domenica 28 settembre 2014

L'abolizione dell'articolo 18 è un inutile regresso


I diciottisti una volta erano nel gergo universitario quegli studenti che si accontentavano del 18, il voto minimo per superare un esame, pur di passare da Italiano uno a Italiano due; da Analisi uno ad Analisi due e giungere quanto prima alla laurea. Poi sapeva Dio a chi dare i guai! In verità i diciottisti erano pochi; la gran parte degli studenti consideravano il 18 un’onta e lo rifiutavano. Ma quelli di stomaco tosto c’erano, c’erano!
Oggi i diciottisti sono i difensori dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300 del 20 maggio 1970), quello che obbliga il datore di lavoro al reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa.
Questa norma appare anche ad un orbo mentale essere una sacrosanta e irrinunciabile conquista a tutela della libertà e della dignità del lavoratore. Libertà, perché il lavoratore deve essere libero di votare partito comunista anche se il suo datore di lavoro è fascista e direttamente interessato alle votazioni; e viceversa. Ovvio, ho estremizzato per rendere più chiara l’importanza della norma. La dignità, perché il lavoratore, licenziato senza giusta causa, riceve un’offesa universalmente inaccettabile.
Ma, poiché non si vive nell’Iperuranio ipotizzato da Platone, in tempi di sindacatocrazia e sinistrocrazia – e ci sono stati, oh se ci sono stati! – un giudice poteva far passare senza giusta causa un licenziamento più che legittimo e supermotivato. Non stiamo qui ad elencare tutte le possibili situazioni. I tempi e i luoghi – si sa – dettano legge oltre la legge. Sappiamo che i datori di lavoro prepotenti ci sono sempre stati e ci sono; ma sappiamo anche che i giudici di sinistra, cosiddetti democratici, non ci sono sempre stati, ma sono giunti a partire dalla fine degli anni Sessanta, in così forte numero da configurare una sorta di invasione. Sicché in forza dell’art. 18 un imprenditore non poteva praticamente licenziare mai, neppure se l’azienda era in crisi e occorreva ridurre il numero dei dipendenti, rischio fallimento. Neppure se un lavoratore era stato colto nel mentre boicottava l’azienda. Questo spiega perché gli imprenditori e la parte sociale e politica che li rappresenta se la siano presa tanto con l’art. 18. A maggior ragione quest’articolo è stato colpevolizzato da cinque anni in qua per la nota crisi economica e finanziaria che si è abbattuta sull’Italia.
Già nel 2012, col governo Monti e con la riforma del lavoro del Ministro Fornero, l’art. 18 è stato modificato in maniera non banale perché al posto del reintegro del lavoratore, ove licenziato senza giusta causa, sono state previste delle opzioni risarcitorie, a seconda dei casi. Insomma, invece del reintegro, soldi per un certo numero di mensilità, fino a ventiquattro. L’indennizzo al posto del reintegro già lo prevedeva il punto XVII della Carta del Lavoro del 1927 previa conciliazione tra le parti. Figurarsi che passo…avanti!
Pare – non se ne discuterebbe tanto altrimenti! – che la riforma Fornero non abbia sortito gli effetti sperati e che l’art. 18, come un killer imprendibile, una sorta di primula rossa, continui a mietere vittime nel mondo dell’imprenditoria. Così il governo Renzi, che è dipendente dal centrodestra come un rimorchio dalla motrice, col cosiddetto Jobs act – non si capisce più un cazzo, in quest’Italia che ha rinunciato perfino alla sua lingua! – vuole addirittura abolirlo. Basta con gli abusi da una parte e dall’altra: gli imprenditori più liberi di licenziare; i giudici non più liberi di reintegrare. Contro l’ipotesi abolizione si sono scagliati i difensori, una cospicua parte, diciamo la sinistra, del Partito democratico; e ovviamente i sindacati, specialmente la Cgil, che oggi ha in Landini, segretario della Fiom, più che nella Camusso, segretario generale, il portabandiera più agguerrito.
In Italia, come sempre, è sorta la nuova contrapposizione: diciottisti-antidiciottisti. I difensori del governo Renzi, che a volte diventano più renziani di lui, per delegittimare le ragioni dell’opposizione interna, lanciano l’accusa di strumentalizzazione: voi siete contrari non all’abolizione dell’art. 18 ma al rinnovamento dell’Italia e sperate di giungere ad una resa dei conti con chi invece è più che intenzionato a cambiarla quest’Italia. Simile modo di confrontarsi è incivile oltre che impolitico; ma tant’è, ormai in Italia è cavalleria rusticana. Se n’è accorto perfino Ferruccio de’ Bortoli, direttore del “Corriere della Sera” (editoriale del 24 settembre).
Vero è che nel Pd nessuno spera in una conta, che sortirebbe solo l’effetto di rendere meno vivibile una convivenza che resta innaturale – ex democristiani ed ex comunisti hanno in comune solo la particella ex – e dunque le ragioni della sinistra dem appaiono oneste.
L’art. 18 è qualcosa che va ben oltre l’ideologia, pur scomodata da chi lo vuole abolire, è una conquista irrinunciabile. Che poi, sul piano dell’applicazione, possa avere delle storture o delle forzature, non giustifica la sua abolizione. Quando mai si abolisce una legge per l’incapacità di applicarla correttamente?

