domenica 31 gennaio 2016

Renzi, il fastidioso, e gli altri


Il vento – si sa – cambia direzione; ancor più, di questi tempi, quando è metafora politica. Onestà intellettuale impone di registrare i suoi cambiamenti. Abbiamo più volte stigmatizzato che nei confronti di Renzi la stampa moderata ha avuto sempre un occhio di riguardo, non riprendendone mai gli eccessi offensivi quando non comici e caricaturali. Allo stesso modo registriamo l’inversione di tendenza, che sta prendendo consistenza dopo le intemerate di Juncker.
Paolo Mieli, sul “Corsera” di lunedì, 25 gennaio, è stato abbastanza esplicito nell’editoriale d’apertura “La politica (sbagliata) dei toni alti”. Un excursus storico, che, dopo aver toccato la questione scottante dei giorni nostri, a proposito dei vanti che Renzi butta come coriandoli di carnevale, conclude: “per quel che riguarda i nostri successi, il ruolo nuovo che abbiamo conquistato nel consesso internazionale, aspettiamo che siano gli altri a prenderne atto. Le lodi che ci diamo da noi, valgono poco, anzi niente”. 
E sempre sullo stesso giornale Paolo Valentino riferisce di un diplomatico Ue, rimasto anonimo, che pur riconoscendo a Renzi di aver “probabilmente ragione sul 70 % delle cose che dice”, sbaglia a fare la guerra a tutti, perché essa non paga e usare con i partner europei lo stesso linguaggio che usa coi suoi avversari in Italia è del tutto improprio e crea problemi di comprensione e conclude che “Renzi non ha un pensiero strategico sull’Europa, che considera quasi altro da sé”.
Anche Massimo Cacciari e in parte anche Ezio Mauro, ospiti di Lilly Gruber a “Otto e Mezzo”, lunedì, 25 gennaio, hanno avuto parole di critica per Renzi, rottamatore di uomini ma non di pratiche politiche (Cacciari).
Perfino dopo l’incontro Renzi-Merkel di venerdì, 29 gennaio, i commenti non sono stati benevoli nei confronti del nostro presidente del consiglio; e anzi più di uno ha adombrato qualche rischio per l’Italia, che potrebbe rimanere isolata in Europa.
Insomma, s’incomincia a parlare di Renzi seriamente, senza piaggerie e senza silenzi. Se si continuerà, si vedrà; per ora prendiamone atto.  
Apripista di questa inversione critica nei confronti di Renzi non c’è dubbio che è stata l’Europa. Dove l’«unto» di Napolitano si è fatto riconoscere per quello che è: un “noisy boy”, un ragazzo chiassoso, rumoroso, invadente; in una parola, fastidioso. A Firenze, nella sua Firenze, i tipi come lui li chiamano “bombardini”. Lo sanno anche i suoi vicini di casa. Voglio dire, non è che in Italia non è stato capito subito chi è; ma è stato un po’ assecondato e un po’ giustificato. Quanto colpevolmente è un altro discorso. In fondo, a chi giova mandare tutto a carte quarantotto quando nei paraggi non c’è nulla in alternativa?  Renzi è quello che è, un bombardino, ma intorno a lui non c’è altro.
Renzi non è Berlusconi, odiato a morte da democratici di ogni risma, in Italia e in Europa. L’odio che si è attirato finora Renzi, paradossalmente dai suoi stessi compagni di partito, almeno quelli di sinistra, è tutto in quel suo essere una sorta di caricatura di capo di governo, una sorta di peluche che però morde e graffia. Non si sottovaluti l’immagine in politica. Renzi, nonostante ostenti disinvoltura, tradisce un certo impaccio; come chi si trovi in una certa situazione e avverta una certa inadeguatezza. A questo aggiungasi quel modo di essere tipico dei toscani, i quali sono convinti di essere dispensati dal comportarsi secondo un modello condiviso e pensano che debbano essere gli altri ad adeguarsi a loro; un po’ come fanno con la lingua, che è l’italiano perché è il toscano.  
Quelli che gli stanno attorno, in una sorta di cerchio magico, lo sanno meglio degli altri, ma lasciano fare e dire perché sono interessati ognuno alla propria carriera; hanno capito di essere una cordata e che se cade lui trascina tutti gli altri.
Ormai lo hanno capito anche quelli che non sono del suo partito, del cosiddetto centrodestra e, ultimi ma non ultimi, i verdiniani di Ala. Tenerlo in piedi e fingere di essere d’accordo conviene.  
Renzi dice che se fallirà con la sua riforma elettorale, abbandonerà la politica. Altra minchiata! Viene di chiedersi: e che farà? Non risulta di aver abbandonato un’attività lavorativa, né piccola né grande; non risulta essere un professionista in carriera. Risulta davvero difficile trovare tra i tanti capi di governo dall’Unità d’Italia in poi uno culturalmente e professionalmente come lui. Abbiamo espresso sempre fior di intelligenze e di capacità; e perfino i politici di professione, quelli che non venivano dalle università o dalle istituzioni, alla Craxi, per esempio, erano di ben altra statura.
Il problema politico del momento purtroppo s’avvita intorno a Renzi. Ci sono tanti, oggi in Italia, dai trenta ai quarant’anni, che non hanno conosciuto il dibattito vero della politica, che in Renzi vedono un modello, uno che finalmente le cose le dice e le fa, e snocciolano le riforme e perfino le riformette e gli slogan. Dicono: finalmente! Non hanno termini di paragone, non conoscono il passato, né prossimo né remoto. Lo esaltano per aver detto che i furbetti del cartellino saranno licenziati entro 48 ore, ma non ricordano che quando solo pochissimi anni fa una legge contro i fannulloni la fece Brunetta Renzi e compagni oltre che dirsi scettici, oltre che ad irriderla, la osteggiarono e votarono contro.

