, in cui dettare le proprie volontà, relative alla fine della propria vita. Certo, non è solo una questione di sofferenza o di dolore, non ci sono solo aspetti biologici, morali e religiosi; ci sono importanti risvolti civili. La morte, procurata per testamento biologico, è sempre qualcosa che viene decisa e dunque può essere pilotata per altri interessi, patrimoniali per esempio o di altra natura, a seconda del ruolo e dell’importanza che ha il soggetto in questione. Sicché la legge dovrebbe essere ben concepita ed elaborata, in grado di prevedere ogni e qualsiasi situazione.
Una legge del genere risponderebbe a criteri, come dicevo in apertura, di umanità e di solidarietà. Di umanità, perché è dell’uomo evitar di soffrire. Di solidarietà perché non si può costringere la gente a veder soffrire e a soffrire a sua volta. Quando la vita per un essere umano tale non è, nel senso che per poter vivere ha bisogno di tante persone che lo accudiscano, di macchine sofisticatissime che lo facciano respirare e fargli battere il cuore, mentre lui, cosciente o incosciente, non è in grado di decidere e di farla finita, perché continuare? Quale diritto ho io di condizionare la vita dei miei famigliari e costringerli a tenersi in casa un corpo, che spetta solo di essere umanamente seppellito?
Il testamento biologico è un importante atto di pietas civile; un preventivo gesto di rispetto di sé, di amore per gli altri.
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domenica 21 novembre 2010

Salviamo la "Dante"!

L’allarme ormai dura da anni. Non è più questione di questo o quel governo. In Italia non c’è più per la cultura l’attenzione e la dedizione che hanno contraddistinto nel mondo e nella storia il nostro Paese. Antichissime e importantissime istituzioni rischiano di chiudere per mancanza di fondi. Ma, evidentemente, non solo per mancanza di fondi!
C’è nella classe intellettuale italiana una sorta di pigrizia, di rassegnazione con qualche sussulto antigovernativo. Come se veramente tutto e sempre dipendesse dal governo. Perfino importanti uomini di cultura hanno un approccio sbagliato con le istituzioni, che spesso sono considerate mucche da mungere in termini di prestigio e di denari, per essere lasciate al loro destino quando non possono dare più niente. Neppure i diretti beneficiari si sforzano di fare qualcosa in surroga. Oggi il governo non è più in grado di provvedere al loro mantenimento a causa della nota crisi economico-finanziaria che obbliga a fare dei tagli ai finanziamenti.
E’ tempo, invece, che in Italia chi ha veramente a cuore la cultura si dia una mossa, faccia qualcosa senza aspettare che altri intervengano. E’ tempo di dare, non più di avere. Non solo i privati dovrebbero ravvedersi, ma anche quelli che lavorano già nelle istituzioni pubbliche. Se a Pompei crolla uno degli edifici di maggior interesse culturale e di richiamo turistico, la colpa non può essere solo del governo o della atavica mancanza di soldi, ma anche di tanta negligenza di funzionari, intendenti e sovrintendenti cialtroni, che non svolgono con passione e interesse il loro lavoro.
Per fortuna gli esempi buoni non mancano. In questo senso il professor Gerardo Motta è un vero eroe. Ha dilapidato i suoi averi, qualcosa come quattro milioni di euro, fino ad ipotecare la casa dove abita, pur di salvare l’Istituto per gli Studi Filosofici, da lui fondato a Napoli nel 1975 (300 mila volumi raccolti, tre mila pubblicazioni, migliaia di borse di studio) nell’indifferenza degli enti pubblici. In soccorso della nobile impresa di Marotta si sono mossi duecento intellettuali di tutto il mondo, che hanno lanciato un appello per salvare l’Istituto dalla chiusura.
Un precedente importante, che dovrebbe dare la svolta al rapporto istituzioni-intellettuali. Gli operatori culturali non possono più attendere che altri salvino le loro strutture. La cultura è di coloro che la producono ed è giusto che gli stessi ne difendano il patrimonio, che è anche laboratorio di produzione. E’ questione di sopravvivenza. Dovrebbero fare come gli operai quando, sacrificando i loro più immediati interessi, si mettono in difesa della loro fabbrica.
