domenica 25 ottobre 2015

Unioni civili, disgregazione sociale


I partiti – si fa per dire, dato che non hanno niente che li degni di questo nome – sono orientati a lasciare libertà di coscienza ai loro senatori e ai loro deputati per quanto riguarda l’ipotesi di adottare bambini da parte delle coppie gay nella legge che si sta discutendo in Parlamento sulle Unioni civili.
Ora, dico io, non c’è da pestarsi la coglia coi piedi per le risate? Ma di che coscienza parlano queste limacce, che tutt’al più sono capaci di qualche scia di bava? Vorrebbero dare ad intendere che hanno una coscienza! Queste anime vendute, che, per non staccare il loro schifosissimo culo dalla poltrona di parlamentari, stanno svilendo i connotati culturali e civili di tutto un popolo, peraltro ridotto al silenzio, parlano di coscienza! Un vecchio adagio delle mie parti diceva: cuscienzia e turnisi no sse sape ci l’ha (coscienza e quattrini non si sa chi ce l’abbia). Vada per i quattrini che oggi si sa benissimo chi li ha e chi non li ha, ma la coscienza! Da dove si vede se uno ce l’ha o non ce l’ha,  se ce l’ha pulita o se ce l’ha sporca, se non dai suoi comportamenti, dalle sue azioni, dalle sue opere? Via, Diogene non andrebbe da quelle parti neppure a cercare funghi!
Mettiamo pure che la coscienza ce l’abbiano, anzi che ne abbiano più di una, non viene loro il sospetto che proprio perché si deve decidere su certe delicatissime questioni dovrebbero essere tutti gli individui ad esprimersi? O pensano che solo loro hanno una coscienza o che la loro valga più di quella di tutti gli altri cittadini messi assieme?
L’ennesima beffa agli italiani da parte di questi loro malrappresentanti pone un problema non più differibile, quello del referendum propositivo. Di fronte a questioni che investono la coscienza e che in prospettiva potrebbero stravolgere la società e trasformarla in qualcosa di profondamente diverso, è necessario che tutti i cittadini esprimano il loro pensiero. Ecco, in questo caso gli italiani, pronunciandosi, darebbero ai loro legislatori indicazioni precise sul da farsi. Se si invoca il voto di coscienza, perché deve valere solo per i 630 fottuti deputati e  per i 315 fottutissimi senatori? Se veramente avessero una coscienza degna di questo nome quei signori direbbero: è giusto e necessario che della questione si occupi il popolo italiano direttamente.
Pretendere di introdurre cambiamenti che stravolgono la civiltà millenaria di un popolo con la presunta coscienza di meno di mille persone, è mostruoso non solo per un democratico, ma per qualsiasi persona con un minimo di passione civile.
Nel merito. Introdurre in Italia istituzioni sociali diverse dalla tradizionale famiglia vuol dire che di qui ad un paio di generazioni ci sarà lo stravolgimento completo della società. A quel punto la società stravolta potrebbe presentare dei guasti ancora più gravi di quelli che si era voluto evitare o riparare col nuovo modello. E’ certo, infatti, che ogni modello sociale prima o poi va incontro alla degenerazione, che il più delle volte non si conosce al momento della sua introduzione. Conosciamo i guasti delle cose reali; non conosciamo i guasti che potrebbero derivare dalle ipotetiche; per quelli bisogna aspettare che diventino realtà.
Siamo in un’epoca in cui l’individuo conta più dell’insieme, anzi conta soltanto lui se per riconoscergli qualche diritto si è disposti a bruciare l’insieme. Seguendo il trend dell’individualismo assoluto di massa, ovvero di sinistra, rovesciato rispetto a quello elitario di destra, si costruisce una società marmellata, in cui bianchi e neri, cristiani e musulmani, eterosessuali e omosessuali stanno insieme senza ordine alcuno, né naturale né legale. Sarebbe la foresta, dalla quale ripartire per ricostruire l’ordine perduto.
L’individualismo assoluto comporta la pretesa del soddisfacimento di ogni desiderio individuale rivendicato come diritto. Ma la natura a questa gente non ha insegnato nulla? Non ha insegnato che ogni individuo ha dei limiti e che perciò si deve porre delle rinunce, così come accade a chi fisicamente è impedito dal fare o dall’essere ciò che vorrebbe fare o vorrebbe essere? Non vorrebbe forse un piedistorti fare i cento metri piani in dieci secondi pure lui? E non vorrebbe forse un brutto deforme conquistare pure lui una bella donna? E’ forse possibile soddisfare ope legis siffatti desideri solo facendoli passare per diritti?
Gli omosessuali non sanno accettarsi in quanto tali e, sapendo di non potere o non voler procreare, sapendo che un bambino ha bisogno di avere un padre e una madre, non accettano la loro condizione e vogliono imporre violenze innaturali, a dispetto della stragrande maggioranza degli altri esseri umani. E tutto questo lo rivendicano come un loro diritto.