Questa è l’Italia di oggi, fatta di soggetti senza memoria, né corta né lunga. Sono digiuni di informazioni come anoressici. Non sanno e non vogliono sapere, perché in tasca hanno tutte le risposte, una strisciata sul display dello smartphone e sanno vita, morte e miracoli di tutti, salvo a dimenticare tutto appena riposto in tasca l’apparecchio. Allora, perché studiare, perché imparare? Non c’è bisogno. Sono talmente sazi di nulla che non hanno capito che la cultura è qualcosa che va oltre l’erudizione, i saperi; la cultura sono i saperi lievitati. La cultura è ciò che resta dopo aver imparato tanto e dimenticato tutto. Non sanno neppure questo. E la memoria non l’hanno esercitata per nulla, ed ecco perché dimenticano il giorno dopo le cose sentite e viste il giorno prima. Questa gente rappresenta il futuro dell’Italia. E Renzi ne è il campione.     

domenica 24 gennaio 2016

Monicelli, Scola e la commedia all'italiana


Si fece un gran parlare celebrativo quando cinque anni fa morì Mario Monicelli, lanciandosi da una finestra dell’ospedale in cui era ricoverato. Si è fatto un gran parlare celebrativo in questi giorni per la morte di Ettore Scola. Due maestri del cinema italiano, di quel particolare genere, la commedia all’italiana, che tanto successo di pubblico e di critica ha avuto, grazie anche a degli interpreti straordinari che sarebbe troppo lungo qui elencare. Qualcuno ha detto perfino che con la scomparsa di Scola questo genere è finito. Forse altri sono d’accordo, con dispiacere; a me, sicuramente, è venuto di pensare: magari fosse davvero finita, la commedia all’italiana! Non la commedia in quanto rappresentazione, ma la “commedia” reale, quella rappresentata. La commedia all’italiana è l’Italia.
I film di Monicelli e di Scola erano divertenti, comici, paradossali, grotteschi. Più che trasfigurare la realtà la raccontavano tale e quale, con qualche esagerazione per motivi scenici, ma in modo sostanzialmente rispondente. Qualche altra volta era la realtà che faceva aggio sulla pur fervida fantasia dei suoi cantori. Certi personaggi di quel cinema e certi episodi li potevi conoscere e vivere benissimo nella realtà. Erano e sono, per esemplificare, gli italiani di Churchill che “vanno ad una partita di calcio come se andassero in guerra e alla guerra come ad una partita di calcio”.
Ci siamo tutti divertiti guardando quei film, non solo di Monicelli e di Scola, ma anche di Fellini, di Comencini, di Risi e via commediando. Essi hanno così ben raccontato la realtà italiana da accreditare l’immagine di un’Italia burlona, godereccia, approssimativa, incapace di concepire con serietà il mondo, la vita. E’ stata tanto commedia da rendere improbabile l’ipotesi che in questo paese ci potesse essere pure la tragedia.
Intendiamoci, non è stata una cosa recente, da legare alla democrazia politica, anche se l’antifascismo l’ha ampiamente giustificata e nutrita; già lo era prima. Siamo stati i maestri della commedia dell’arte, sì o no? Diciamo che è una nostra tendenza.
Tutti questi grandi registi e sceneggiatori si erano formati durante il fascismo e in quell’ambiente chiuso si erano tanto gonfiati di temi comici – gonfiati perché non potevano esprimerli liberamente – che, a libertà conquistata, è saltato il tappo alla botte. Un’esplosione, anche, per certi aspetti, vendicativa. Tu, fascismo, hai voluto per anni dare dell’Italia un’immagine seria, impegnata, drammatica, tesa alla conquista del mondo? Ebbene, questa è la risposta: siamo soltanto da ridere! La tua immagine era falsa e ha portato alla tragedia della guerra; la nostra immagine è quella vera e ha portato a fare dell’Italia – ci verrebbe da dire – quel paese da ridere che “tutto il mondo ci invidia”. C’è un film, proprio di Ettore Scola, “Una giornata particolare”, che è la copertina del contrasto tra un’Italia tesa verso orizzonti di grandezza (Mussolini) e un’altra stesa sulla deboscia (Mastroianni).
Monicelli, con “La Grande Guerra” e con “Le rose del deserto”, ha voluto ridicolizzare perfino le grandi tragedie del popolo italiano. Gadda, dopo aver visto “La Grande Guerra”, lui che era stato al fronte e sapeva perfettamente che cosa era stato quella guerra, rimase sconcertato e usò espressioni durissime nei confronti di Monicelli. Si può anche ridere e far ridere di certe situazioni; ma come si fa a gettare tutto nel tritacarne della risata, del comico e del grottesco? Come si può utilizzare tragedia per produrre commedia, trasformare gridi di dolore in fragore di risate? Occorrerebbe un minimo di rispetto, che questi signori – i maestri – non hanno avuto per niente e per nessuno.
La conseguenza di un simile cinema è l’immagine di un’Italia ridanciana, cialtrona, priva del senso dell’etica sociale, della cittadinanza, così bene interpretata da Vittorio Gassman, quello dei “Soliti ignoti”, de “Il sorpasso” e de “L’armata Brancaleone”. Non è che quest’Italia sia stata prodotta dalla commedia – ben inteso – esisterebbe se pure questa commedia non esistesse. Non la commedia ha prodotto l’Italia, semmai è il contrario.  
Il punto è un altro. Ed è che mentre nella realtà accadono le stesse cose che si rappresentano in commedia, magari anche più fantasiose – mi viene di pensare a quel tipo in mutande che va a timbrare per poi tornarsene a letto, ai tanti falsi ciechi, falsi sordi, falsi zoppi – a nessuno viene in mente che certe cose viste al cinema fanno ridere, ma nella realtà fanno piangere. A nessuno viene in mente di stabilire un nesso tra la commedia all’italiana e la tragedia all’italiana. La commedia, in quanto rappresentazione di una realtà balorda e cialtrona, è poi la causa delle tante tragedie reali: la mancata sorveglianza delle norme di sicurezza nei posti di lavoro, i casi Ilva e ThyssenKrupp, i suicidi di tanti imprenditori falliti, il fallimento delle banche, le fabbriche di prodotti nocivi, l’abusivismo selvaggio, la corruzione diffusa, le morti negli ospedali per causa degli ospedali, gli scontri ferroviari, i vigili urbani ammalati in massa la notte di capodanno, gli ingorghi delle autostrade in piena tempesta di neve. La commedia all’italiana, mentre ha nascosto le tragiche conseguenze di un certo modo di intendere e vivere la vita, ha dato del Paese l’immagine ad una dimensione.

