domenica 29 marzo 2015

Il tiro alla fune tra Berlusconi e Fitto danneggia la Puglia


La gente di destra, genericamente intesa, comunque che vota a destra, si chiede come andrà a finire tra Berlusconi e Fitto o meglio tra Fitto e Forza Italia. E’ una sorta di tiro alla fune, o tutti da una parte o tutti dall’altra, sportivamente, ma la fune alla fine potrebbe spezzarsi e allora tutti a gambe all’aria. La metafora legge immediatamente la realtà: si spezza o no?
La gente se lo chiede perché vorrebbe recarsi alle urne e votare alla scadenza elettorale per le Regionali. E’ sbagliato pensare che la gente non voglia più votare, che si è stancata di farlo, che è schifata, come ormai certo populismo di maniera vorrebbe. Il voto è il solo strumento che il cittadino ha a disposizione per contare qualcosa; se vi rinuncia gli resta il giogo sulla cervice che lo costringe a camminare guardandosi i piedi.
Per come si sono messe le cose, la fune tirata da una parte da Berlusconi e dall’altra da Fitto non potrà che rompersi, anche perché gli strappi che ha subito in quest’ultimo anno e soprattutto in questi ultimi mesi di preparazione della campagna elettorale sono stati tanti e tali che se pure dovesse reggere non servirà a lungo. Alle ragioni politiche si sono aggiunte quelle personali, che, benché in soggetti politicamente adulti ed esperti, un qualche lascito progressivamente usurante lo hanno marcato. Qui da noi non si offende la famiglia, è colpa imperdonabile; e Berlusconi lo ha fatto nei confronti di quella del rivale Fitto. 
Fitto, dunque, dovrebbe presentarsi alle elezioni con le sue liste. Con quali probabilità di successo è tutto da vedersi. La situazione di conflittualità interna, che di fatto divide Forza Italia, potrebbe nuocere a ciascuno dei due candidati e avvantaggiare Emiliano, candidato dello schieramento di centrosinistra. Senonché anche a sinistra non sono pochi i problemi interni, anche se in questo schieramento si è più abituati a trovare l’accordo pur di vincere le elezioni. A lume di naso se in Forza Italia non si giunge ad un ricompattamento l’esito delle elezioni è scontato.  
La sfida in Forza Italia, dentro o fuori di essa, anche nervosa per molti aspetti, assume importanza per due ragioni. La prima sul piano nazionale; la seconda su quello regionale. Sul piano nazionale appare – e non da ora – che Berlusconi voglia fare come il personaggio protagonista de “La roba” di Giovanni Verga, il povero arricchito Mazzarò, il quale, giunto al termine dei suoi giorni, prende un bastone e incomincia a colpire quanto gli capita a tiro, urlando “roba mia, vienitene con me”, non volendo lasciare ad altri il frutto dei suoi sudori. E’ significativo che molti, sia per approvare sia per stigmatizzare un simile comportamento, dicano che Forza Italia è il partito suo personale e che pertanto se non è giusto è normale che venga usato a suo interesse o vantaggio. Chi gli sta attorno e lo sostiene in questa procedura liquidatoria non lo fa perché convinto che abbia ragione ma solo per calcolo, per posizione vantaggiosa acquisita. Ma se Forza Italia non aveva respiro ai suoi dì migliori, figurarsi oggi. Fitto, certo ormai, che per Berlusconi restano giorni di perdurante sofferenza politica e giudiziaria, si è posto come “ricostruttore”. Un ruolo direi talmente importante e scontato che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo; però gli viene contestato dagli epigoni berlusconiani settentrionali. A torto? A ragione? Un po’ e un po’. Si può capire. Stiamo parlando di politica, dove tutto è di tutti.
Quelli che hanno sicuramente torto – parlo dei berlusconiani – sono i pugliesi, i quali in questo tiro alla fune stanno facendo il gioco sia di Berlusconi e sia dei suoi successori settentrionali. In questo senso la sfida è importante sul piano regionale.
Non conosco Vitali, l’attuale responsabile regionale di Forza Italia; ma se la storia non passa invano e lascia sempre qualche indicazione di percorso e qualche testimonianza, c’è da pensare che tanta fedeltà al signore di Arcore crea qualche dubbio. Per carità, nessuna allusione, né piccola né grande, ma solo una riflessione generale. Tutti,  dai più grandi ai più piccoli sostenitori di Berlusconi, da Previti a Lavitola, da Tarantini a De Gregorio, dalla Minetti alla Ruby, da Emilio Fede a Lele Mora, hanno lasciato da dove sono passati una trascina non proprio di fiori né di opere di bene.
Comunque si vogliano valutare le cose berlusconiane, i suoi fedeli pugliesi stanno arrecando un danno alla loro terra, i cui interessi non possono coincidere con quelli di Berlusconi, né possono essere demandati ad altri che non siano pugliesi. Forza Italia oggi può fare davvero poco per l’Italia, pochissimo per le regioni settentrionali, nulla per quelle meridionali. E’ una constatazione di fatto, che va oltre i torti e le ragioni dei singoli. Di qui la necessità di ricostruire in loco qualcosa di importante per ripartire. Sarebbe stato preferibile ripartire con un partito di dimensione nazionale come Forza Italia, ma in considerazione del fatto che questo partito ormai è uno strumento politico di pressione o di contrattazione personale di Berlusconi, allora non si può remare contro chi sta cercando di ridare all’elettorato di centrodestra la ragione e l’entusiasmo per andare a votare.