Il Politecnico di Milano, in difetto di fondi per far fronte alle spese di mantenimento delle borse di studio per dottorati di ricerca, ha lanciato “la campagna permanente di raccolta di fondi a favore della Scuola di Dottorato”, chiedendo a tutti i suoi laureati un contributo di almeno cento euro. Siamo alla questua vera e propria, in concorrenza con francescani e associazioni onlus; ma è una grande prova di coraggio e di realismo.
Qualche anno fa il grido d’allarme venne dall’Accademia della Crusca, fondata a Firenze nel 1583, la massima autorità in materia di lingua e filologia, la depositaria del nostro patrimonio lessicale col suo “Vocabolario”.
Ora anche la Società “Dante Alighieri”, fondata da Giosue Carducci nel 1889 per promuovere la lingua e la cultura italiana nel mondo, rischia di chiudere. Nella Legge di Stabilità, ex Finanziaria, sono stati previsti tagli del 53,5 per cento rispetto all’anno scorso. Coi 600 mila euro accordati rischia di tenere in piedi solo la struttura centrale. E i 423 comitati che ha, sparsi in tutto il mondo?
Coi soldi ricevuti non può davvero adempiere ai compiti istituzionali. Questa istituzione dipende sia dal Ministero degli Esteri e sia dal Ministero dei Beni Culturali; i suoi operatori sono da sempre dei volontari. Fanno conferenze, tengono seminari, organizzano manifestazioni; sono la faccia bella del nostro Paese. I corsi, però, sono a pagamento e sono tenuti dal personale accreditato presso le ambasciate e i consolati. Ci vogliono i soldi!
La “Dante” svolge da sempre un grandissimo compito in favore della nostra lingua nel mondo. Tanto più importante oggi, mentre per la lingua italiana non c’è molta considerazione nell’Europa burocratica di Bruxelles, se ogni tanto tentano di escluderla dalle lingue ufficiali della comunicazione legislativa e amministrativa della Cee, che sono inglese, francese e tedesco. E’ davvero un peccato che il nostro Paese non abbia i fondi per raddoppiare e dimezza la spesa delle sue attività.
Il mio amico polacco, professor Andrzej Nowicki, grande studioso di Giordano Bruno, di Giulio Cesare Vanini e della filosofia italiana del Rinascimento, apprese l’italiano proprio seguendo i corsi presso l’Ambasciata Italiana a Varsavia negli anni Trenta. Da allora divenne uno dei più grandi amici dell’Italia e della sua cultura.
La “Dante” è stata la prima grande istituzione culturale che noi ragazzini di scuola media abbiamo conosciuto, quando ognuno di noi aveva la sua brava tessera della “Dante” e i suoi bolli, che attaccavamo sui risvolti dei quaderni e dei libri.
Ora, bando alle nostalgie, che non hanno mai risolto i problemi. A questo punto, per salvarla, si dovrebbe istituire una piccola tassa per ogni alunno iscritto ad ogni ordine di scuola. La popolazione scolastica in Italia è di circa sette milioni. Basterebbe un euro per ogni alunno e si potrebbe mettere insieme un bel po’ di soldi. Credo che si potrebbe fare già da quest’anno, attraverso gli stessi operatori della “Dante” dislocati nei comitati di tutta Italia. Per gli anni successivi si potrebbe legare questo piccolo-grande contributo alla stessa tassa di iscrizione.
Sarebbe davvero un momento celebrativo straordinario dei 150 anni dell’Unità d’Italia con qualcosa di diverso e di più concreto.
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domenica 14 novembre 2010

Morire per un cane è peggio che morire come un cane

Una volta si moriva come un cane. Tempi barbari, direbbero gli animalisti. Per i cani e più in generale per tutti gli animali non c’era alcun rispetto. Il primo moto istintivo era di ammazzarli quando non erano utili all’uomo. In tempi più recenti molti animali sono stati utilizzati per ricerche ed esperimenti; i cani, vivisezionati, addirittura per cosmetici e profumi. Che, a considerare, è il massimo dell’egoismo umano: dalla vita animale trarre prodotti per deliziarsi. Non voleva dire proprio questo il Signore Iddio quando diede all’uomo il dominio su ogni essere vivente.