Non è questione di entità singole, slegate, di monadi; gli uomini o stanno insieme nell’ordine e nella legge o sono bestie. Non si può dire: ma a te, che importa se gli omosessuali creano delle famiglie diverse dalle tradizionali e adottano dei bambini? L’importante che tu possa fare quello che piace a te; lascia che anche gli altri facciano quello che piace a loro. Obiezione stupida, perché da che mondo è mondo, non c’è nulla nella società che riguardi un individuo che non coinvolga nello stesso tempo o in un tempo differito anche gli altri. Battersi per costruire un modello sociale o per conservarlo è un diritto – questo sì che è un diritto – che non si può negare a nessuno. Ri-obiezione: e allora perché neghi agli omosessuali di battersi per costruire il loro modello sociale? Obiezione accolta. Risposta: non si nega agli omosessuali di battersi per un loro modello sociale, si vuole impedire ad una classe politica di sbandati, di incapaci e di asserviti alla dittatura del monopensiero europeista, di far loro il regalo di omologarli nel nome del dio consumo e del suo profeta denaro, con ciò condannando al disordine e alla rovina l’intero impianto di civiltà.  

domenica 18 ottobre 2015

Renzi, l'Italicum e la riforma del Senato


Lunedì, 5 ottobre, Rai Storia trasmise nella rubrica “Il tempo e la storia”, condotta da Massimo Bernardini, una puntata sulla legge Acerbo del 1923, ospite in studio il prof. Giovanni Sabbatucci, uno degli storici italiani meno “ossessionati” dall’antifascismo, forse perché è uno dei maggiori conoscitori del fascismo.
La legge Acerbo fu voluta da Mussolini per avere un Parlamento a sua completa disposizione. Essa, infatti, assegnava alla lista più votata i due terzi dei seggi. Avvenne così che alle elezioni dell’anno successivo, 6 aprile 1924, la Lista Nazionale (Listone), col simbolo del fascio littorio, vinse le elezioni e per Mussolini fu l’inizio, se non proprio formale, della dittatura. Quello formale, l’inizio dico, sarebbe arrivato dopo, col delitto Matteotti e il famoso discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera, cui seguirono le leggi cosiddette fascistissime.
La legge Acerbo fu dunque lo snodo della dittatura fascista. Oggi ci chiediamo: nessuno si oppose alla sua approvazione? Ad opporsi furono il Partito Popolare di don Sturzo, poi indotto a dimettersi e a scegliere la strada dell’esilio, perché mollato dalla Chiesa, e i partiti di sinistra, sempre divisi e inconcludenti. Essi vedevano lucidamente i rischi che correva il Parlamento, ma nulla seppero o potettero fare per impedirne l’approvazione. Mancavano le forze, l’unità d’intenti, la volontà.
Lo stesso Enrico De Nicola, quello che poi sarebbe diventato a fascismo finito il primo Presidente della Repubblica Italiana, all’epoca Presidente della Camera, collaborò con Acerbo o per lo meno gli diede la sua consulenza tecnica, essendo un giurista di primissimo ordine. E Giovanni Gronchi, che sarebbe diventato il terzo Presidente della Repubblica – ma che continuità! – era sottosegretario all’industria nel governo Mussolini. Questa era l’Italia politica di quegli anni.
E’ ben vero che l’ambiente era dominato da un perdurante clima di guerra civile e che le stesse tribune di Montecitorio, mentre si discuteva l’approvazione della legge, erano piene di Camicie Nere; ma questo spiega relativamente il fenomeno della corsa degli italiani verso il fascismo.
C’è un’immagine che rende come meglio non si potrebbe l’idea del consenso di massa, è la partenza di quelle grandi maratone, che oggi si svolgono periodicamente in diverse località del mondo. Ecco, se pure uno si ferma o addirittura cerca di fermare altri, viene travolto e appena appena decalcomanizzato sull’asfalto. E’ la cinetica della politica, mettiamola così, per non offendere nessuno.