Se, per remota e disgraziata ipotesi, di qui alle elezioni, non si dovesse trovare una soluzione produttiva, allora sì che i pugliesi potrebbero arrabbiarsi. E’ già accaduto, sia pure a livello comunale, che per i contrasti tra vari personaggi o correnti si è giunti alle elezioni del tutto impreparati, senza liste e senza niente, lasciando intere realtà comunali senza rappresentanza politica, con gravissimo danno non solo dell’elettorato di centrodestra ma anche delle stesse istituzioni, deprivate di una componente essenziale di dibattito e di confronto. Che accada in campo regionale è improbabile, ma se si giunge in ordine sparso il risultato è pressoché lo stesso.       

domenica 22 marzo 2015

L'Italia e il populismo trionfante


Non v’è dubbio che il fenomeno politico più importante nell’Italia postpartitocratica, dunque di quest’ultimo quarto di secolo, è il cosiddetto populismo. Il fenomeno non è nuovo ma, sempre considerato sbrigativamente negativo, solo di recente ha avuto attenzioni da parte della scienza politica con analisi avalutative e descrittive. Prima lo si associava alle dittature in generale e in Italia a quella fascista. Dopo il fascismo furono gli esclusi dal sistema partitocratico, fondamentalmente di destra, neofascisti e monarchici, ad avviare iniziative e a usare toni di pretto stampo populistico non disdegnando scherno e satira. Per dire, Guglielmo Giannini, fondatore dell’Uomo Qualunque, si divertiva coi Maledetto Croce, Fessuccio Parmi, Piero Caccamandrei e Palmiro Togliatti chiamato “il cosacco onorario”. Fino agli inizi degli anni Novanta populista era una variante di qualunquista e lo si ascriveva alla destra, come ogni altro fenomeno politico che non fosse riconducibile al sistema dei partiti, in Italia identificabile nel ciellenismo, poi evoluto nell’arco costituzionale. La stessa polemica partitocratica, in quanto rivolta a quel sistema, veniva screditata benché sostenuta da studiosi del calibro di Giuseppe Maranini e Panfilo Gentile. Aldo Moro al congresso democristiano di Napoli del 1962 la bollò come una polemica di destra, perché mirata a delegittimare il sistema dei partiti, la cui strategia, democratica, dal centro guardava e si muoveva verso sinistra, secondo il senso unico degasperiano.
Solo dopo la bufera di Tangentopoli e la stagione giudiziaria di Mani Pulite, il populismo ha subito uno spontaneo e quasi immediato processo revisionistico ed è stato inteso come la più diretta e redditizia interpretazione del popolo a livello soprattutto comunicativo-comportamentale. Alla base c’è una diversa valutazione del popolo, non più da educare e guidare ma da “accompagnare” nelle sue più genuine istanze di onestà, di chiarezza, di semplicità, di concretezza.
Di qui un malinteso rapporto rovesciato politica-popolo, quasi una contrapposizione esclusiva a tutto vantaggio del popolo. I politici si sono adeguati e hanno avuto nei confronti dell’universo partitico una sorta di damnatio nominis surrogando le strutture e le circostanze con nomi più accattivanti e popolari, non solo per farsi più immediatamente capire dal popolo, ma addirittura per riciclarne i modi di vedere e di sentire. Contemporaneamente il fenomeno ha perso la sua connotazione di destra ed è diventato a tutti gli effetti e in tutti gli aspetti una variante della democrazia politica. Sicché oggi ci sono fenomeni populistici a destra, al centro e a sinistra; e – se mi è lecito dirlo – anche nella chiesa cattolica. Perché qualcuno ha qualche dubbio sul populismo di Papa Francesco? Direi che il suo ha perfino l’imprinting sudamericano.