Invece di rispondere, menando il can per l’aia, chi pensa di risolvere il problema della crisi del lavoro, dell’occupazione e della crescita abolendo una norma di civiltà e minacciando gli avversari, farebbe bene a crearlo il lavoro. Ove, infatti, di lavoro ce ne fosse a sufficienza chi starebbe a battersi per una norma che sul piano pratico non avrebbe più importanza? Il problema vero è che questo governo, come quelli precedenti, è incapace di fare una politica di diminuzione delle tasse, di accesso al credito, di investimenti, di abbattimento delle pastoie burocratiche, di accorciamento dei contenziosi giudiziari, di tempestivo pagamento dei debiti da parte delle pubbliche amministrazioni. Incapace di creare lavoro, il governo se la prende con una norma, che, a questo punto, c’è o non c’è, conta poco. Se scarseggia la materia del contendere, ossia il lavoro, abolire l’art. 18, è uno sfregio all’idea stessa di progresso, è un precipitare all’indietro di quasi un secolo. E per che cosa? Per nulla! 

domenica 21 settembre 2014

Napolitano e l'impotenza della politica


Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha fatto bene ad incazzarsi di brutto per l’incapacità del Parlamento di eleggere due giudici della Corte Costituzionale e due membri del Consiglio Superiore della Magistratura. Di fronte all’indecoroso spettacolo offerto da un parlamento riottoso è doveroso che un presidente della repubblica si adiri. Ma occorre anche saper inserire il fenomeno nel più vasto quadro della situazione italiana quale si è determinata in questi ultimi due-tre anni. Giusto per capire!
Il Parlamento che fuma nero per tredici volte è lo stesso Parlamento che non riuscì nell’aprile del 2013, poco meno di un anno e mezzo fa, ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, offrendo uno spettacolo altrettanto indecoroso con le fumate nere per Marini e per Prodi. Saremmo tentati di dire, senza per questo mancare di rispetto a Napolitano, a cui vogliamo sinceramente bene, che la sua elezione formale fu una “non elezione” politica. Un altro Parlamento avrebbe votato senza problemi il nuovo Presidente e Napolitano oggi starebbe mettendo a punto memorie e riflessioni.
La questione, perciò, come sempre, è politica. Cosa c’è dietro la riottosità del Parlamento, o per lo meno di chi, nel segreto del voto, impedisce l’elezione dei membri mancanti a due delle più importanti istituzioni nazionali? A noi sembra ci sia la volontà di rivendicare un diritto, che è una funzione imprescindibile in una democrazia, quella di legiferare nel pieno delle competenze riconosciute dalla Costituzione. Votare le persone indicate dai leader politici su loro diktat, in ossequio ad un patto, quello del Nazareno, che nessuno conosce, tranne i due diretti interessati, è l’occasione propizia, forse irripetibile, per dire no, basta, vogliamo contare per quello che la superiore legge dello Stato ci riconosce; non possiamo essere parlamentari usa e getta. I veti, neppure tanto in filigrana, non sono a Violante e a Bruno, ma a Renzi e a Berlusconi.
Posta così la questione, appare di tutta evidenza che ormai a livello di partiti c’è una sorta di ammutinamento nei confronti dei loro capi, per ora contrastato dai loro fedelissimi. Un ammutinamento vile, subdolo quanto si vuole, ma “à la guerre comme à la guerre”. Semmai c’è da chiedersi: perché si è giunti a tanto, mentre il Paese boccheggia ed è esposto al ludibrio internazionale, con le oche del Campidoglio che starnazzano e più che richiamare l’attenzione di chi deve difenderlo richiamano l’attenzione di chi lo deride oggi, e forse domani lo minaccia?