Per tornare alla legge Acerbo, balzano subito all’attenzione di chi ancora sa essere sveglio due dati. Il primo, che perfino un De Nicola si mise  al servizio del fascismo. Secondo, che la Chiesa già da allora pregustava concordati e patti con Mussolini. Gronchi era nel governo in quota Partito Popolare. L’unico deputato di questo partito che votò contro fu Giovanni Merizzi di Sondrio.
Nel corso della trasmissione non si fece il minimo cenno a quanto stava accadendo nel Senato dei nostri giorni sulla riforma dello stesso e sul combinato disposto con la nuova legge elettorale detta Italicum, voluti da Matteo Renzi. Ma i fantasmi prendevano corpo ogni volta che nella trasmissione televisiva si insisteva sulle intenzioni di Mussolini di assicurarsi tutto il potere attraverso la legge Acerbo, la sua legge.
I più avveduti costituzionalisti e politologi lo sanno: c’è un rapporto di causa-effetto tra il sistema elettorale e il regime politico che ne vien fuori. Perciò dietro ogni legge elettorale c’è un disegno da parte di chi quella legge la vuole ad ogni costo, ieri Mussolini, oggi Renzi.
Quanti di quelli che siedono oggi a Montecitorio e a Palazzo Madama conoscono le vicende italiane e quanti sanno trarre un insegnamento da esse? Io dico pochissimi, e quei pochissimi seguono la corrente, pezzi di sughero o di qualcosa che gli somiglia, con l’unica preoccupazione di tenersi a galla e di percorrere quanto più corso possibile. Oggi sulle tribune di Palazzo Madama non ci sono squadristi pronti a menare la mani; oggi si segue la corrente per opportunismo, per lavoro, per carriera, per non rimanere esclusi, per piacere all’ambiente di lavoro o del bar.
Dietro il pifferaio dei nostri giorni corrono tutti. Verdini, un pluri inquisito transfuga da Forza Italia, addirittura dice di essere lui il andando in soccorso di Renzi, facendo finta di non sapere che in politica c’è una bella differenza tra tattica e strategia. Il fatto che siano stati votati, lui e i suoi accoliti, da altri per fare altro, non lo tocca minimamente. Dietro a Renzi vanno ormai gli ex oppositori interni del Pd, convinti che non c’è più niente da fare. E’ bastato il papocchietto del voto alle Regionali per i candidati al Senato indicati dai cittadini, che il Consiglio Regionale poi formalmente nomina, per far gridare ai poveri frustrati della minoranza Dem di aver pareggiato la partita con Renzi.
Ma dove va l’Italia? Dove gli Italiani? A chiedercelo siamo rimasti solo noi, dai cinquant’anni in poi, che veniamo da altra educazione politica; quell’educazione per la quale ogni scelta che facevamo era mirata ad una prospettiva: gli ultimi a sapere che oltre al presente da gestire c’è un passato da conoscere e un futuro da creare come arcate sul viadotto della storia. Non è nostalgia. La realtà delle cose non è cambiata; sono cambiati gli uomini. Quelli che oggi hanno meno di cinquant’anni non sanno leggere la realtà nella sua derivazione e nella sua evoluzione, non hanno memoria, non hanno capacità di vedere più lontano dell’effimero quotidiano.

Che Renzi ricalchi le orme di Mussolini, facendo approvare una legge elettorale che gli consente di padroneggiare il Parlamento e di spadroneggiare nel Paese, non significa necessariamente che le conseguenze saranno le stesse. Troppo diverso è lo scenario italiano, europeo e mondiale per assurde riproposizioni; ma gli effetti, pur diversi, potrebbero essere altrettanto nefasti sul piano della formazione civica e politica dei cittadini, irreggimentati in una dittatura non imposta ma scelta spontaneamente. Andiamo come quelle persone che, per traumi lenti e progressivi, finiscono per perdere volontà e interesse a vivere e a progettare e si conformano, magari anche felici, all’inavvertito degrado. 