Marco Tarchi, politologo dell’Università di Firenze, colse questa importante evoluzione in un suo saggio del 2003, L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi (il Mulino, pp. 208), che oggi ripropone in un’edizione più approfondita e ampliata, L’Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (il Mulino, pp. 380). La tesi di Tarchi nasce dall’intuizione che il populismo, se pure fino ad un certo momento in Italia si è configurato come di destra, dalla crisi dei partiti in poi è stato piegato in tutte le direzioni politiche. E fenomeni populistici sono stati e sono la Lega di Umberto Bossi, il giustizialismo di Antonio Di Pietro, Forza Italia di Silvio Berlusconi, il movimento dei girotondi, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, il Pd nell’interpretazione di Matteo Renzi. Al fenomeno, secondo Tarchi, non fu estranea la variabile del picconatore Cossiga. E che il fenomeno sia vincente, almeno nell’immediato, lo provano i suoi successi elettorali, a volte, come nel caso di Berlusconi e di Grillo, davvero sorprendenti.
Il populismo, inteso come pratica per creare consenso, non poteva non essere utilizzato da tutti i soggetti della politica. «Era facile immaginare – scrive Tarchi – che prima o poi, a sinistra, qualcuno avrebbe avuto l’idea di combattere l’avversario scendendo sul suo stesso terreno, attingendo al serbatoio dell’antipolitica, al mito della moralità  e della spontaneità  della società civile, chiedendo  alla Magistratura di esercitare un ruolo di supplenza di una politica in forte sofferenza e lanciando i propri proclami in nome del popolo sovrano».
Ma c’è populismo e populismo. Le sortite di Nanni Moretti, “con questa sinistra non vinceremo mai”, i movimenti dei girotondini e dei difensori della Costituzione, con l’ex presidente della repubblica Scalfaro e l’ex presidente della corte costituzionale Zagrebelsky, non hanno avuto respiro elettorale. Il che significa che il populismo non è un distintivo da applicarsi sulla giacca, ma soprattutto capacità di interpretare il sentimento popolare e di gestirne i conati. Certi movimenti pseudopopulisti della sinistra, alla Nanni Moretti o alla Flores d’Arcais, sono stati solo isteriche reazioni contro la frustrante condizione di perdenti di fronte ad un Berlusconi e ad una destra più felici interpreti della pancia popolare.
Il grillismo, invece, ha due facce, l’una senza l’altra inutile. Per un verso Grillo ha percorso l’iter popolare della piazza off line, con autentici spettacoli nel corso dei quali si è esibito in autentiche requisitorie contro la politica, fra insulti e satira, per un altro, col suo sodale Casalegno, ha invaso la piazza on line. Le due piazze hanno avuto un successo senza precedenti col Movimento più suffragato nelle elezioni politiche del 2013. Il Movimento ha proposto un populismo destruens, in linea con la furia popolare jacqueristica. Grillo ha saccheggiato, incendiato e distrutto – ovvio, in senso metaforico! – i palazzi della politica, ha impiccato i loro signori e i loro maggiordomi.  Tarchi lo ritiene «la quintessenza della mentalità populista».
Altro è il caso di Renzi, che Tarchi lascia per il momento sulla soglia dalla sua analisi, ma che già connota come leader populista. Alla guida del Pd, partito di centrosinistra, pensa e si muove come Berlusconi, avendo il vantaggio di non avere veri oppositori contro, gli unici essendo gli inconcludenti e indecisi oppositori interni. Ma Renzi è un neodemocristiano a tutti gli effetti, che va bene alle gerarchie ecclesiastiche. E’ sufficiente pensare alla loro reazione stizzita all’assoluzione di Berlusconi dalle accuse di prostituzione minorile e concussione. Ormai con Renzi la chiesa ha l’alius papa e ricomposto, con Francesco, la giusta diarchia laico-clericale. Renzi ha proposto un populismo construens, e per questo è piaciuto all’establishment, da Napolitano a Marchionne.  