E vada per i serpenti e per i topi, gli uni perché viscidi, gli altri perché schifosi; entrambi irritanti. Ma per le lucertole? Da bambini le catturavamo con delle erbe filamentose, dette perciò mpicasarvìche (impicca lucertole), con cui facevamo dei cappi; poi le appendevamo e ci esercitavamo al tiro al bersaglio con arco e frecce, che ricavavamo da ombrelli rotti. Infilzavamo le cicale con tecniche turche per vederle partire come un razzo per l’ultimo volo e andare a sbattere contro il primo ostacolo e morire. Catturavamo gli uccelli con le tecniche più varie e più crudeli. Il massimo della nostra gioia era prendere a mamma cu tutti i curciùli (la passera con tutti i passerottini). Giochi da ragazzacci discoli, si dirà.
E gli adulti? Ancora oggi catturano e uccidono animali per le loro pelli. Ancora oggi studiano tecniche e veleni per combattere certi insetti, dannosi e fastidiosi, che pure animali sono. L’ultima trovata è la racchetta elettrica per intercettare le “povere” zanzare, un pendant della sedia elettrica per gli uomini. Va ad aggiungersi agli stermini di massa, ai genocidi dei gas asfissianti, ai pesticidi. Roba da fare invidia alle malanime di Hitler e di Saddam Hussein. Chissà che cosa non si darebbe oggi per trovare un antidoto contro il punteruolo rosso che sta distruggendo le palme e i nostri paesaggi urbani! E’ brutto a vederlo e soprattutto dannoso, d’accordo, ma è pur sempre un insetto, un animaletto.
Ironia a parte, ancora non siamo entrati nella fase del rispetto totale per tutto ciò che vive. Forse arriveremo. Per ora, siamo ad una più sensibile selezione rispetto a ieri. L’uomo conserva l’istinto primordiale di aggredire gli animali e ucciderli per paura di essere a sua volta attaccato, ma anche per gioco e divertimento. Istinto che ancora oggi lo spinge ad eliminare tutti quegli animali che non solo non gli sono utili, ma gli sono importuni, il più delle volte insetti, mosche e formiche.
Viviamo, tuttavia, un’inversione di tendenza. Cani e gatti, anche quando non hanno un’immediata utilità, sono sempre più membri della famiglia. I cani soprattutto, perché i gatti sono più indipendenti e insofferenti. I cagnolini sono trattati come bambini, coi loro vestitini, le cuffiette, gli impermeabili, le pelliccette. Morti, vengono clonati e addirittura viene loro lasciata l’eredità a testamento. Sono come status symbol di cultura, di benessere, ma anche – diciamolo pure – di indiretta professione di disprezzo per gli uomini. Io non dico: non amo gli uomini, anzi li odio; ma dando ad un cane tutto l’affetto e perfino l’eredità, lancio un messaggio ben preciso: preferisco gli animali agli uomini. Che è tutto dire. Ci sono vecchiette che altra compagnia non hanno che il proprio cagnolino, mentre i figli sono sempre più indifferenti e lontani. Ci sono giovani che gioiscono quando è finalmente un cane che maltratta l’uomo.
Ora c’è una legge anche in Italia che chi investe un cane ha l’obbligo di prestargli soccorso né più né meno che se fosse una persona. Una delle tante leggi nate all’estremità nord dell’Europa ed estese alla sua estremità sud, dove molto spesso non si presta soccorso neppure alle persone e per il soccorso agli animali non c’è neppure l’ombra di una struttura. La conseguenza è che ci sono in giro frotte di cani randagi. I casi di cani che sbranano bambini e vecchiette si sono moltiplicati. Le piazze e le vie dei nostri paesi ne sono piene, di ogni razza e taglia. Interagiscono ormai con le persone e le cose urbane. Ai rintocchi delle campane alzano al cielo la testa e rispondono ululando come lupi mannari alla luna; spesso fanno da battistrada o d'accompagnamento ai cortei funebri. Difendono da altri cani il loro territorio, in battaglie a volte ferocissime, che nulla hanno da invidiare a quelle epiche di Poitier o di Lepanto degli eroi cristiani.