Matteo Renzi dice spesso che lui in certe cose mette la faccia. Non so cos’altro potrebbe mettere, se per faccia intende la dignità della persona e del ruolo pubblico che ha. Ma gli altri non hanno faccia? Non hanno dignità? Per lui, evidentemente, gli altri non contano niente. Incapaci, inconcludenti, gufi, rosiconi, parlano per avere visibilità, esistono solo per fare da contrappunto al suo mercuriale agitarsi e muoversi sulla scena.
Renzi ha bisogno non di collaboratori e di amici alleati, ma di avversari, acidi preferibilmente; e quando non ce ne sono alle viste lui se li inventa. Quale politico dice ai partner che se vogliono la guerra avranno la guerra? Un politico che si rispetti cerca di evitarla la guerra, di evitare i contrasti; cerca alleanze, consensi. Lui i consensi li cerca in un elettorato che finora si è dimostrato riconoscente nei suoi confronti per l’elargizione degli ottanta euro in saccoccia e perché non vede altro cui aggrapparsi.
Il suo muoversi sulla scena ricorda certe opere dello scrittore latino Plauto e il suo metateatro, quando il protagonista ammicca agli spettatori con cenni di intesa, come a dire: mo’ vi mostro io cosa combino a questi fessacchiotti. Renzi pensa ai fessacchiotti della scena e ai fessacchiotti della platea. Gli uni – secondo lui – più fessacchiotti degli altri.
Non so se incominci a rendersi conto che la festa sta andando verso l’epilogo. Sta di fatto che nel Pd se ne sono accorti e gli stanno prendendo le misure. Non c’è ancora una presa di posizione definita e compatta. Si procede occasionalmente e in ordine sparso. Oggi D’Alema, qua Bersani, là la Bindi e via di seguito. Ma, pur nella preoccupazione di non commettere passi falsi, che potrebbero essere politicamente letali, ognuno sta ipotizzando scenari diversi da quelli attuali. Di recente Matteo Orfini, un habitué del cambio di casacca, volto da cospiratore ottocentesco – l’ho sentito con le mie orecchie a Taurisano qualche giorno fa in un pubblico incontro – ha detto che se il governo fallisce nell’impresa delle riforme la colpa è del Pd, perché è il Pd che si è fatto l’intero carico dell’impresa. Un’esagerazione, perché tutti sanno che il governo va avanti con l’alleato interno del Ncd e con quello esterno, per le riforme istituzionali, di Fi. Ma, come tutte le esagerazioni, anche quella di Orfini nasconde qualcosa, nasconde la testa di Renzi. Perché se il governo fallisce, è scontato che tutti cercano la sua faccia, quella che lui ci mette ad ogni piè sospinto.
In casa di Fi le cose stanno anche peggio. Credo che ormai tutti, anche i berlusconiani più fedeli si stiano rendendo conto di essersi messi su una strada che non ha sbocchi. Il disobbedirgli in maniera così insistita, a proposito dell’elezione dei membri mancanti della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, è la prova provata che ormai l’ex Cavaliere non dispone più neppure della forza politica del centrodestra rimasto dopo l’uscita di Alfano e amici. Fitto, che continua a dire che lui non lascerà il partito, dimostra anche con il suo dissenso di non riconoscere più  il suo leader storico.