Tarchi, che analizza ma non valuta e usa un linguaggio asettico, come deve uno scienziato, si chiede in chiusura «quale, fra i vari tipi di populismo che oggi si contendono il proscenio della politica italiana, riuscirà ad imprimerle più in profondità il suo marchio nel prossimo futuro» e avanza l’ipotesi del populismo istituzionale di Renzi, il quale «avrà certamente un bell’avvenire davanti a sé»; ma riserva a Grillo e a Salvini  un ruolo importante nella partita politica dei prossimi anni. Probabilmente – ma la conclusione questa volta è di chi scrive – il populismo con tutte le sue convulsioni – Tarchi direbbe declinazioni – durerà fino a quando la politica non avrà trovato l’assetto perso con Tangentopoli. 

domenica 15 marzo 2015

Monumento a Vanini: dietro la maschera


Taurisano avrà entro l’anno il suo monumento a Giulio Cesare Vanini, il filosofo condannato per ateismo dal Parlamento di Tolosa e dato al rogo a Tolosa il 9 febbraio 1619. Quest’anno ricorre il 430° anniversario della sua nascita, avvenuta tra gennaio e febbraio del 1585 a Taurisano.
E’ una maschera in bronzo, alta due metri, che riprende vagamente il volto di Vanini, quale è noto da due secoli a questa parte. Sarà collocata tra le due piazze centrali di Taurisano, fra loro contigue, Piazza Castello e Piazza Palazzo Vecchio; di fronte all’ingresso laterale della Chiesa Madre, intitolata alla Trasfigurazione. Insomma, tra maschera laico/demoniaca e trasfigurazione misterico/divina, sembra organizzato tutto da un’occulta regia.
L’autore è l’arch. Paolo Prevedini, milanese, che vinse due anni fa circa il relativo concorso di idee. La commissione giudicatrice gli assegnò il primo premio perché trovò il suo progetto interessante ed esteticamente allusivo dello stile del grande scultore polacco Igor Mitoraj.
Come sempre accade in circostanze del genere, sotto qualsiasi cielo, si sono accese le polemiche, per la verità non in maniera aperta e chiara. Chi potrebbe obiettare con motivazioni argomentabili preferisce seminare dubbi, sospetti e maldicenze, che altri, meno attrezzati culturalmente, fanno proprie nei modi e nei termini di chi sa solo gridare, insultare e minacciare. Si dice che il paese avrebbe bisogno d’altro che d’un monumento, che si sarebbe potuto affidare l’incarico ad un paesano piuttosto che ad un forestiero, che il monumento è in sé inquietante proprio nel suo essere una maschera, che l’ubicazione è infelice rivolta verso la chiesa e via elencando critiche e proposte alternative, come quella che forse sarebbe stato più opportuno fare un busto del Vanini più immediatamente riconoscibile o addirittura di fare, al suo posto, un monumento al duca Alessandro Lopez y Royo. Insomma, nihil novi. E’ necessaria, perciò, qualche puntualizzazione.
La prima è che all’esito di cui si discute si è giunti attraverso un concorso pubblico. L’Amministrazione comunale non poteva conferire a trattativa privata l’incarico per un’opera del genere, che, se è vero che costa appena 50.000,00 Euro è anche vero che per la trattativa privata non ricorrevano motivi d’urgenza, come vuole il regolamento comunale.