Noi sappiamo, invece, che non c’è solo quell’Italia, ce n’è un’altra, quella dei grandi imprenditori che hanno creato marchi di assoluto universale prestigio in ogni campo, c’è il cosiddetto Made in Italy in tutte le sue declinazioni; e perfino nel cinema ci sono i grandi registi di storie serie, belle, problematiche, edificanti: i Rossellini, gli Antonioni, gli Zeffirelli, i Visconti, i Rosi, i Bertolucci, i Taviani. Con tutto il rispetto per i “maestri” che si divertono a propagandare le miserabilità degli italiani, noi preferiamo chi ci fa riflettere sulle cose serie della vita e ci consente di essere, nonostante tutto, orgogliosi di essere italiani, capaci di indignarci e di arrabbiarci. Non dal riso ma dal dolore nascono le grandi imprese. E se non è ipotizzabile incrementare il dolore, non è sensato provocare il riso, quando c’è solo da riflettere e agire.       

mercoledì 20 gennaio 2016

Il Padreterno ha perso la pazienza


      Il Padreterno ha perso la pazienza,
      dopo tanta fatica a far le cose
      diverse per non essere noiose,
      gli uomini in forza di giurisprudenza

      vogliono abolire ogni differenza.
      Niente papà e mamma, sposi e spose,
      maschi e femmine, garofani e rose,
      perfino notte e giorno all’occorrenza.

      E’ un secondo peccato originale,
      ha gridato dall’alto il Padreterno,
      un vero scatafascio generale.
     
