Si fece un gran parlare
celebrativo quando cinque anni fa morì Mario Monicelli, lanciandosi da una
finestra dell’ospedale in cui era ricoverato. Si è fatto un gran parlare
celebrativo in questi giorni per la morte di Ettore Scola. Due maestri del
cinema italiano, di quel particolare genere, la commedia all’italiana, che
tanto successo di pubblico e di critica ha avuto, grazie anche a degli
interpreti straordinari che sarebbe troppo lungo qui elencare. Qualcuno ha detto
perfino che con la scomparsa di Scola questo genere è finito. Forse altri sono
d’accordo, con dispiacere; a me, sicuramente, è venuto di pensare: magari fosse
davvero finita, la commedia all’italiana! Non la commedia in quanto
rappresentazione, ma la “commedia” reale, quella rappresentata. La commedia
all’italiana è l’Italia.
I film di Monicelli e di Scola erano
divertenti, comici, paradossali, grotteschi. Più che trasfigurare la realtà la
raccontavano tale e quale, con qualche esagerazione per motivi scenici, ma in
modo sostanzialmente rispondente. Qualche altra volta era la realtà che faceva
aggio sulla pur fervida fantasia dei suoi cantori. Certi personaggi di quel
cinema e certi episodi li potevi conoscere e vivere benissimo nella realtà. Erano
e sono, per esemplificare, gli italiani di Churchill che “vanno ad una partita
di calcio come se andassero in guerra e alla guerra come ad una partita di
calcio”.
Ci siamo tutti divertiti
guardando quei film, non solo di Monicelli e di Scola, ma anche di Fellini, di
Comencini, di Risi e via commediando. Essi hanno così ben raccontato la realtà
italiana da accreditare l’immagine di un’Italia burlona, godereccia,
approssimativa, incapace di concepire con serietà il mondo, la vita. E ’ stata tanto
commedia da rendere improbabile l’ipotesi che in questo paese ci potesse essere
pure la tragedia.
Intendiamoci, non è stata una
cosa recente, da legare alla democrazia politica, anche se l’antifascismo l’ha
ampiamente giustificata e nutrita; già lo era prima. Siamo stati i maestri
della commedia dell’arte, sì o no? Diciamo che è una nostra tendenza.
Tutti questi grandi registi e
sceneggiatori si erano formati durante il fascismo e in quell’ambiente chiuso
si erano tanto gonfiati di temi comici – gonfiati perché non potevano
esprimerli liberamente – che, a libertà conquistata, è saltato il tappo alla
botte. Un’esplosione, anche, per certi aspetti, vendicativa. Tu, fascismo, hai
voluto per anni dare dell’Italia un’immagine seria, impegnata, drammatica, tesa
alla conquista del mondo? Ebbene, questa è la risposta: siamo soltanto da
ridere! La tua immagine era falsa e ha portato alla tragedia della guerra; la
nostra immagine è quella vera e ha portato a fare dell’Italia – ci verrebbe da
dire – quel paese da ridere che “tutto il mondo ci invidia”. C’è un film,
proprio di Ettore Scola, “Una giornata particolare”, che è la copertina del
contrasto tra un’Italia tesa verso orizzonti di grandezza (Mussolini) e
un’altra stesa sulla deboscia (Mastroianni).
Monicelli, con “La Grande Guerra ” e con
“Le rose del deserto”, ha voluto ridicolizzare perfino le grandi tragedie del
popolo italiano. Gadda, dopo aver visto “La Grande Guerra ”, lui
che era stato al fronte e sapeva perfettamente che cosa era stato quella guerra,
rimase sconcertato e usò espressioni durissime nei confronti di Monicelli. Si
può anche ridere e far ridere di certe situazioni; ma come si fa a gettare
tutto nel tritacarne della risata, del comico e del grottesco? Come si può
utilizzare tragedia per produrre commedia, trasformare gridi di dolore in
fragore di risate? Occorrerebbe un minimo di rispetto, che questi signori – i maestri
– non hanno avuto per niente e per nessuno.
La conseguenza di un simile
cinema è l’immagine di un’Italia ridanciana, cialtrona, priva del senso dell’etica
sociale, della cittadinanza, così bene interpretata da Vittorio Gassman, quello
dei “Soliti ignoti”, de “Il sorpasso” e de “L’armata Brancaleone”. Non è che
quest’Italia sia stata prodotta dalla commedia – ben inteso – esisterebbe se
pure questa commedia non esistesse. Non la commedia ha prodotto l’Italia,
semmai è il contrario.
Il punto è un altro. Ed è che
mentre nella realtà accadono le stesse cose che si rappresentano in commedia,
magari anche più fantasiose – mi viene di pensare a quel tipo in mutande che va
a timbrare per poi tornarsene a letto, ai tanti falsi ciechi, falsi sordi,
falsi zoppi – a nessuno viene in mente che certe cose viste al cinema fanno
ridere, ma nella realtà fanno piangere. A nessuno viene in mente di stabilire
un nesso tra la commedia all’italiana e la tragedia all’italiana. La commedia,
in quanto rappresentazione di una realtà balorda e cialtrona, è poi la causa
delle tante tragedie reali: la mancata sorveglianza delle norme di sicurezza
nei posti di lavoro, i casi Ilva e ThyssenKrupp, i suicidi di tanti
imprenditori falliti, il fallimento delle banche, le fabbriche di prodotti
nocivi, l’abusivismo selvaggio, la corruzione diffusa, le morti negli ospedali
per causa degli ospedali, gli scontri ferroviari, i vigili urbani ammalati in
massa la notte di capodanno, gli ingorghi delle autostrade in piena tempesta di
neve. La commedia all’italiana, mentre ha nascosto le tragiche conseguenze di
un certo modo di intendere e vivere la vita, ha dato del Paese l’immagine ad
una dimensione.
Noi sappiamo, invece, che non c’è
solo quell’Italia, ce n’è un’altra, quella dei grandi imprenditori che hanno
creato marchi di assoluto universale prestigio in ogni campo, c’è il cosiddetto
Made in Italy in tutte le sue
declinazioni; e perfino nel cinema ci sono i grandi registi di storie serie, belle,
problematiche, edificanti: i Rossellini, gli Antonioni, gli Zeffirelli, i
Visconti, i Rosi, i Bertolucci, i Taviani. Con tutto il rispetto per i “maestri”
che si divertono a propagandare le miserabilità degli italiani, noi preferiamo
chi ci fa riflettere sulle cose serie della vita e ci consente di essere,
nonostante tutto, orgogliosi di essere italiani, capaci di indignarci e di
arrabbiarci. Non dal riso ma dal dolore nascono le grandi imprese. E se non è
ipotizzabile incrementare il dolore, non è sensato provocare il riso, quando c’è
solo da riflettere e agire.
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