Per tornare a Bomba. Napolitano si arrabbia, ma la situazione della quale in un certo senso è padre e figlio, è quella che è. Una situazione che somiglia ad una rete attraverso la quale i pesci entrano ed escono e c’è il rischio che tirata su lasci a mani vuote i pescatori, che siamo noi, popolo italiano, alla fin fine.   

sabato 20 settembre 2014

Francesco Piccolo ovvero il desiderio di essere come tutti


Si può dire così: la leggerezza dell’essere fa bene alla salute del singolo; fa male alla società. Ha scritto recentemente Luca Goldoni in un elzeviro: «Preferisco chi fa un dramma di tutto a chi non fa mai un dramma di niente» (Corsera del 18 settembre).
Dello stesso avviso non è Francesco Piccolo, che col suo ultimo romanzo ha scoperto la leggerezza dell’essere e ha sposato la filosofia del “Chesaramai”. Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013) con cui ha vinto l’ultima edizione del “Premio Strega”, la LXVIII, quella appunto del 2014, è un libro plurale. Può essere letto in vari modi; e se tanto vale per ogni libro – il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha recentemente affermato che Le città invisibili di Italo Calvino è uno straordinario saggio di sociologia (“L’eco della storia”, Rai Storia, 16 agosto 2014) – a maggior ragione vale per questo.
E’ un romanzo di formazione, un Bildungsroman, è un saggio di politica, è un saggio di antropologia; a corollario: un contributo celebrativo di Berlinguer nel trentesimo della sua morte, l’ennesimo attacco di un antiberlusconista militante nel momento in cui l’ex Cavaliere è con un piede dentro e l’altro fuori della galera, pardon dei servizi sociali.
Romanzo di formazione, dove ricorrono le due fondamentali componenti del genere: l’autobiografismo e la riflessione introspettiva, nella crescita spirituale e civile del protagonista. Narrazione autodiegetica. L’io narrante attraversa a partire dai primi anni Settanta il periodo della fanciullezza, dell’adolescenza, della prima giovinezza, della giovinezza e della maturità, passando attraverso eventi famigliari, scolastici, politici, sportivi, naturali, attraverso libri e film, da tutti prendendo qualcosa che va ad alimentare il suo processo formativo, come uomo, come cittadino, come scrittore. Sotto questo aspetto, che è il più  per così dire narrativo e che giustifica il premio, il romanzo accusa qualche stanchezza verso la fine, dove diventa ripetitivo e nel tentativo di trarre le somme, quasi ce ne fosse bisogno, l'autore tradisce una non ben trattenuta tentazione di saggista. Era proprio necessario dimostrare? Il romanzo cede al teorema. La narrazione alla geometria. Filo conduttore il mito di Diana e Atteone sbranato dai cani rappresentato nella fontana della Reggia di Caserta, che viene assunto come chiave di lettura esemplare, insieme con altri desunti da libri e film. Lo stesso da dove parte il suo astio per Berlusconi, che in visita con capi di governo e di stato stranieri si era lasciato sfuggire una delle sue solite battute erotico-allusive, chiaramente inopportuna.
Saggio di politica. Nel bel mezzo di un confronto tra i più duri ed esclusivi del dibattito politico nazionale, berlusconiani-antiberlusconiani, il protagonista, che è di buona famiglia della media borghesia, figlio di un missino che vota An, è un comunista e si schiera contro Berlusconi, associato all’impurità. Il suo idolo, che gli fa tanto detestare Craxi e perfino Bertinotti, pur votato, è Berlinguer, associato alla purità. Trova intollerabile l’accoglienza riservata dai socialisti a Berlinguer qualche mese prima che questi morisse. La posizione di Piccolo è quella mediana di minoranza comunista e minoranza democristiana, berlingueriani e morotei, convinti della bontà e della fattibilità del compromesso storico e della realizzazione in Italia di quelle riforme di cui il Paese aveva bisogno fino al rapimento di Moro e alla sua tragica morte per mano delle Brigate Rosse. Una posizione banale se pensiamo che è stata quella di circa l’ottanta per cento di intellettuali, giornalisti, scrittori, registi, attori e via elencando, quella che una volta si chiamava l’intellighenzia, nonostante il Paese fosse diviso in buona sostanza a metà, con addirittura una lieve tendenza a destra, a Berlusconi. Ma, del resto Piccolo vuole «essere come tutti». Tutti, per Piccolo, sono i buoni, i puri, quelli di sinistra, colti e votati ad esprimere il meglio del Paese. Una conferma che gli intellettuali italiani non sanno rappresentare il popolo e che il popolo italiano non segue i suoi intellettuali. Dall’altra parte, infatti, all’incirca l’altra metà, c’è l’Italia berlusconiana, che conta pure intellettuali e artisti, ma cattivi maestri di pragmatismo, se non proprio di cinismo.
Saggio di antropologia. L’approdo dell’eroe piccoliano, dopo la morte tragica di Moro (1978) e quella improvvisa di Berlinguer (1984), è il cittadino grigio, un po’ Villaggio e un po’ Kundera, personaggio un po’ veltroniano e un po’ deamicisiano, che trova nella compagna della quale si innamora e con la quale si sposa la stella polare di una visione della vita di basso profilo, ancor più banale di quella del politico. La donna si chiama Chesaramai, che la dice tutta già nel nome. Perché indignarsi, arrabbiarsi se Berlusconi vince le elezioni? Ma sì, che sarà mai! Una filosofia di vita che conduce il nostro eroe a ripensare criticamente i momenti più significativi trascorsi e alcune azioni compiute. Passati al vaglio di Chesaramai producono se non pentimenti, qualche piccolo senso di colpa; per esempio, per aver mancato di rispetto a delle persone tutto sommato oneste, quando finge di essere di An per andare a fare un reportage ad una manifestazione di questo partito; a partire da suo padre, missino, che però raccoglie e conserva di nascosto tutti gli articoli di giornale del figlio comunista.

