sabato 27 marzo 2021

Intorno al totem Draghi passi di danza politica

 

Ad eccezione del M5S, che non riesce nemmeno a trovare più la via di casa, tanto è smarrito, gli altri partiti, di destra e di sinistra, hanno inscenato intorno al totem Draghi una sorta di danza per propiziare per alcuni, per scongiurare per altri. Da una parte il Pd e la Lega, che cercano di sembrare più draghiani di Draghi; dall’altra Leu e Fratelli d’Italia che rimarcano le distanze e accusano Draghi di essere un governo secondo Leu orientato a destra, secondo FdI orientato a sinistra, comunque nel solco del precedente. A latere i nostalgici del Conte 2, i quali non risparmiano battute ironiche sul governo dei migliori.

Ad attrarre l’attenzione, per ovvi motivi, sono i due partiti guida dei due schieramenti. Sia Enrico Letta che Matteo Salvini lanciano segnali a Draghi, in attesa che in qualche modo il Presidente del consiglio risponda dando loro l’opportunità di dire: siamo noi i più vicini al governo, siamo noi che comandiamo. Letta, per esempio, ha tirato fuori lo Jus soli. Immediatamente Salvini ha ribattuto che proporlo in questo momento vorrebbe dire far cadere il governo. Draghi si è guardato bene dal rispondere. Il che ha fatto pensare che il governo è più d’accordo con Salvini. Avete visto? Comandiamo noi. Ma quando poi il leader della Lega ha detto che non è pensabile chiudere il Paese per tutto il mese di aprile come Draghi aveva disposto per contenere la pandemia e quando questi ha risposto che a stabilire se il Paese va chiuso o meno sono i dati epidemiologici, ecco che a strumentalizzare le parole di Draghi è stato Letta, secondo cui il Presidente del Consiglio ha voluto dare una bacchettata a Salvini. Insomma si va avanti così, non con la politica ma con la sua messa in scena.

Sul versante degli oppositori sia la Meloni che i dissidenti di Leu continuano ad accusare il governo Draghi di non essere diverso dal precedente governo, sbilanciato a sinistra secondo Meloni; di essere ostaggio della destra di Salvini secondo il dissidente di Leu Nicola Fratoianni. Dove, chiaramente, le esagerazioni da una parte e dall’altra sono funzionali alla motivazione politica di opposizione. Se no, perché opporsi?

In realtà il governo Draghi ha messo in mora la politica ed essa si è impoverita. Non ha usato parole brutali, non è nel suo stile, ma quando ha raccomandato a tutti i ministri e sottosegretari di non parlare se non per annunciare cose fatte, ha voluto far capire che “qui, d’ora in poi, non si parla di politica, ma si lavora”. Alla base, dunque, di questo non esaltante passaggio della nostra storia, non c’è un dibattito vivo e motivato da forti contrapposizioni. Vale il qui ed ora dei vari provvedimenti, mentre non mancano le ambiguità di prospettiva.

Sul versante sinistro non si capisce bene a cosa mirino i due partiti, Pd e M5S, che fino alla vigilia della chiamata di Draghi al governo erano fortemente intenzionati a dar vita ad un solo soggetto, che guardava a Giuseppe Conte come al punto di equilibrio. Cosa che è costata la segreteria a Luca Zingaretti, accusato di essere troppo accondiscendente verso i grillini e di aver svenduto il partito. Oggi il M5S tace, mentre il Pd, per bocca di Enrico Letta, parla di un’intesa fra i due partiti con il Pd nel ruolo di guida, ovvero in rapporto rovesciato rispetto a prima. Nasce da qui il rinnovato attivismo del Pd, dopo aver trovato in Letta un leader indiscusso, mentre l’altro, il M5S, per ora è silente e confuso, imbrigliato in una serie di questioni interne che hanno anche poco a che fare con programmi, linee e prospettive, come il contenzioso con la piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio.