L’Amministrazione comunale ha osservato le tappe in maniera trasparente, coinvolgendo l’opinione pubblica, esponendo i vari progetti al pubblico per un tempo necessario a che tutti li vedessero, li osservassero, li conoscessero e li valutassero. Se ci fossero state delle contrarietà significative – e non ci sono state – l’Amministrazione, non essendo vincolata alla sua realizzazione, avrebbe potuto regolarsi diversamente da come si è poi regolata dando inizio all’esecuzione del progetto.
La maschera – ormai così è chiamato il monumento – ha una sua spiegazione ed una sua importanza.
La spiegazione. Si consideri che il volto di Vanini non è documentato, ma da due secoli è universalmente noto come quello realizzato dal Morghen (incisione per la “Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli”, Napoli, 1817), che è più o meno quello che si vede nella rivista “Mosaïque du Midi” (1837-38), e ripetuto dal Bortone (Lecce, busto in marmo, 1868), dal Maccagnani (Lecce, busto in marmo, 1888), dal Ferrari (Roma, medaglione alla base del monumento a Giordano Bruno, 1889), dal Minonni (Taurisano, busto in cemento, 1969). Una settecentesca incisione del Delsenbach del 1724, che si vede nella rivista “Neue Bibliothec”, propone un volto poco difforme dal più noto, non ha barba e capelli fluenti. Considerando tali circostanze, il prof. Giovanni Papuli, ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Lecce e studioso vaniniano, disse nel corso di una riunione a Taurisano per l’ipotesi del monumento che forse sarebbe stato più opportuno realizzarlo alla filosofia di Vanini piuttosto che al di lui volto. La filosofia del Vanini, pur non essendo univoca nelle varie ipotesi interpretative, trova la sua espressione condivisa nel gioco retorico della simulazione-dissimulazione, messa in essere dal filosofo allo scopo di difendersi dalla censura delle autorità, occhiute e pronte a condannare. 
L’importanza. Un uomo e un intellettuale come Vanini, che percorre mezza Europa e finisce tragicamente la sua vita a Tolosa, diventato poi un caso culturale d’interesse mondiale, con un’infinità di studiosi sparsi in tutto il mondo, può essere considerato alla stregua di un piccolo personaggio paesano, come qualcuno vorrebbe ridurlo? Una sorta di poeta dialettale, dalle tematiche localistiche? No davvero. Sicché se oggi con Vanini e per Vanini si continua a parlare nel mondo anche di Taurisano, perché Taurisano deve sottrarsi a questa sua internazionalizzazione? Ben venga allora il milanese Prevedini, ben venga allora, indirettamente, il polacco Mitoraj, ben vengano tutte le connessioni possibili e immaginabili. Vanini è un personaggio del mondo, rappresenta motivazioni e aneliti universali. Taurisano sia perciò orgogliosa delle opportunità che le provengono dal suo cittadino più illustre, discusso, odiato e amato.

L’ubicazione al centro del paese è importante. E’ di fronte alla chiesa? E sia! Si consideri che non c’è luogo nei nostri paesi dove non ci siano presenze sacre, chiese o statue. A questo punto non dovremmo innalzare monumenti a nessuno che non fossero omologabili al cattolicesimo. Un Manzoni probabilmente sì, un Leopardi no. La coesistenza di sacro e profano è una risorsa culturale, un modello, che laddove è possibile realizzare porta all’educazione, alla tolleranza e alla libertà.                 

domenica 8 marzo 2015

8 marzo: Evviva la mamma!