L’uomo che viene fuori da questo libro plurimo è il cittadino carrierista, che si mimetizza nel colore che ben si associa a tutti, come iperbolicamente si indica la parte vincente. Ha fiuto quando segue il successo e le opportunità fino a diventare giornalista e scrittore apprezzato e richiesto. Ma ha fiuto soprattutto quando con un libro, che può essere tante cose insieme, si assicura il “Premio Strega”. Nell’anno in cui si fa l’apoteosi di Berlinguer, la cui morte dispiacque a tutti, ma la cui politica entrò in decrescita già nelle elezioni del 1979, ossia dall’anno successivo alla morte di Moro, il romanzo di Piccolo è la celebrazione più significativa del veltronismo, ancora di più di quanto non sia riuscito a fare lo stesso Veltroni, col suo libro Quando c’era Berlinguer (Rizzoli 2014). In questo libro almeno non si risparmiano voci discordi a Berlinguer.   

domenica 14 settembre 2014

Napoli: società aperta in una città liquida


In Italia accadono quotidianamente fatti che lasciano a dir poco allibiti. A Napoli, alle tre di notte, tre ragazzi in scooter non si fermano ad un posto di blocco dei Carabinieri. Inizia l’inseguimento. Inizia cioè la cosa più normale che possa accadere in casi del genere. L’inseguimento si conclude tragicamente: uno dei ragazzi, Davide Bifolco di sedici anni, è colpito da un proiettile sparato da un carabiniere. Un altro ragazzo cade e viene catturato, l’altro riesce a fuggire. Secondo i Carabinieri fra i tre c’era un latitante, a cui da tempo davano la caccia, e il colpo che ha ucciso il ragazzo è partito accidentalmente dalla pistola. Versione dei ragazzi, fra cui quello che era riuscito a scappare e che poi si è consegnato (ma è lo stesso?): non c’era nessun latitante e il carabiniere ha sparato alle spalle dopo aver preso la mira, dunque con l’intenzione di uccidere.
L’analisi dei fatti ha confermato che il colpo del carabiniere era al petto e non alla schiena e che la traiettoria del proiettile era dal basso in alto e non orizzontalmente: dunque, il colpo è partito accidentalmente, dato che il ragazzo era in piedi quando è stato colpito e il carabiniere era inciampato. Ma, al di là dei cavilli, sui quali si daranno battaglia gli avvocati delle parti, c’è che a Napoli si rivendica il diritto di non fermarsi ad un posto di blocco delle forze di polizia e che se proprio inseguimento deve esserci va fatto a piedi e la cattura deve effettuarsi a mani nude, come al vecchio gioco dell’acchiappa-acchiappa.
Va da sé che Napoli non ha niente a che fare con nessuna altra città europea. Non c’è bisogno di dirlo. A Napoli e in tutta la Campania si spara per le strade in pieno giorno e si ammazzano persone occasionalmente, che alla fine, poveracce, erano al posto sbagliato al momento sbagliato. Con queste parole, qualche tempo fa, è stata liquidata l’uccisione a Portici, alle porte di Napoli, di un povero pensionato che era andato a fare la spesa per la famiglia.
L’episodio di Napoli presenta quattro fasi, una più grave dell’altra, una causa dell’altra in progress. La prima è quando i ragazzi non si sono fermati al posto di blocco, mettendo in allarme i Carabinieri, che partivano subito all’inseguimento.