A destra la situazione è ancora più ambigua. Fratelli d’Italia, che non ha voluto entrare nel governo Draghi e ha scelto di stare all’opposizione, mentre non risparmia attacchi al governo, di cui fanno parte i suoi “alleati”, Lega e Forza Italia, continua a dire che in prospettiva non cambia niente nello schieramento di centrodestra, oggi divisi domani insieme, essendo le tre componenti, Lega, FdI e Forza Italia, unite verso la meta, tese cioè a conquistare la maggioranza parlamentare alle prossime elezioni e a fare finalmente insieme il governo di centrodestra organico.

Se consideriamo che prima del rinnovo del Parlamento c’è l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica capiamo come di questa situazione così povera e avvilente ne avremo ancora per un bel po’. Nel frattempo a farla da padrona c’è l’epidemia, che per ora continua ad imperversare, mentre la vaccinazione di massa, molto annunciata, stenta a decollare.

sabato 20 marzo 2021

Così parlo Draghi

 

Stava incominciando a farsi strada la narrazione di un Draghi silente, con commenti da parte di chi non ha condiviso la nascita del suo governo piuttosto acidi e beffardi. E, invece, nel giro di pochi giorni Draghi ha parlato. Lo ha fatto il 12 marzo al centro vaccinale di Fiumicino, il 18 marzo al cimitero di Bergamo per commemorare le vittime da Covid e nella conferenza stampa di venerdì sera, 19 marzo. Nelle tre circostanze ha confermato il suo stile, sobrio ed essenziale, le sue vedute di sostanziale pragmatismo. Ha mantenuto la promessa: prima fare e poi parlare. Un modo, questo, rivoluzionario in un ambiente solitamente fatto di annunci, di slogan e di propaganda, come è quello italiano.

Il suo linguaggio è stato schietto e aderente alle cose indicate, cioè ha chiamato le cose col loro nome, dando l’impressione quasi di incapacità di parlare obliquamente. A proposito delle cartelle esattoriali ha detto che si tratta di condono, parola in genere tabù per i politici italiani, ma ha anche aggiunto che si è fatto ciò che si poteva fare per il bene dei cittadini interessati e del Paese, mediando con quanti, Lega e Forza Italia, avrebbero preteso che l’abbattimento fosse più generalizzato ed esteso. E a chi gli chiedeva delle impuntature di Salvini, l’ex Presidente della Bce rispondeva con una lezione di galateo politico. Quando si è in una coalizione di diversi ognuno deve saper rinunciare con buon senso ad una porzione delle proprie convinzioni di bandiera. Gli otto anni passati alla Banca centrale europea gli hanno sicuramente affinato l’abilità di mediare fra spinte e interessi diversi, per trovare l’interesse dell’istituzione, ovvero di tutti.

Sul più spinoso problema del vaccino AstraZeneca, sospeso per tre giorni in seguito ad alcune morti per trombosi e poi riammesso, ha sostenuto le ragioni della sospensione, ma non, come vogliono certe accuse, per accodarsi agli interessi della Germania bensì per opportunità dopo quanto era successo. La stessa Germania, che è stata la prima a chiedere agli altri governi europei la sospensione, ha agito secondo Draghi nell’interesse della popolazione e non per reconditi motivi. Cosa si poteva fare a quel punto? Spesso lamentiamo la mancanza in Europa di una visione comune delle cose, ma quando qualche volta ce l’abbiamo, ecco che ci dimostriamo nostalgici dell’essere divisi. Draghi ha rassicurato gli italiani che lui stesso si farà il vaccino AstraZeneca come già se l’è fatto suo figlio in Inghilterra, per confermarne la sicurezza e l’efficacia.