      Ed ha mandato giù un nuovo inferno,
      dove non c’è più luce che distingua
      e vano è l’occhio, inutile la lingua.   

domenica 17 gennaio 2016

Renzi e il liscio e busso di Juncker


Il Presidente della Commissione Europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, fortissimamente sponsorizzato dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, perfino contro i veti e le minacce dell’inglese David Cameron, ha detto a Matteo Renzi di finirla di offendere i membri della Commissione, di non capire per quale motivo lo faccia e soprattutto di non attribuirsi meriti che non sono suoi, come quello di aver introdotto la flessibilità nei bilanci.
“L’ho introdotta io – ha ripetuto più volte Juncker – non lui: c’est moi, c’est moi”. Insomma, una bella lavata di capo, fuori dal politically correct, come non se ne vedeva una da tempi immemorabili. In diplomazia complimenti e salamelecchi non contano nulla; destano preoccupazione e fanno male le parole toste e dirette, proprio perché inusuali. In compenso mettono in chiaro molte cose.
Detta alla paesana, la sparata di Juncker contro Renzi suona così: smettila di parlare a cazzo e non fare la mosca cocchiera.
La qual cosa a noi italiani non piace. Juncker è pur sempre una sorta di Quisling, lì posto per eseguire ordini e fare gli interessi di altri; e Matteo Renzi è pur sempre il Presidente del Consiglio italiano che fa gli interessi del suo paese, sia pure in modi discutibili.
Si può legittimamente ipotizzare che dietro Juncker ci sia la Merkel, che di questi tempi non se la passa bene. Il Ministro italiano dell’Economia Padoan ha replicato, portando qualche elemento di chiarezza. Sì, è vero – ha detto – la flessibilità è stata introdotta dalla Commissione perché non poteva introdurla che lei, ma già se n’era parlato durante il semestre di presidenza italiana.
E Renzi? Ha replicato da par suo, offendendo, questa volta i suoi connazionali predecessori. “Non ci lasciamo intimidire – ha detto – l’Europa ha finito di telecomandare l’Italia”. Capito? Amato, D’Alema, Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, e perché no, Ciampi, Napolitano, tutti portaordini della Commissione Europea. Del resto, quando dice che l’Italia non si presenta più in Europa col cappello in mano, dà dell’accattone o del servo a quanti lo hanno preceduto. Cosa che ha costretto lo stesso Napolitano, giorni fa, a dirgli garbatamente che sbaglia ad offendere politici e tecnici italiani in Europa, i quali si sono sempre comportati con dignità ed efficienza.
Ma la lezione di Juncker ce la siamo strameritata anche noi; noi dico, popolo italiano. Da anni Renzi non fa che andare a ruota libera. A volte gioca con le parole, cerca la battuta come se stesse in un bar a litigare con tifosi avversari. Un modo disinvolto e stravagante di comportarsi di un Presidente del Consiglio; carica invece che dovrebbe sempre informarsi a compostezza di linguaggio e di comportamenti.
Di presidenti del consiglio più o meno della sua età l’Italia ne ha avuti altri e di certo non si comportavano come lui, che sembra giocare a fare per certi aspetti il Mussolini del XXI secolo e per certi altri il Berlusconi d’Oltrarno, producendo una caricatura da fare invidia a Checco Zalone e a Maurizio Crozza.
I nostri commentatori, invece di mettere in evidenza e perfino di stigmatizzare le esibizioni di Renzi, si profondono in complimenti, esaltando la sua abilità comunicativa. In Italia si chiama così l’offesa e l’arroganza: abilità comunicativa! Renzi è un genio della comunicazione - dicono. Insomma noi italiani copriamo di elogi chi ci insulta e ci raggira per giunta. Ma che bravo quel Renzi, ci ha fottuti! Salvo poi a distanza di anni a passare al dileggio e alla condanna. E’ il solito vizio italico dell’adulazione, che una volta trovava ragione nelle corti – “l’arte che qui da noi s’industria e cole” diceva l’Ariosto – e che oggi conferma che non c’è proprio niente da fare, peggio che voler raddrizzare le gambe ai cani.
Ma, parole a parte – Juncker in altra occasione aveva fatto l’elogio di Renzi – la presa di posizione del Presidente della Commissione Europea ha messo in evidenza i non buoni rapporti tra l’Italia e gli altri paesi dell’Unione Europea.  Qui occorre vedere se non sono buoni perché il governo italiano è mal rappresentato – cosa non del tutto peregrina – o se giustamente il governo italiano difende gli interessi del suo paese dalle spire soffocanti europee, nel sospetto che viga in Europa il principio del “due pesi e due misure”: quel che è possibile fare per la Germania, non lo può fare l’Italia. Gli esempi non mancano, dall’impossibilità di salvare l’Ilva ai tre miliardi dati alla Turchia per frenare il flusso di migranti verso la Germania, al gasdotto che dalla Russia porterebbe il gas in Germania lasciando fuori i paesi dell’Europa orientale, dalla Polonia alla Grecia.
Ma tutto questo c’entra relativamente col modo di comunicare di Renzi, che è compulsivamente offensivo e perciò inadeguato a garantire chiarezza di posizioni e di interessi in un ambiente così disarticolato e complesso come è quello europeo. Il risultato del suo linguaggio è di far passare dalla ragione al torto.
Che Renzi cerchi con certe battute di togliere terreno da sotto i piedi dei suoi avversari politici italiani, nell’ipotesi di un voto anticipato al 2017, non basta a giustificarlo.
D’altra parte, responsabilmente, bisogna riconoscere che ogni volta che ci dobbiamo adeguare alle direttive europee in Italia è il caos. L’ultimo lo fa registrare l’organizzazione del lavoro dei medici negli ospedali. Il nostro indiscutibile talento ad arrangiarci confligge con quello, tutto nordeuropeo, della pianificazione e del rispetto delle norme. Questo lo dobbiamo capire tutti in Italia, senza strumentalizzazioni.
Juncker, con la sua intemerata, ha comunque evidenziato alcuni altri aspetti, come il difficile momento che sta attraversando l’Europa e la crisi di consensi della Merkel in seguito alla sua infelice apertura illimitata ai profughi siriani. C’è del nervosismo, questo è certo, e Juncker lo ha dimostrato passando il liscio e busso all’incauto nostro Presidente del Consiglio. Renzi, da perfetto impunito, continuerà a parlare a cazzo e a fare la mosca cocchiera, tanto in Italia lo aspetta la solita claque di fottuti allegri.