La seconda, quando il carabiniere ha impugnato l’arma in maniera maldestra e ha ucciso il ragazzo inciampando. La morte del giovane è sicuramente il fatto umanamente più grave di tutta la vicenda. Morire a sedici anni per non essersi fermati all’alt dei Carabinieri è mille volte tragico, né il contesto del rione Traiano, notoriamente ricettacolo di criminalità diffusa, può rendere più comprensibile l’accaduto. Alla morte non c’è giustificazione che tenga.
La terza, quando la gente di Napoli si è scagliata contro il carabiniere. Consegnatecelo – hanno chiesto al Comandante dei Carabinieri – quasi si trattasse di un mostro reo di aver stuprato, seviziato e ucciso  quattro-cinque bambine. In questo modo la gente di Napoli ha trasformato un episodio di inciviltà propria in un’autentica rivendicazione sociale, ribaltando le responsabilità.
La quarta, quando nessuna importante autorità, dal Capo del Governo al Sindaco di Napoli (ex magistrato), dal Ministro degli Interni al Ministro della Difesa, ha detto mezza parola per difendere l’operato dei Carabinieri e per ribadire una legge che è vecchia quanto il mondo: se un’autorità di polizia ti indica di fermarti, ti devi fermare; se non lo fai ti metti fuori della legge e ti assumi tutte le responsabilità di quello che accade da quel momento in poi.
Questo triste episodio deve far riflettere più di altri, di tantissimi altri, purtroppo. Qui non ci troviamo di fronte alla violazione della legge per il diritto naturale di campare, come a Napoli accade da sempre, ma di fronte alla sollevazione di un’intera città che pretende e rivendica il diritto di agire e di comportarsi fuori dalle leggi più elementari del vivere civile. Secondo i napoletani i Carabinieri e le altre Forze di Polizia a Napoli sono forze di occupazione, estranee alla popolazione, che avrebbe tutto il diritto di resistere. Quei ragazzi erano per la gente di Napoli tre bravi figliuoli. Se non si sono fermati all’intimazione dei Carabinieri è perché si sono spaventati non avendo il casco in testa né l’assicurazione allo scooter; e se erano per la strada alle tre di notte era solo per una bravata giovanile in una sera d’estate. I Carabinieri, che non hanno saputo leggere l’episodio in questo modo, sono da condannare. Essi non avrebbero dovuto effettuare nessun inseguimento. La loro giustificazione, secondo cui c’era il sospetto che fra i tre ci fosse un latitante, per i napoletani è un’assurda pretesa, una squallida bugia, dato che nessuno dei tre ragazzi aveva ben visibile la scritta “sono un latitante”, come usano in genere a Napoli i latitanti.
Ironia a parte – ma non si capisce cos’altro usare per capire questa gente! – le giustificazioni di chi difende i tre ragazzi, privi di casco, loro, e di assicurazione lo scooter, sono delle aggravanti. Si può ridurre a ragazzate l’andare in scooter in tre senza casco in testa? Si può ridurre a cosa da niente l’andare in giro con uno scooter privo di assicurazione? Si può dire con disarmante nonchalance che per un ragazzo di sedici anni è normale andare in giro alle tre di notte? Se tutto questo si pretende di farlo passare per cosa normale, allora Napoli si dichiara fuori dal mondo civile dell’ordine e delle leggi.
Invece di fare un mea culpa collettivo i napoletani, ancora una volta, se la prendono con le autorità, secondo loro, di occupazione. In questo caso non i tre giovani erano al posto sbagliato al momento sbagliato, ma i Carabinieri. Essi, a quell’ora, dovevano stare a letto o a giocare a dama in caserma.