Festeggio anch’io l’8 marzo, festa delle donne, festa laica. Le feste cristiane sono sempre di meno rispetto alle laiche, che s’impongono a volte inducendo a riflessioni importanti (shoah, foibe, fame nel mondo, ambiente, bambini), a volte ad abbandoni frivoli (donne, mamma, papà, S. Valentino). E festeggio in un solo modo, dicendo: evviva la mamma! Con ciò ribadendo che la suprema valorizzazione della donna è il suo essere madre. Le donne, che tali non sono per propria volontà, non meritano di essere festeggiate in alcun modo, poiché esse hanno tradito la loro natura, la loro funzione, quella di dare all’umanità la vita, la continuità, la perpetuità della specie; si sono private della possibilità di spingere il proprio amore fino ai confini dell’infinito. La mamma è portatrice di beni e di valori in nessun modo surrogabili, è testimonianza attiva del miracolo della vita, dell’amore immotivato, del legame inscindibile anche dopo che quel legame carnale è materialmente scisso, biologicamente remoto.  
Mi rendo conto che la mia è una posizione tradizionalista, conservatrice, ideologicamente e saldamente avvinta ad ancestrali legami di natura, di storia e di cultura. Una posizione coltivata e innervata con letture indimenticabili, formative, rinnovabili. Vere dolci cicatrici impresse indelebilmente nell’anima.
I miei ricordi vanno ai miei esami di ammissione alla scuola media, quando per passare dalle elementari alle medie era necessario compiere un difficile guado. Avevo all’epoca nove anni, avendo saltato la quarta e la quinta elementari, per la fretta che mio padre aveva nel vedermi avviato a conquiste culturali e professionali a lui inibite da condizioni famigliari. Qualche psichiatra potrebbe dire che sono rimasto traumatizzato. Evviva un simile trauma! Lo rivendico come il mio massimo bene.
Nel programma di italiano due poesie si distinguevano su tutte. Erano A mia madre di Edmondo De Amicis e Affetti di una madre di Giuseppe Giusti. Testi che facevano parte del canone letterario formativo dei bambini del secondo ciclo delle elementari. Con queste due bellissime e mirabili poesie  ogni bambino, negli anni della sua migliore formazione, aggiungeva bellezza alla forza del vincolo madre-figlio che la natura aveva dato fin dal suo concepimento.
Questi due poeti, tra i più cari all’Italia dell’Otto-Novecento, hanno fatto crescere i bambini nel culto della propria mamma più di quanto non facessero altri motivi ben più razionali e motivati.
Non sempre il tempo la beltà cancella apriva il De Amicis. Ecco, la mamma non ha età poiché il tempo che può tutto su tutto nulla può sulla bellezza della propria mamma. E più la guardo e più mi sembra bella…La cifra più forte dell’amore è proprio nel progressivo crescente attaccamento a lei, al punto da invocare la potenza dell’arte: ah, se fossi pittore, / farei tutta la vita il suo ritratto! A quale altra figura della molteplice declinazione femminile si può pensare appartenga una così miracolosa potente attrazione? Fino al sacrificio personale: Vorrei poter cangiar vita con vita, / darle tutto il vigor degli anni miei. / Vorrei veder me vecchio e lei…/ dal sacrificio mio ringiovanita!
Giusti con Affetti di una madre integra e rovescia i termini di questo amore. Nel Giusti è la mamma che sente e parla, Presso alla culla, in dolce atto d’amore, / che intendere non può chi non è madre…Il poeta ribadisce l’unicità, l’esclusività del rapporto madre-figlio col rifacimento del verso dantesco-aristotelico “che intender non la può chi non la prova”. L’affetto della madre è tutto interiore: arde, si turba e rasserena in questi / pensieri della mente inebrïata. Anche da parte della madre l’amore e l’attaccamento al figlio sono progressivi: beata e pura / si fa l’anima mia di cura in cura; / in ogni pena un nuovo affetto imparo. C’è nella madre la piena totale consapevolezza della sua essenza e della sua missione: Così piena e compita / avrò l’opra che vuol da me natura. E nel suo essere madre si concretizza alla massima altezza il suo esser donna: Nessun mai t’amerà dell’amor mio. Un legame che nessuna donna capisce fino a quando non è madre, che ogni donna-moglie invidia alla donna-mamma.  Fino a rivendicare l’essere il porto insostituibile del figlio: Nel sen che mai non cangia avrai riposo, tanto incompreso e osteggiato dalla donna-moglie.  
Si può dire che si tratta di espressioni maschili. E sia! Non erano De Amicis e Giusti dei maschi, due figli di mamma? Io li cito perché appartengono alla mia formazione, al mio essere stato bambino quando li ho appresi, imparati a memoria, recitati e commentati trepidando in sede d’esame. Allora, e mai più! Perché negli studi successivi e dopo, nell’esercizio della mia professione di docente di italiano nei licei e negli istituti superiori, De Amicis e Giusti sono scomparsi. Altri autori e altri testi rispondevano al processo formativo dei giovani. Ma oggi nessuno più all’età di nove-dieci anni legge e impara a memoria la “mamma” di questi due poeti. Sarà anche per questo che i bambini crescono con meno traumi immediati ma con gravissime carenze mediate che si manifestano poi nell’aridità dei sentimenti, nel rifugio delle droghe, nel deturpare il proprio aspetto e la propria pelle con piercing e tatuaggi, espressioni di mancanza di quelle profonde incisioni nell’anima che lasciavano i percorsi formativi di una volta. Sugli affetti veri non s’attaccano serpenti e draghi.