mercoledì 13 gennaio 2016

Quarto, lo "scoglio" fatale del Movimento


Ma chi li ha consigliati i tre esponenti, Di Maio, Di Battista e Fico, i più autorevoli, a quanto pare, dopo i guru Grillo-Casaleggio, del Movimento 5 Stelle? Mi riferisco alla loro apparizione in Tv, uno accanto all’altro, come le tre famose scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Mi pare che stessero pure stretti in quella specie di panchina da marciapiede ferroviario. Sembravano legati come in una cordata di montagna, come a dire il nostro destino è comune: se ha visto uno, hanno visto gli altri; se tace uno, tacciono gli altri; se ha sentito uno, hanno sentito gli altri. In poche parole, se cade uno cadono gli altri.
Siamo all’abc della politica, quella che fa diventare gigantesco il guappetto di Firenze. I tre sostenevano di non aver mai saputo niente dell’affare di Quarto, il comune del Napoletano, amministrato da una di loro, Rosa Capuozzo, balzata agli onori delle cronache nazionali per presunte infiltrazioni camorristiche nella sua elezione a sindaco; prima difesa dal Movimento e poi espulsa perché disobbediente.
Vere o non vere le infiltrazioni, veri o non veri i tentativi – ma questi ultimi sono assolutamente verosimili in terra di camorra – sulla vicenda ci sono da dire alcune cose.
La prima è che nelle regioni dove è diffusa la mafia o la camorra le elezioni sono sempre condizionate. E non solo le elezioni, ma qualsiasi attività, anche imprenditoriale, commerciale, professionale, impiegatizia. Non prendiamoci per fessi! Se io entro in un qualsiasi bar so che ci può essere un mafioso che mi offre il caffè. E io, che faccio? Gli dico: no, da te non l’accetto, oppure m’invento una scusa? L’accetto e il giorno dopo sono io a offrirlo a lui; ci sono leggi di elementare urbanità assolutamente inderogabili. Via, chi parla del Sud senza conoscerlo, venga per un corso accelerato. Dove c’è la mafia – e nel Sud, altro se c’è! – tutto viene inquinato e chi si oppone è finito, perfino materialmente. I mafiosi votano e fanno votare, come accade in ogni democrazia. Ho detto delle ovvietà, delle quali mi vergogno, tanto sono risapute in Italia e nel mondo.
La seconda è che una vicenda così scontata andava gestita diversamente. Nel Sud, salvo che uno non decida di mettersi da parte, sapendo di dover operare in un ambiente inquinato, nel momento in cui decide per l’impegno pubblico, deve prepararsi a compiere immediatamente i passi occorrenti per denunciare pubblicamente ogni tipo di “aggressione”, che prima o poi arriva.
Nel “Giorno della civetta” di Leonardo Sciascia, il Capitano dei Carabinieri Bellodi, appena arrivato a destinazione, riceve la visita di un potente del luogo che gli offre subito un bell’appartamento, altro che quelle quattro scalcinate pareti dove l’Ufficiale si era sistemato. L’Ufficiale ovviamente rifiuta.
A Quarto il Movimento 5 Stelle non ha saputo gestire la situazione. Si sono comportati tutti come dei dilettanti allo sbaraglio, o, per usare la scala dei valori sociali di Sciascia, come tanti quaquaraquà. Se così non è stato, allora viene di sospettare altro, fermo restando il cerchio delle possibili variabilità umane, tra cui la paura, che non è da sottovalutare.
Certo, il modo come cinicamente il Pd ha strumentalizzato il caso Quarto, per omologare il Movimento 5 Stelle al canone dell’immoralità pubblica, lascia veramente stupefatti. In meno di ventiquattr’ore il castello fatato del Movimento si è trasformato in un ritrovo di faccendieri. “Il Movimento non può avere il monopolio della moralità pubblica e il caso Quarto lo dimostra”. Questo il mantra di Renzi e compagni.
Un po’ è vergognoso, ma in politica è come in guerra, tutto si può. Siamo alla vigilia di importanti scadenze elettorali nelle più importanti città d’Italia, da Torino a Napoli, attraverso Milano e Roma. Azzoppare gli avversari in una corsa così difficile e incerta non dico che è lecito, ma politicamente comprensibile.
Il nostro parere sulla vicenda di Quarto è che il Movimento 5 Stelle non ha sufficienti anticorpi per gettarsi in una battaglia politica, che non è più fatta di “vaffanculi” ma di credenziali importanti per proporsi a delle realtà politiche di grande complessità amministrativa, come sono le città in cui a primavera si vota. Non bastano le intenzioni, non bastano gli entusiasmi, non bastano le rabbie covate per anni a causa delle ingiustizie e le nefandezza pubbliche, occorre avere consapevolezza dei propri mezzi nelle più varie difficoltà. Consapevolezza anche di situazioni che si possono creare, malgrado ogni onesto sforzo per evitarle.
Siamo in un paese in cui la corruzione ha mille forme e mille altre in varietà di trasformazioni. Il Movimento 5 Stelle non è una colonia di marziani, ma di italiani autentici, con tutti i loro pregi e difetti. Se non si rendono conto di questo e si ostinano maniacalmente a voler cambiare gli italiani, come a voler raddrizzare le zampe ai cani, allora finiranno come sono finiti tanti altri prima di loro, più o meno come loro animati in principio da buoni propositi.