domenica 7 settembre 2014

No, non è Francesco; non può essere lui!


Poco più di un anno di pontificato per Papa Bergoglio è poco per fare un bilancio. Se stessimo parlando di politica diremmo che ci sono stati solo annunci. Ma l’annuncite, forse, non è solo politica.
Giunto al centro della cristianità «dalla fine del mondo», questo papa, dopo un banale «buonasera» da non saper che dire, si è messo a parlare, ma non sempre dimostrando di saper che dire. Difficoltà linguistiche? Anche, ma il più delle volte è incerto e contraddittorio sui concetti, come quando insiste sul fatto che il Signore non si stanca di perdonare e poi minaccia scomuniche a dritta e a manca: mafiosi, corruttori, pedofili. Tuttavia si è imposto subito all’attenzione per alcuni comportamenti, tutti rivolti all’accreditamento di una diversità pauperistica e spontanea. L’aver scelto il nome di Francesco in omaggio-sintonia col Poverello di Assisi è cosa che ha chiarito lui stesso quando si rincorrevano le voci che quel Francesco potesse riferirsi a San Francesco Saverio, che conobbe Sant’Ignazio di Loyola e fu gesuita, ordine al quale Bergoglio apparteneva. La sua Porziuncola è Santa Marta.
Parole e modi di questo papa sono coerentemente rivolti alla condanna della corruzione, della vanità, del lusso, della carriera soprattutto degli uomini di chiesa. Determinato e decisionista, ha conseguito i risultati migliori proprio sul fronte dello Ior, la banca vaticana,  e su alcune nomine ed esclusioni relative alla curia, che lui non chiama promozioni o retrocessioni. Diciamo che si è mosso bene sul fronte interno più squisitamente politico-organizzativo, facendo un po’ di pulizia; e sul fronte esterno, ponendosi come un riferimento attivo tra i potenti della Terra (appello per scongiurare l’attacco americano alla Siria, preghiera in Vaticano coi due leader della vicenda israeliano-palestinese) e guadagnandosi l’affetto della gente, che in lui vede finalmente un papa che si può toccare, che si può baciare, col quale poter parlare.
Un certo repulisti nella Chiesa era inevitabile e aveva incominciato a farlo Papa Ratzinger, il quale – a quanto si dice – abbandonò, compiendo un gesto rivoluzionario, resosi conto di non avere le forze per tenere tutto sotto controllo, per intervenire a fare gli opportuni cambiamenti, in presenza di collaboratori addetti alle pulizie che risultavano essere più sporchi degli sporchi da eliminare. Papa Bergoglio ha in effetti iniziato un percorso di rifacimento delle strutture portanti della chiesa, intesa nel suo aspetto secolare. E di questo non c’è che riconoscergli merito e augurargli di avere sempre la forza di decidere e di far eseguire le sue decisioni.
Ma sul versante delle grandi problematiche del mondo cattolico nulla appare alle viste. Celibato dei preti, sacerdozio femminile, matrimonio gay con relative adozioni di bambini, procreazione assistita, libertà di porre termine alla propria vita ormai ridotta al puro stato vegetativo, accesso ai sacramenti da parte dei divorziati e risposati, libertà di usare contraccettivi e di ricorrere all’aborto in caso di maternità non voluta, procreazione eterologa; su tutto questo Papa Bergoglio non ha ancora detto nulla, anzi ha assunto atteggiamenti controversi e addirittura di generica presa di distanza da chi invece su tutte queste problematiche ha sempre detto parole chiare. L’espressione “valori non negoziabili” lo irrita. Su queste materie ha detto ai vescovi: fate vobis!