Forse sulla vicenda AstraZeneca è stato, però, meno convincente. La sospensione, infatti, se pure non è partita per interessi tedeschi, ma su questo permangono legittimi sospetti, è stata un errore, non dell’Italia ma dell’Europa. Che poteva mai rispondere l’Ema (Agenzia europea del farmaco), se non di ribadire quanto già si sapeva del vaccino? Dunque si è perso solo tempo e si è rafforzato nei cittadini il sospetto che questo vaccino è di serie b e che comunque comporta dei rischi. L’Ema, infatti, è stata esplicita: i benefici superano i rischi. Dunque i rischi ci sono. Dire che ogni farmaco procura effetti collaterali e ha controindicazioni non convince del tutto, perché un conto è assumere un medicinale quando se ne ha bisogno in presenza di una malattia conclamata un altro è assumerlo per prevenirne una, che può giungere e può anche non giungere. Ma è importante che i cittadini si facciano il vaccino anche per spirito di solidarietà di “gregge” perché non solo si premuniscono singolarmente dal virus ma contribuiscono a creare le condizioni per sconfiggerlo nel Paese. La vaccinazione di massa a questo mira.

Queste sortite di Draghi con i primi provvedimenti governativi (nuovo Comitato tecnico scientifico, decreto sostegni) provano con sufficiente visibilità che c’è stata quella tanto invocata discontinuità rispetto al governo precedente. Non è solo questione d’immagine. Draghi si è dimostrato risoluto e risolutivo, come lo ebbe a definire Mario Monti, quando ha stoppato l’esportazione di vaccini all’Australia e ha detto che se con l’Europa le cose non dovessero procedere bene nell’acquisizione dei vaccini provvederemo da soli aprendo anche al russo Sputnik. Inequivocabile è stato nel liquidare il Mes, che tanto ha fatto parlare nei mesi passati; e quando ha ribadito, a proposito dello scontro Usa-Russia, la nostra appartenenza all’europeismo e all’atlantismo.

Poi, anche lui si è fatto sedurre dagli annunci: ad aprile 500mila vaccinazioni al giorno e le scuole saranno le prime a riaprire. Vedremo!  

sabato 13 marzo 2021

Draghi, Letta e il momento degli indiscutibili

 

La chiamata di Enrico Letta al capezzale del moribondo Pd somiglia alla chiamata di Mario Draghi al capezzale della moribonda Italia: due autorevoli indiscutibili. Entrambi chiamati per mettere fine al caos delle contrapposizioni e dei reciproci sospetti dei protagonisti del dibattito politico-governativo. Mario Draghi ha messo d’accordo i partiti, ad eccezione di Fratelli d’Italia, che è rimasto fuori del concerto; Enrico Letta dovrebbe mettere d’accordo le correnti interne del Pd. Due uomini d’ordine, insomma. La forza di entrambi sta nell’essere indiscutibili, almeno in apparenza e all’inizio, nell’essere cioè accettati da tutti come arbitri sovrani, e soprattutto nella considerazione che lo stato attuale delle cose, la pandemia per l’Italia e la crisi del Pd, impone il sacrificio per un po’ di tempo del dibattito politico. Dopo, si vedrà.

Una cosa va detta subito per entrambi: nessuno dei due ha poteri taumaturgici. I cambiamenti che ci saranno appariranno lenti e quasi impercettibili. E difatti Giorgia Meloni e la stampa avversa a Draghi nostalgica di Giuseppe Conte (Il fatto quotidiano) sottolineano che finora non c’è stato nessun cambio di passo e che è solo cambiato il direttore d’orchestra mentre lo spartito e parte dei musicanti sono gli stessi. Enrico Letta ha richiamato l’attenzione dell’assemblea Pd di domenica 14 marzo sulle sue parole, su ciò che dirà, e ha suggerito di non coltivare franche ed esagerate aspettative. L’uno e l’altro invitano a tenere i piedi per terra.

Il dato più rilevante sotto l’aspetto politico è che da un po’ di anni in Italia per sbrogliare momenti difficili si ricorre all’eroe, al salvatore della patria, all’uomo della provvidenza, all’indiscutibile, al demiurgo. Questo si giustifica col fallimento della politica che sembra essersi incartata dopo la tormenta di Tangentopoli e i vari tentativi di trovare il bandolo della nuova matassa, che si può sintetizzare nell’idea berlusconiana del Popolo delle Libertà e in quella prodiana dell’Ulivo, due formazioni composite, la prima di centrodestra, la seconda di centrosinistra. Entrambe nate dalla crisi dei partiti tradizionali.