domenica 11 ottobre 2015

Marino: la disavventura di un povero...fate voi


Ignazio Marino, il discusso e stravagante sindaco di Roma, si è dimesso, anzi…no, lo farà formalmente lunedì. Così ha detto. E’ un uomo ordinato, pignolo; almeno all’apparenza. E’ un chirurgo di fama mondiale, ha fatto centinaia di trapianti, come potrebbe non esserlo? Sa quando deve iniziare il corso di un evento. E se pure si tratta di dimissioni, meglio farle iniziare in principio di settimana invece che alla fine. Sono dettagli, questi, che contano, specialmente nei soggetti genialoidi, intellettualoidi, un po’ fissati.
Di lui, in questi giorni, si sono raccontate stravaganze & stranezze a non finire, che si sono aggiunte a quelle dei mesi precedenti, culminate col tentativo di imbucarsi al seguito del Papa a Filadelfia ed autoesposizione con tanto di fascia tricolore in prima fila.
Si è detto che, scoperto di aver pagato cene private con la carta di credito del Comune, spacciandole per cene offerte ad alte personalità straniere – i fantasmi delle nipoti di Mubarak tornano! – da queste poi smentito, se ne fosse uscito dicendo che comunque avrebbe risarcito il Comune e che non lo avrebbe fatto più.
Si è detto che lui per Roma non si muoveva in bicicletta, come teneva ad ostentare, ma in auto, seguito da un furgone, e che ad un certo punto, giunto nelle vicinanze del luogo dove era diretto, scendeva, prendeva la bicicletta dal furgone e via, lasciando che l’auto lo seguisse guidata da un dipendente del Comune. C’è da credere? Bah!
Qualche avvisaglia sulle sue invenzioni, che per lui erano certezze, l’aveva data Alemanno, suo predecessore, che, da lui bersagliato e bollato come la destra che doveva tornare nelle fogne, una sera su “La Sette” disse che una sua telefonata per raccomandare alcuni suoi amici Marino se l’era inventata di sana pianta.
Ha poi tentato di metterla sulla Resistenza e l’antifascismo, andando sul sicuro e facendo dei pendant storici del tutto sgangherati: abbiamo liberato Roma una seconda volta dai fascisti. La libereremo dai criminali e mafiosi. Nemmeno Totò col suo abbiamo conquistato Trento ed ora conquisteremo trentuno.
Certo è che Marino, da quando Renzi gli aveva dato quella specie di ultimatum: amministri se lo sa fare altrimenti lasci, aveva perso la sua baldanza. L’inchiesta “Mafia Capitale” poi non lo aveva lasciato tranquillo, c’erano innegabili elementi di continuità tra le passate amministrazioni e la sua. A questo, che già era tanto grave, si aggiungevano le lamentale dei cittadini romani, i quali gli contestavano di essere un incapace, di non riuscire a fare nemmeno le cose più banali e di essere sempre lontano da Roma nei momenti di crisi o di spropositi colossali, come i funerali del boss Vittorio Casamonica.
La sua débâcle insomma si profilava già tutta e netta prima delle comiche finali di questi ultimi giorni. Ma, un po’ per la questione del Giubileo e un po’ per salvare l’immagine e la tenuta del Pd, li maggiori sui lo avevano messo sotto tutela, di Matteo Orfini sul piano politico, del prefetto Franco Gabrielli sul piano operativo.
Un’altra persona, con un minimo di amor proprio, a quel punto si sarebbe dimesso; avrebbe mandato tutti a quel paese. Ma come, io sindaco rigeneratore di Roma, messo sotto tutela?  
Lui, invece, ha fatto finta di niente ed ha continuato con qualche battuta sulla “badante” Gabrielli, tradendo un autentico crollo di personalità. Da quel momento non è stato più lui, il politico entusiasta e sicuro di sé, il professionista serio che sa di essere stimato; ha perso la sua sicurezza e si è dato ad atteggiamenti sempre meno controllati, tra spacconate (farò il sindaco fino al 2023), fughe (continui viaggi in America), minacce (contro alcuni del Pd e delle opposizioni e perfino di signore che lo contestavano), irriverenze (polemica col Papa) e catastrofiche profezie (dopo di me a Roma trionferà la mafia). Il suo volto è diventato quasi catatonico, una maschera di paura, di incertezza, di angoscia. Non ci vuole l’occhio di un esperto per accorgersene.
Quasi a gara col suo ben più illustre omonimo, il poeta secentesco Giambattista Marino, deve essersi convinto che la risposta da dare alla suburra, in cui si è ritrovato, era di stupire, in parodia poetica: è del sindaco il fin la meraviglia / chi non sa far stupir vada alla striglia. Ma non sono più i tempi del Marino poeta e del barocco e le sue stravaganze non sono materia di filologia o di critica letteraria,  se la devono vedere coi marpioni della politica e col codice penale.
Detto tutto questo, però, si pone un caso Marino di tutt’altra specie. Un po’ ricorda la vicenda di papa Celestino V, che, secondo Dante, “fece per viltà il gran rifiuto” ma che fu vittima dei maneggi di quel furbastro di Bonifacio VIII, come narra, un po’ revisionisticamente, Ignazio Silone in quel bellissimo e straordinario libro che è “L’avventura di un povero cristiano”.
La sua disastrosa vicenda è anche e soprattutto del Pd e di quella discutibilissima procedura delle primarie. Marino, infatti, non è stato scelto come si faceva una volta, ossia da un comitato che sapeva vagliare i pro e i contro, anche nella prospettiva politica più ampia e interagente, ma dal popolo delle primarie, un soggetto indistinto, ingestibile, una specie di mostro senza una volontà precisa.
Ci sono poi le sue ambizioni. Le sue prime mosse – che sono di tutto rispetto, anche se non sempre o totalmente condivisibili – lo hanno reso subito inviso ai romani. Il primo provvedimento fu di pulire la zona dei Fori Imperiali di tutti quei camion bar e chioschi che, se pure erano comodi per tanti turisti che potevano comprare souvenir o rifocillarsi, non consentivano di fruire della bellezza paesaggistica, artistica, archeologica di Roma. L’altro provvedimento, ancor più odioso, fu di legalizzare i matrimoni gay celebrati all’estero, vantandosene e addirittura, come poi si è saputo, informando – quasi uno sfottò – le alte cariche della Chiesa, addirittura il Papa se il telefono non lo avesse preso un suo segretario.