Vero è che Papa Bergoglio non appare persona molto attrezzata sul piano dottrinale, gliel’hanno già fatto notare; ma è molto avveduto sul piano politico. Ha fatto passare per democrazia quella che è una prudente presa di distanza da comportamenti e decisioni antipatiche. Ha detto: su come gestire le varie problematiche spirituali e sociali decidano vescovi e parroci, a seconda della realtà in cui si trovano, dando un imput di fondo: sia comunque la Chiesa un ospedale da campo.
L’immagine è suggestiva, sembra quasi riprendere il Manzoni della Pentecoste: «Campo di quei che sperano»; ma la Chiesa così intesa è riduttiva. C’è un’umanità che soffre, che va aiutata e assistita, fino a condurla per quanto possibile fuori dalla zona della sofferenza. E’ un’immagine tanto forte che impedisce qualsiasi obiezione. Sarebbe come rifiutare di curare una persona malata o ferita solo perché si trova in uno stato politico, civile o religioso non conforme a certe regole. Ma la Chiesa è qualcosa di più, è il riferimento di tutta l’ecumene; e nell’ecumene non ci sono persone immuni da problemi spirituali. Non è questione di soldi o di successo. Anche i ricchi e i potenti hanno bisogno dell’ospedale da campo per come Bergoglio intende la Chiesa. Ci sono comportamenti, che offendono Dio e l’uomo,  che non si possono perdonare ai poveri e ai deboli e non perdonare ai ricchi e ai potenti. Né d’altra parte si può scambiare un problema spirituale per una malattia fisica, se non altro perché all’uno ci si arriva per scarsa prudenza, che è una delle quattro virtù cardinali, nell’altra si cade per cause assolutamente estranee e non desiderate dalla persona. Papa Bergoglio dice che la Chiesa deve accogliere tutti. Non si può non essere d’accordo. Ma un limite ci deve essere, se no la Chiesa perde la sua ragion d’essere e Cristo-Dio è «via, verità, luce» solo nella Chiesa-ospedale, mentre fuori è del tutto assente.         
Il Papa deve rischiare l’impopolarità. Lui non è “Francesco”. Lui non è quello che chiede, è quello che concede. Ruoli e responsabilità diverse. Da lui l’universo cristiano attende delle indicazioni relative alla vita di oggi. Spegnere la luce su questo non è da Papa.
Su talune problematiche può molto. Può benissimo adeguare certe norme tradizionalmente tabù del cattolicesimo ad una realtà cristiana cambiata. Per esempio può concedere ai divorziati di avere accesso ai sacramenti, anche quando sono risposati; può aprire al mondo femminile senza per questo parlare di sacerdozio; può autorizzare i preti che lo volessero a sposarsi senza per questo allontanarli dal sacerdozio; può concedere il fine vita a chi è ridotto ad una larva umana. Certo, accanto a queste aperture, necessarie e non in conflitto né col Decalogo né col Vangelo, ci sono principi e valori irrinunciabili: vita e famiglia, quindi condanna di aborto, d’innesti vari per procreare, di matrimoni omosessuali. Il Papa dovrebbe gridare forte la necessità sia delle aperture e sia delle chiusure, perché le une legittimano le altre.
Finché tace e spara estemporaneità per il piacere del plauso della gente e dei media, grandi riforme non ne farà; e la Chiesa, alla fine del di lui pontificato, si ritroverà con meno credibilità e qualche santo in più.