Un po’ volenti e un po’ nolenti oggi abbiamo un diverso rapporto con gli animali. Una diversa sensibilità ha coinvolto tutti. Oggi nessuno si sognerebbe di attaccare una lattina alla coda di un cane per vederlo volteggiare come una trottola alla ricerca di liberarsi mordendosi la coda. Oggi gli animali hanno le loro istituzioni umane a difenderli. Esse intervengono in favore delle volpi cacciate in Inghilterra, dei cavalli lanciati al Palio di Siena, dei tori matadi nelle corride in Spagna, delle balene catturate nei mari del Giappone, dei cavalli frustati a sangue nelle fiere paesane in gare di tiro. Non si tollera più che si faccia del male ad una bestia per un motivo qualsiasi o addirittura senza alcun motivo. E’ segno di civiltà, non c’è dubbio.
Corriamo il rischio, però, di creare un rapporto con gli animali su basi sbagliate, il più delle volte su arrangiamenti e compromessi, da una parte una legge, pensata in una certa realtà socio-economica, dall’altra la realtà che non ne consente l’applicazione. Qui c’è gente che porta il cane fuori per fargli fare i suoi bisogni, lasciati poi lì, nella totale incuranza di leggi e di elementari opportunità di igiene. Vengono lasciati incustoditi cani pericolosi, che aggrediscono i passanti; oppure cagnolini che possono essere investiti e uccisi da un’auto di passaggio.
Recentemente a Milano un povero tassista è stato ucciso per aver investito un cagnolino. In tre lo hanno pestato e ridotto in fin di vita; poi difatti è morto. Non è morto come un cane, è morto per un cane. E’ il segno dei tempi. Nell’episodio c’è tutta la condizione di un’umanità, che, mentre si arricchisce per un verso s’impoverisce per un altro. Se la vita di un cane vale più di quella di un uomo, vuol dire che l’uomo è in grave confusione e disordine; sta scadendo pericolosamente al di sotto di un cane.
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domenica 7 novembre 2010

Berlusconi, l'immoralista necessario

Ha scritto Ernesto Galli Della Loggia nel suo ultimo libro, Tre giorni nella storia d’Italia, che “Nell’Europa di oggi è più facile, in generale, parlare di Hitler che di Berlusconi: i rischi sono assai minori”; ed ha aggiunto, quasi conscio della colossale minchiata detta: “Non credo di esagerare”. Che lo racconti agli Ebrei, allora!
Non c’è dubbio alcuno che gli scandali, sommati ai processi, che hanno investito Berlusconi in sedici anni di vita politica sono tanti e tali da rendere il suo nome metafora di frivolezza, di corruzione, di spregiudicatezza o, come dice Bill Emmott, ex direttore di “Economist”, autore del recente libro Forza, Italia. Come ripartire dopo Berlusconi, inadeguatezza; benché gli scandali non abbiano mai “varcato” la soglia della sua stanza da letto e i processi, riguardanti tutti presunti reati compiuti prima della sua scesa in politica, si siano rivelati in gran parte aggressioni giudiziarie.
Alcune sere fa, Ferruccio De Bortoli, direttore del “Corriere della Sera”, intervistato da Daria Bignardi su “La 7” nel corso della trasmissione “Le invasioni barbariche”, ha affermato che scandali e processi hanno nascosto le cose buone che ha fatto il governo Berlusconi, tenendo a sottolineare che di cose davvero buone ne ha fatte e ne sta facendo.
Siamo in presenza di un inedito fenomeno politico. Un capo di governo che sa governare il Paese, capace di amministrare anche, ma non sa governare se stesso, la sua persona, la sua intimità. E’ indubbio che i suoi comportamenti, extragovernativi, creano imbarazzo e disagio in chi sta dalla sua parte politica; indignazione e rabbia in chi sta dalla parte dei suoi oppositori; offendono il Paese intero.
E tuttavia Berlusconi sale e guadagna punti in consenso. Oliviero Toscani, il famoso fotografo, dice che questo accade perché il popolo italiano è un “popolo bue” e che quelli che stanno con Berlusconi sono “italioti” e, usando un epiteto inventato prima che arrivasse Berlusconi con le sue televisioni da Gianna Preda, la famosa giornalista de “il Borghese”, “videoti”; insomma una componente inferiore del variegato popolo italiano. Lo stesso Eugenio Scalfari, dal suo cogitatorio domenicale de “la Repubblica”, è dello stesso avviso, spostando a dieci anni prima del 1994 la nascita del popolo italiota, a “quando ebbe inizio l’ascesa televisiva della Fininvest e l’incubazione del berlusconismo nelle vene della nazione”. Dimentica Scalfari. C’è un oblio diffuso in Italia, che non dipende solo dalla vecchiaia, ma da una propensione a ricondurre tutto all’hic et nunc, che serve a rendere più forte e sensazionale la polemica.