Ora Marino minaccia di trasformarsi in Sansone e di voler portare con sé tutti i filistei. Qualcuno gli dovrebbe sommessamente dire che anche ai guai occorre mettere un limite.

domenica 4 ottobre 2015

Renzi, le bugie e l'alternativa che non c'è


Si corre verso il compimento del secondo anno del governo Renzi mentre si allontanano sempre più ipotesi di alternative. Non ce ne sono all’esterno della maggioranza. Non ce ne sono all’interno. Renzi perciò è destinato ad apparire, suo malgrado, come il capo di una dittatura, morbida come un peluche; un peluche, però, che morde e graffia. Tale è infatti quel governo che, creatosi quasi per spontanea situazione – verrebbe di dire per opera e virtù dello spirito santo – è senza alternative e perciò non è sollecitato o contrastato da una vera opposizione. E’ dall’autunno del 2011 che in Italia si governa per “improrogabile necessità”, sotto la minaccia di nemici invisibili, con esecutivi nati sotto il cavolo della provvidenza.
E’ un dato di fatto di fronte al quale c’è poco da obiettare. Se sia un bene o se sia un male è un altro discorso. I devoti della democrazia e del liberalismo più onesti bofonchiano, allargano le braccia, a corto come sono di argomentazioni. Come a dire: aspettiamo tempi migliori o…peggiori. I più disonesti non si differenziano minimamente dai soliti arroganti e prepotenti e avvertono: non vi rendete conto ancora di chi ha vinto. Così si è espresso Michele Anzaldi, il renziano membro di commissione di vigilanza Rai contro i responsabili di RaiTre.   
Fatta questa premessa, pare esagerato che il governo ricorra a tante sistematiche bugie per giustificare i suoi provvedimenti necessari ma sgraditi. Potrebbe dire, chiaro e tondo, signori siamo dei ricchi impoveriti ovvero dei morti di fame o, come diciamo noi pugliesi, son finite le fave di Barletta, perciò facciamocene una ragione. Nessun avversario potrebbe avvantaggiarsi di tanta sincerità. Invece assistiamo alle bugie tese a far passare dei tagli, brutali e regressivi del benessere raggiunto dal nostro stato sociale, come lotta agli sprechi, come amministrazione virtuosa; ad accettare la fame come scelta di dieta salutare. Cose che ricordano i mussoliniani “fagioli carne dei poveri”, dopo le sanzioni economiche.
Di sprechi parlano quando dicono ai medici: guai a voi se prescrivete analisi e accertamenti diagnostici non giustificati dall’esito sospettato; pagherete di tasca vostra. Ma come? Un medico deve pure sperare che l’esame clinico prescritto ad un paziente per sospetta malattia dia l’esito temuto altrimenti deve risponderne di persona? Ma si deve proprio essere scemi per ipotizzare simili scenari da film comici in un settore della società tra i più delicati e drammatici! 
Di sprechi parlano quando chiudono tanti tribunali. Sprechi, ma di che parlano, se praticamente non ci sono gli spazi fisici nei pochi tribunali rimasti per l’esercizio della giustizia? Qui è da ottusi non capire che non si può mettere in un solo contenitore una quantità di cose assai maggiore di quante ne possa contenere; anche a non voler tenere conto di ogni altro aspetto.  