domenica 10 gennaio 2016

Terrorismo islamista: diciamo guerra per non dire resa


Ormai tutti diciamo che siamo in guerra. Pochi però sono disposti a dire che la guerra l’abbiamo persa. Una “guerra a pezzi”, l’ha chiamata Papa Francesco, con un’immagine da politologia artigianale. E’ la “terza guerra mondiale”, dicono alcuni, esagerando; ma c’è chi, come lo scrittore Claudio Magris, dice che è addirittura la “quarta”, poiché la terza è stata la cosiddetta “guerra fredda”, conclusasi con la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Forse l’ansia consumistica sta invadendo anche il vocabolario.
E’ bensì strano che la parola guerra circoli sulle bocche di politici e intellettuali con tanta disinvoltura proprio nel centenario di una delle più sanguinose guerre della storia, forse la più sanguinosa in assoluto, la prima guerra mondiale, detta anche la “grande guerra”.
Da più di un anno televisioni e giornali non fanno che parlarne; gli studiosi la stanno indagando in ogni più riposto angolo, con pubblicazioni su pubblicazioni, di storici, di studiosi; ma anche degli stessi suoi combattenti con reperti vari: lettere, cartoline, diari, memoriali. La guerra che viene fuori da simili testimonianze non ha nulla della guerra di cui si parla in riferimento agli atti terroristici che dalle Torri Gemelle, settembre 2001, fino alle stragi di Parigi del 2015 conosciamo.
Sui vari fronti della Grande Guerra erano carneficine di uomini, che si affrontavano con assalti alla baionetta e si sbudellavano, che cadevano falciati dalle mitragliatrici, che si spegnevano soffocati dai gas asfissianti, che venivano fucilati per diserzione, che venivano operati sul campo con asportazione di arti, che impazzivano di dolore o per i bombardamenti o per lo spettacolo atroce cui assistevano. La guerra è orribile anche per il suo stato di continuità nella sofferenza, anche per l’impossibilità di vedere un epilogo, lontano o vicino che sia.
Che cosa ha di tutto questo la guerra di cui si parla oggi contro il terrorismo islamista? Direi quasi nulla. Cosa nasconde, allora, l’esagerazione di tanti politici e di tanti intellettuali?
Incominciamo col chiarire che se pure non si tratta di guerra, come l’abbiamo vista sempre combattere da due eserciti contrapposti, neppure si può parlare di episodi di criminalità internazionale. E’ qualcosa di mezzo, di nuovo, che si definisce guerra per comodità di comunicazione. E’ entrata nell’uso giornalistico per l’esigenza di indicare immediatamente la “cosa” di cui si argomenta. Non si può sempre aprire una digressione nel mezzo di un ragionamento per dire se si può parlare di guerra o meno.
Guerra, è guerra, dunque; ma io non la metterei in successione di altre, perché essa è un unicum, che va analizzato e capito per la sua specificità, anche per evitare fughe da responsabilità precise.
Dal 2001 in poi non ci sono stati solo atti terroristici da parte degli islamisti, ci sono state le reazioni degli Stati colpiti, le guerre di Iraq e di Afghanistan; e poi le insorgenze dei paesi dell’Africa Settentrionale, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia alla Siria, fino al formarsi del Califfato e dell’Isis. Di fronte agli attacchi islamisti l’Occidente si è dimostrato impreparato, incapace di elaborare una strategia ed ha scambiato lucciole per lanterne, come nel caso delle cosiddette “primavere arabe”. Le sue reazioni, a partire dalla guerra in Afghanistan, hanno avuto carattere episodico e di polizia internazionale. Si colpiva lo Stato, cosiddetto canaglia, responsabile di aver ospitato i gruppi terroristici. Non c’è stato un progetto unitario per rispondere ad un attacco che, benché si ponesse in essere in maniera episodica, aveva una sua unità d’intenti. Gli Europei hanno dimostrato ancora una volta di non saper né vedere né pensare né agire da Europei, unitariamente. Ogni Paese ha cercato di trarre un vantaggio dalle varie crisi. Il caso più eclatante è stato la Libia, col francese Sarkozy che la volle attaccare a tutti i costi, trascinando anche noi italiani, combattuti tra l’interesse nazionale, secondo l’interpretazione di Berlusconi, allora Capo del Governo, e la fedeltà atlantica, interpretata dal Presidente della Repubblica Napolitano.
Dai fatti libici ai siriani è stato un susseguirsi di contenziosi, che hanno portato dentro la crisi la Russia di Putin, la Turchia di Herdogan, e ora l’Iran e l’Arabia Saudita; mentre non ha mai avuto tregua lo scontro israeliano-palestinese. In tutto questo accendersi di focolai di guerra, milioni di profughi si sono spostati e si spostano dall’Africa e dal Medio Oriente per raggiungere l’Europa. Nel 2015 ha superato il milione, mentre migliaia sono morti e continuano a morire durante il tragitto. Quanto di spontaneo ci sia in questo traffico di disperati e quanti di essi siano veramente e soltanto dei disperati è la grande incognita di fronte alla quale le autorità europee chiudono gli occhi.Gli episodi accaduti in Germania e in Svizzera la notte di San Silvestro, con centinaia di immigrati musulmani che hanno aggredito, violentato e derubato centinaia di donne nelle piazze dove si festeggiava la fine dell’anno vecchio e l’inizio del nuovo, sono stati definiti inquietanti, ma sono rivelatori.
Siamo di fronte ad un’invasione, che i responsabili dei vari governi non vogliono neppure pronunciare, men che meno prendere in considerazione come ipotesi. Gli invasori giungono da noi come profughi e, una volta accolti, si rivelano per quello che sono o che forse non possono non essere.