Sul versante antiberlusconiano c’è un’Italia che, par di capire, non ami Berlusconi a tal punto che non prende nemmeno in considerazione le cose buone che fa il suo governo, che perfino non considera, perché le sue “porcherie” fanno aggio su tutto. Anzi, per questi italiani, il governo Berlusconi non esiste; e si aggiungono, ultima varietà, alla sempre più folta e variegata schiera dei negazionisti.
Berlusconi, dunque, no, perché è uno sporcaccione, perché ricchissimo ed ostenta in maniera pornografica la sua ricchezza, fa un po’ schifo quando si mette con ragazzine; ed aggiungiamo pure altro, ci sta tutto, il suo è un sacco capiente.
Ma, siccome stiamo parlando di reggere le redini di una nazione, ci dobbiamo sì o no chiedere se esiste una concreta, reale alternativa, non tanto a Berlusconi quanto alla sua maggioranza? Un’alternativa che, ovviamente, non abbia i caratteri di altra immoralità e che abbia le stesse capacità di governo che – negazionisti a parte – il suo governo ha dimostrato di avere?
Non occorre molta intelligenza per rendersi conto che un’alternativa senza le forze politiche che costituiscono l’attuale maggioranza, non esiste; e ciò a prescindere da ogni considerazione morale o politica.
Per formare un ipotetico governo tecnico, invocato un giorno sì e l’altro pure, bisognerebbe mettere insieme un nuovo “arco costituzionale” da Vendola a Fini, comprendendo tutta l’umanità politica che sta in mezzo. Se questa può essere una concreta proposta politica ha ragione chi, alla domanda a chi va il suo consenso, senza stare lì a fare le elucubrazioni di Scalfari e dopo essersi premunito di farmaci antivoltastomaco, dice Berlusconi. Siamo tornati in Italia al famoso invito di Indro Montanelli, quando diceva: turiamoci il naso e votiamo Democrazia cristiana; che non è certo una gran bella cosa. Con la differenza che ai tempi di Montanelli alternative erano possibili ma improbabili, stanti in piedi la guerra fredda e il Muro di Berlino. Era possibile, infatti, un’alternativa di sinistra con comunisti e socialisti, ma questo non lo consentiva la posizione italiana nell’equilibrio degli schieramenti internazionali.
Stiamo, dunque, oggi peggio di prima sotto il profilo della reale possibilità di avere un’alternativa a questo governo presieduto da Berlusconi. Al quale va ascritto anche, tra le tante colpe, quella assai più grave, perché meno appariscente, di una corruzione italiana o italiota esistente da sempre e incancrenita da quando c’è la repubblica democratica fondata sui partiti, ossia la corruzione, metastasi pervasiva dell’organismo statale, sociale e nazionale. Pochi giorni fa è stato annullato il concorso per notai perché la traccia della prova scritta era già nota ai soliti “informati”. Si pensi! I notai, i custodi della legge che scadono in una combine da mafia, che in radice nascono come violatori o elusori della legge!
Il vero grande immondo scandalo che ammorba l’Italia è quello che per cinque posti di lavoro si presentano migliaia di candidati, per poi rinunciare perfino a presentarsi alle prove convinti che quei posti sono stati già assegnati. Gli italiani o italioti che siano, fessi comunque no, quando dicono: siamo con Berlusconi, lo dicono pure perché sono contro i suoi oppositori, che, quando non sono degli incapaci, sono dei complici di chi trucca i concorsi, di chi lascia crollare i monumenti, di chi non sa arginare gli straripamenti e gli smottamenti, di chi non riesce a garantire un'istruzione adeguata alla futura classe dirigente, di chi non sa gestire nemmeno la sua monnezza: un’Italia che l’immoralista Berlusconi non ha creato davvero, ma ereditato dai soliti immarcescibili moralisti.

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