Di sprechi parlano quando sopprimono tratte ferroviarie e non fanno arrivare i treni fino a raggiungere la città capoluogo di provincia, come nel caso dell’alta velocità istituita fino a Bari e non oltre, come se dopo ci fosse il nulla. Lo stato sociale è quello che garantisce a tutti i suoi cittadini gli stessi diritti, lo stesso grado di benessere, prendendo a chi ha di più e dando a chi ha di meno. Come si può escludere da un beneficio o dallo sviluppo del Paese l’intero Salento, olim Terra d’Otranto?
Di sprechi parlano quando sopprimono le provincie e con esse tutti i servizi annessi, compresi biblioteche e musei. Le provincie erano uno spreco? Francamente nessuno se n’era accorto, mentre tutti ci siamo accorti dei miliardi e miliardi sottratti allo Stato e dunque al Paese da politici corrotti,  burocrati rapaci, imprenditori scorretti, professionisti imbroglioni, artigiani e commercianti evasori fiscali e cittadini disonesti e falsi invalidi.
Di sprechi parlano quando riducono a giorni alterni la distribuzione della corrispondenza cartacea, facendo passare i postini un giorno sì e uno no, una settimana i giorni pari e quella successiva i giorni dispari.
Sentiamo sulla nostra pelle che non si tratta di sprechi, ma di riduzione di diritti e di benefici che sembravano irreversibili. Sanità, giustizia, cultura, trasporto, comunicazione sono i settori più bersagliati da un governo che vuole far passare una pesante condanna per una libera ed oculata scelta.
La propaganda, che evidentemente deve essere un vizio compulsivo dei politici se non riescono a farne a meno, bombarda il paese di immagini rassicuranti, di successi inesistenti, d’immaginate riprese, di ostacoli superati, di fulgide prospettive, d’improbabile leadership dell’Italia in Europa, di…magnifiche sorti e progressive. Non è berlusconismo quello di Renzi, ma bisogna convenire che ne è una parodia. Tra una trovata propagandistica e l’altra, eccoti la solita patacca del ponte sullo Stretto di Messina, che sembra funzionare sempre.
Ma sarebbe ingeneroso non considerare l’unica prospettiva rappresentata dal Movimento 5 Stelle. Senonché questa speranzella tradisce un limite che è nel suo porsi come assoluta discontinuità con le precedenti amministrazioni e non sembra tener conto che le difficoltà del nostro Paese vanno ben oltre le solite condanne del ceto politico. Esso non è un organo malato in un organismo sano, qualcosa che si può trapiantare come il fegato o un rene in un soggetto che gode per altri aspetti di ottima salute. Magari fosse così! In questo proiettarsi come la soluzione di tutti i mali italici il Movimento di Grillo dimostra di non sapere o fa finta di non sapere che in Italia ci sono stati ben altri e ben più credibili movimenti politici finiti nel fallimento e nel disonore. Mi riferisco a quello socialista, naufragato miseramente con Craxi; e nello stesso modo il Movimento sociale italiano, trascinato nel vortice da Forza Italia, anch’essa nata per restituire all’Italia salute e dignità dopo Tangentopoli. Tanto per restare agli esempi a noi più vicini. Il M5S avrebbe dovuto più modestamente e concretamente dare un contributo di qualità insieme con quanti si proponevano con gli stessi intenti. Le sparate di Grillo non hanno colpito i veri mistificatori e imbroglioni ma anzi li hanno favoriti, liberando il loro cammino. Renzi, il dittatore peluche, è al governo anche per colpa loro.