E noi, come rispondiamo? Ecco, con la parola “guerra”, che è oggettivamente appropriata ma sembra anche la password per aprire lo spazio della irresponsabilità, come ad allontanare da noi la minaccia. Ma con essa si cerca di esorcizzare la trappola in cui ci siamo cacciati. Sparandola grossa si cerca di coprire la verità, la gravissima verità. Invece di riconoscere gli errori fatti fino ad ora, di capire la gravità della situazione, che consiste nell’aver ingravidato l’Europa di ogni pericolo islamista, e cercare una via d’uscita, si continua a dire che dobbiamo continuare ad accogliere quanti più musulmani possiamo e ancora di più, che dobbiamo abolire il reato di immigrazione clandestina, che non dobbiamo aver paura di rimanere aperti.  Ma, a questo punto, più che di guerra dobbiamo parlare di resa; più che parlare di paura dobbiamo  imbracarci di pannoloni. 

domenica 3 gennaio 2016

Movimento 5 Stelle, eccetera eccetera


All’esordio del movimento politico di Beppe Grillo, poi chiamato “5 Stelle”, non pochi ex camerati si dissero interessati e poi via via entusiasti. Vi aderirono e lo votarono, scottati dall’esito infelice delle esperienze amministrative e politiche di tanti ex missini ed ex aennisti. Fini, Alemanno, Polverini; e dopo, tanti altri avrebbero trasformato la delusione dei “fu fascisti” in disgusto. Certo, le esibizioni sguaiate di Grillo, miste ad analisi politiche improbabili e a prospettive robespierriane, nulla avevano a che fare con la forbita, sottile, ironica oratoria di Almirante o dei tanti esponenti missini, che avevano estasiato l’uditorio non soltanto missino per decenni e fatto crescere una classe dirigente che, se non prometteva grandi cose, coltivava grandi ideali.
Che nel Msi ci fossero anche frange di soggetti anarcoidi, geneticamente scontenti, disadattati e disadattabili, era risaputo; elementi nati per essere contro, sempre e comunque in nome di un’entità politica estinta e non più proponibile. Per capire i grillini di provenienza missina, viene di collocarli in quella tipologia di riottosi utopisti.
Al Movimento 5 Stelle hanno aderito poi con crescente entusiasmo tantissimi giovani, apparentemente perbene, come dire, di primo pelo, cioè senza trascorsi politici. Qualcuno, gratta gratta, è figlio di fascisti dichiarati, come Alessandro Di Battista, a cui ancora gli avversari rimproverano “tanto” padre.  
Dico “apparentemente” perbene a propositi di questi giovani perché in concreto non esistono, sembrano soggetti virtuali, che appaiono in televisione, comunicano coi social, decidono con la rete; ma in buona sostanza non li incontri in nessun luogo fisico per poterli conoscere nella loro dimensione umana. Non hanno un’ideologia, non vengono da una scuola politica o di pensiero, non hanno una storia e culturalmente sono molto lacunosi e approssimativi, vagamente democratici. A sentirli sui tanti problemi che insorgono, sembrano sicuri; in realtà sono contraddittori quando non banali. Aspettano i pronunciamenti dei loro capi, che non brillano certamente per profonde vedute politiche.
Nessuno sa qual è la posizione del Movimento in politica estera, in politica interna, in politica economica, in politica scolastica; sanno dire episodicamente la loro, ora su questo ora su quel problema, sempre in corta polemica con qualcuno. Politicamente sono degli Ufo. Non sono identificabili come appartenenti ad un progetto di famiglia, di società, di Stato, di mondo. La loro forza elettorale sta nel “garantire” ciò che in quel momento piace di più ai più e soprattutto nell’essere contro l’odiata casta.
