domenica 24 gennaio 2016

Monicelli, Scola e la commedia all'italiana


Si fece un gran parlare celebrativo quando cinque anni fa morì Mario Monicelli, lanciandosi da una finestra dell’ospedale in cui era ricoverato. Si è fatto un gran parlare celebrativo in questi giorni per la morte di Ettore Scola. Due maestri del cinema italiano, di quel particolare genere, la commedia all’italiana, che tanto successo di pubblico e di critica ha avuto, grazie anche a degli interpreti straordinari che sarebbe troppo lungo qui elencare. Qualcuno ha detto perfino che con la scomparsa di Scola questo genere è finito. Forse altri sono d’accordo, con dispiacere; a me, sicuramente, è venuto di pensare: magari fosse davvero finita, la commedia all’italiana! Non la commedia in quanto rappresentazione, ma la “commedia” reale, quella rappresentata. La commedia all’italiana è l’Italia.
I film di Monicelli e di Scola erano divertenti, comici, paradossali, grotteschi. Più che trasfigurare la realtà la raccontavano tale e quale, con qualche esagerazione per motivi scenici, ma in modo sostanzialmente rispondente. Qualche altra volta era la realtà che faceva aggio sulla pur fervida fantasia dei suoi cantori. Certi personaggi di quel cinema e certi episodi li potevi conoscere e vivere benissimo nella realtà. Erano e sono, per esemplificare, gli italiani di Churchill che “vanno ad una partita di calcio come se andassero in guerra e alla guerra come ad una partita di calcio”.
Ci siamo tutti divertiti guardando quei film, non solo di Monicelli e di Scola, ma anche di Fellini, di Comencini, di Risi e via commediando. Essi hanno così ben raccontato la realtà italiana da accreditare l’immagine di un’Italia burlona, godereccia, approssimativa, incapace di concepire con serietà il mondo, la vita. E’ stata tanto commedia da rendere improbabile l’ipotesi che in questo paese ci potesse essere pure la tragedia.
Intendiamoci, non è stata una cosa recente, da legare alla democrazia politica, anche se l’antifascismo l’ha ampiamente giustificata e nutrita; già lo era prima. Siamo stati i maestri della commedia dell’arte, sì o no? Diciamo che è una nostra tendenza.
Tutti questi grandi registi e sceneggiatori si erano formati durante il fascismo e in quell’ambiente chiuso si erano tanto gonfiati di temi comici – gonfiati perché non potevano esprimerli liberamente – che, a libertà conquistata, è saltato il tappo alla botte. Un’esplosione, anche, per certi aspetti, vendicativa. Tu, fascismo, hai voluto per anni dare dell’Italia un’immagine seria, impegnata, drammatica, tesa alla conquista del mondo? Ebbene, questa è la risposta: siamo soltanto da ridere! La tua immagine era falsa e ha portato alla tragedia della guerra; la nostra immagine è quella vera e ha portato a fare dell’Italia – ci verrebbe da dire – quel paese da ridere che “tutto il mondo ci invidia”. C’è un film, proprio di Ettore Scola, “Una giornata particolare”, che è la copertina del contrasto tra un’Italia tesa verso orizzonti di grandezza (Mussolini) e un’altra stesa sulla deboscia (Mastroianni).
Monicelli, con “La Grande Guerra” e con “Le rose del deserto”, ha voluto ridicolizzare perfino le grandi tragedie del popolo italiano. Gadda, dopo aver visto “La Grande Guerra”, lui che era stato al fronte e sapeva perfettamente che cosa era stato quella guerra, rimase sconcertato e usò espressioni durissime nei confronti di Monicelli. Si può anche ridere e far ridere di certe situazioni; ma come si fa a gettare tutto nel tritacarne della risata, del comico e del grottesco? Come si può utilizzare tragedia per produrre commedia, trasformare gridi di dolore in fragore di risate? Occorrerebbe un minimo di rispetto, che questi signori – i maestri – non hanno avuto per niente e per nessuno.
La conseguenza di un simile cinema è l’immagine di un’Italia ridanciana, cialtrona, priva del senso dell’etica sociale, della cittadinanza, così bene interpretata da Vittorio Gassman, quello dei “Soliti ignoti”, de “Il sorpasso” e de “L’armata Brancaleone”. Non è che quest’Italia sia stata prodotta dalla commedia – ben inteso – esisterebbe se pure questa commedia non esistesse. Non la commedia ha prodotto l’Italia, semmai è il contrario.  
Il punto è un altro. Ed è che mentre nella realtà accadono le stesse cose che si rappresentano in commedia, magari anche più fantasiose – mi viene di pensare a quel tipo in mutande che va a timbrare per poi tornarsene a letto, ai tanti falsi ciechi, falsi sordi, falsi zoppi – a nessuno viene in mente che certe cose viste al cinema fanno ridere, ma nella realtà fanno piangere. A nessuno viene in mente di stabilire un nesso tra la commedia all’italiana e la tragedia all’italiana. La commedia, in quanto rappresentazione di una realtà balorda e cialtrona, è poi la causa delle tante tragedie reali: la mancata sorveglianza delle norme di sicurezza nei posti di lavoro, i casi Ilva e ThyssenKrupp, i suicidi di tanti imprenditori falliti, il fallimento delle banche, le fabbriche di prodotti nocivi, l’abusivismo selvaggio, la corruzione diffusa, le morti negli ospedali per causa degli ospedali, gli scontri ferroviari, i vigili urbani ammalati in massa la notte di capodanno, gli ingorghi delle autostrade in piena tempesta di neve. La commedia all’italiana, mentre ha nascosto le tragiche conseguenze di un certo modo di intendere e vivere la vita, ha dato del Paese l’immagine ad una dimensione.

Noi sappiamo, invece, che non c’è solo quell’Italia, ce n’è un’altra, quella dei grandi imprenditori che hanno creato marchi di assoluto universale prestigio in ogni campo, c’è il cosiddetto Made in Italy in tutte le sue declinazioni; e perfino nel cinema ci sono i grandi registi di storie serie, belle, problematiche, edificanti: i Rossellini, gli Antonioni, gli Zeffirelli, i Visconti, i Rosi, i Bertolucci, i Taviani. Con tutto il rispetto per i “maestri” che si divertono a propagandare le miserabilità degli italiani, noi preferiamo chi ci fa riflettere sulle cose serie della vita e ci consente di essere, nonostante tutto, orgogliosi di essere italiani, capaci di indignarci e di arrabbiarci. Non dal riso ma dal dolore nascono le grandi imprese. E se non è ipotizzabile incrementare il dolore, non è sensato provocare il riso, quando c’è solo da riflettere e agire.       

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