Non parlo per acrimonia, rivendico il diritto di essere me stesso fino in fondo, e di essere me stesso nell’inseparabile rapporto con la donna delle donne, la mamma, passando tra le attuali futilità, senza bruciarmi alla fiamma delle tante donne, che, pur potendo essere grandi, non possono mai raggiungere l’altezza dell’essere madri.   

domenica 1 marzo 2015

La destra italiana in un vicolo cieco


La manifestazione dei “ricostruttori” organizzata da Raffaele Fitto a Roma, domenica 22 febbraio, ha ribadito un punto, che è cruciale: in Forza Italia stiamo e in Forza Italia vogliamo restare, nello stile più classico: hic sumus et hic manebimus optime.
Ma in Italia – si sa – il linguaggio della politica è sempre biforcuto, si dice una cosa ma se ne pensa un’altra. Un linguaggio che non piaceva agli ingenui pellerossa d’America, come sanno tutti gli appassionati di fumetti degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, che scorrazzavano nelle praterie con Tex Willer e Kit Carson. Questo linguaggio – a dire il vero – non piace nemmeno a chi ingenuo non è e dalla politica s’aspetta ogni tanto qualche indicazione, se non chiara, almeno chiarosimile.
Che cosa possono pensare Fitto e “ricostruttori” al di là di quello che dicono? Per esempio, che Berlusconi prima o poi compia il gesto sbagliato di espellerne qualcuno e di apparire quello che è sempre stato ed è: uno che non tollera che nel suo partito qualcuno si opponga alla sua politica personale. Ci sarebbe in quel caso una frattura, seguita da codazzi legali, poiché – a quanto pare – nello statuto di Forza Italia non è prevista la sanzione estrema dell’espulsione. A come stanno le cose, con le continue minacce, più o meno vellutate e più o meno raspose, da una parte e dall’altra, è difficile che si possa ricomporre il vaso. I cocci sono stati calpestati e i pezzi non combaciano più.
Berlusconi da qualche tempo – diciamo dopo la rottura del “Patto del Nazareno” – è tornato sulla griglia giudiziaria per iniziativa della Procura di Milano. Di qui la sua irritazione maggiore nei confronti di Fitto. Si rende conto di aver bisogno di un partito che marci a ranghi serrati, compatto ai suoi ordini e interessi, e invece deve vedersela con rogne interne crescenti. I giudici lo attaccano per la faccenda di Ruby, che non è affatto chiusa, come sembrava dopo l’assoluzione dall’aver fatto sesso con una indatabile minorenne. Resta in piedi Ruby ter con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione, per quella bella maison du plaisir delle cosiddette olgettine.
La musica – come si può constatare – non cambia. Un partito, un governo, un paese, milioni di elettori dipendono dalle vicende giudiziarie di un uomo solo. A questo punto – ma già da un po’ di tempo, a dire la verità – non conta più se Berlusconi ha ragione o torto, conta che per simili accuse si tiene in quarantena un universo politico di cittadini e di elettori di centrodestra.