Ora, ragioniamo! In Italia ne abbiamo visti di angeli che con spade infuocate per anni hanno minacciato la “mala striscia” finire poi per fornicare appena passati dall’altra parte, come e peggio degli altri! I socialisti, che dal 1892 si proponevano come i giustizieri dei potenti che vessavano i poveri e i lavoratori, celebrarono il loro primo e ultimo centenario (1992) con Mario Chiesa in quel di Milano e col povero Craxi morto in latitanza. Il giustiziere di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, il fondatore dell’Italia dei Valori, non ha mai convinto quando ha cercato di giustificarsi e respingere le accuse di “arrobbamenti”, che regolarmente gli sono piovute addosso. Bossi, che lanciava fulmini e saette su “Roma ladrona”, ha fatto una fine miseranda, e con lui la Lega, che ha dovuto ridursi a più miti consigli. E i missini? C’è da vergognarsi per le porcate che hanno combinato appena messo piede “là dove si pote ciò che si vuole”. E dire che erano tutti contro la casta e sembravano sinceri e animati da propositi duri e puri! La minacciavano ventiquattro ore su ventiquattro con proclami di fuoco. Con l’aggravante che avevano un dna politico di tutto rispetto, un codice ideologico ed etico importante.   
E i grillini? Quale è la loro posta? La più attendibile è la rinuncia ad una quota di stipendio di parlamentare o di carica amministrativa. Una rinuncia che non vale nulla, che è come la rugiada quando ha da riempire una cisterna. E comunque l’iniziativa ha ben più nobili precedenti.
Prima che venisse approvato il finanziamento pubblico dei partiti (gennaio 1974) erano i parlamentari che coi loro soldi facevano politica, aprivano le sezioni e in collaborazione con gli iscritti provvedevano a quanto occorreva. Naturalmente i partiti di governo (Dc, Psi, Psdi, Pri) i soldi se li procacciavano con le tangenti e le dazioni varie che tutti avremmo poi conosciuto con Tangentopoli. Ma c’erano quelli che dal potere erano lontanissimi, come i missini, che il partito a tutti i livelli lo mantenevano spesso di tasca propria, di fatto rinunciando, in tutto o in parte, all’indennità parlamentare. I grillini non hanno inventato niente e farebbero bene a documentarsi.
Si dice ancora che sono tutti d’un pezzo e che cacciano via gli “infedeli” appena si accorgono dell’infedeltà. Finora ne hanno espulsi una quarantina, causa apparente il non aver lasciato al partito la quota parte di rinuncia; causa vera il non essere sempre in linea con le direttive cangianti del duo isterico Grillo-Casaleggio.
E’ probabile, anche per il vuoto politico che c’è alla sinistra del Pd renziano e alla destra dello schieramento politico nazionale, che il Movimento continui lungo il suo cammino di avvicinamento al potere politico. In alcuni comuni, anche importanti, è giunto a ricoprire cariche amministrative di alto livello e non pare sempre con esiti convincenti.
Chi legge la politica con criteri naturalistici, come suggeriva Machiavelli, sa che prima o poi conquisterà il potere, probabilmente in cogestione. Risulta difficile pensare che l’albero non dia prima o poi i suoi frutti. Ma saranno quelli sperati? Non si tratta di fare i gufi, come Renzi dice ad ogni pie’ sospinto; ma di non fare la figura degli allocchi, tanto per restare in famiglia.

Il Movimento 5 Stelle al momento è più una delusione annunciata che una speranza veramente sentita. Se poi si tratta di accontentarsi di vedere l’odiata casta in castigo, è un altro discorso. Ma, anche qui, bisogna stare attenti: la casta ha dimostrato di essere come l’Idra di Lerna, che neppure Ercole riuscì ad uccidere da solo ed ebbe bisogno del nipote Jolao, che fuor di metafora vuol dire forze e risorse assai più ampie e importanti. Staremo a vedere, sempre pronti a correggerci.