Dipendere dall’ex Cavaliere per questioni giudiziarie è vergognoso; aberrante prima ancora di essere assurdo se si considera che le accuse riguardano attività di vizio e di degenerazione, evitabilissime con un minimo di senso della decenza e del rispetto per se stesso e per il ruolo pubblico. Quand’anche Berlusconi avesse ragione e, a quanto finora è emerso, non ce l’ha, come si può concepire che il destino politico di tanti cittadini, di un paese intero, possa dipendere dalle sue vicende giudiziarie? Più si riflette in Italia sulle nostre cose politiche e più ci si rende conto dell’abisso che c’è tra noi e gli altri paesi europei. Non so in quale altro paese del mondo un uomo politico così screditato non si sarebbe dimesso da tutto, perfino dallo shopping e dal passeggio pubblico.
Ora Fitto, il nuovo uomo di Maglie – il vecchio era Moro – insiste, tiene duro. La sua partita è importante per i suoi portati politici ed etici. Quando chiede l’azzeramento dei vertici di Forza Italia, che vuol dire messa da parte dei responsabili della politica disastrosa del “Patto del Nazareno”, in realtà chiede la messa da parte di Berlusconi, perché è di tutta evidenza che quei signori responsabili hanno semplicemente agito in suo nome e per suo conto. Ecco perché la partita non può finire con un pareggio. Toti, Romano e gli altri fanno finta di non capire quando insistono nel dirsi disposti a dar ragione a Fitto sul “Patto del Nazareno” e ad offrire a lui e ai suoi posti importanti nel partito e nelle liste. Proposte oscene, perché se pure fatte con mezzi diversi, il criterio che le sottende è quello del baratto.
La questione è assai più radicale, deve essere più radicale. Si tratta di voltare pagina per cercare di ricostruire un nuovo centrodestra, che non dipenda più da un uomo, dai suoi affari economici, dalle sue vicende giudiziarie. E che tanti in Forza Italia non lo capiscano o che facciano finta di non capirlo è di una gravità estrema, poiché rischiano di consegnare al centrosinistra, variamente articolato, il paese per chissà quanti anni altri ancora.
Si dice che i fedelissimi berlusconiani, restando attaccati a lui, in buona sostanza pensano a salvare se stessi, come ostriche che restano attaccate allo scoglio, secondo il mito del Verga. Ma, pur mettendo da parte ogni riserva morale, il consegnare la propria coscienza politica alle malefatte altrui nella speranza di durare ancora qualche anno o mese sulla scena politica è davvero cosa inutile per sé e dannosa per gli altri.
L’elettorato di centrodestra è oggi frantumato. Raccogliere i frantumi in politica è più facile che raccogliere i soggetti interi, come il vento che trasporta le foglie secche ma non i tronchi. La Lega di Salvini sta prosciugando tutto il prosciugabile, come ha evidenziato la manifestazione romana di sabato 28 febbraio (Casa Pound, Sovranità, Fratelli d’Italia-An), ma non indica una prospettiva convincente. Solo un soggetto politico pensante e non urlante potrebbe ridare speranza a quest’elettorato, ricomponendo un partito rinnovato. Di questo partito Fi potrebbe tornare ad essere motore e guida solo se si liberasse dal peso di Berlusconi.    

Possibile che in Forza Italia non lo abbiano capito tutti? Possibile che si insista ancora su un uomo che a questo punto, meriti e demeriti a parte, sarebbe salutare per tutti che si mettesse da parte? Domande retoriche. La realtà dice purtroppo che le cose stanno così.