Il compito di Draghi per l’Italia sembra più facile di quello di Letta per il Pd benché incomparabili per importanza siano i due “assistiti”. Se, come si spera, si riuscirà entro l’estate a vaccinare una parte sufficiente degli italiani al punto da far raggiungere loro l’immunità di gregge, si può dire che la battaglia di Draghi è vinta. Questo obiettivo è più appariscente, meno manipolabile come risultato. Gli altri obiettivi, Recovery Plan e riforme, sono alla portata e più stemperabili; comunque secondari in ossequio al detto latino primum vivere deinde philosophari. Se Draghi riuscirà nel primo intento, cioè di vivere, ancor meglio dovrebbe riuscire nel secondo e nel terzo, cioè nel philosophari. Anche se col passare del tempo potrebbe affievolirsi la carica iniziale e potrebbero maturare nuovi scontri e intolleranze fra partiti da mettere in crisi la pax voluta da Mattarella. Due grandi eventi attendono il futuro di Draghi: l’elezione del Presidente della Repubblica e le probabili elezioni anticipate. Due eventi carichi di incognite.

Più o meno, ma su scala ridotta, è la situazione di Letta, il quale dovrà far decantare il partito, fargli raggiungere una certa normalità dialettica in vista del congresso che si annuncia per il 2023, quando le parti avranno raggiunto una certa serenità e dato alcune risposte, fra cui, la più importante, il rapporto col M5S. L’accusa che è stata fatta a Zingaretti, non del tutto destituita di fondamento, è di non aver avuto mai l’iniziativa, di essersi sempre accodato alle scelte di altri e di aver quasi subordinato il Pd al M5S. Letta perciò dovrà prima di tutto recuperare la centralità nel rapporto con l’alleato e la capacità di indicare una direzione seguita poi dagli altri. Molto del risultato della sua credibilità dipenderà da questo. Va detto che il compito non è facile stante la frammentarietà del partito che presenta più capi che sèguiti. Una situazione davvero paradossale se si pensa che l’uscita di Bersani (Leu, corrente di sinistra), e poi quella di Renzi (Italia Viva, corrente per così dire di destra), avevano lasciato più compatto quello che doveva essere il nucleo centrale del partito, non più frazionabile. Si consideri tuttavia che ormai Pd e M5S hanno intrapreso un cammino insieme e che i loro destini ormai si incrociano. Il Pd non dispera di fagocitare il M5S, magari giungendo ad una nuova formazione che li comprendesse entrambi. Da parte sua Beppe Grillo, che aveva capito dove si sarebbe potuti andare a parare, provocatoriamente, ma non troppo, aveva suggerito, prima della scelta di Letta, di essere lui il segretario del Pd. Evidente l’intento da parte di entrambi, Pd e M5S, di fare di questi due partiti una sola cosa.  

Anche per questo il compito di Letta, di salvare il Pd, è più proibitivo di quello di Draghi, di salvare l’Italia: il Pd ci può essere e non ci può essere e comunque si può discutere, l’Italia no, l’Italia è il principio e il fine di tutto.      

sabato 6 marzo 2021

Il Movimento 5 Stelle e la politica del tutto si tiene

La delusione è forte. Quella provata dai Cinquestelle per la svolta “moderata e liberale”, come l’ha definita Luigi Di Maio. Come è noto, il Movimento ha risposto positivamente all’appello del Presidente della Repubblica Mattarella e si è intruppato nella compagine governativa di Mario Draghi, il “banchiere” draculesco verbalmente giocando, insieme a Berlusconi, Salvini e il reprobo Renzi. La gran parte l’ha assorbita, se n’è fatta una ragione, anzi l’ha definita una tappa di maturità, quasi una cosa non imposta dagli eventi ma attentamente perseguita. Un’altra, di gran lunga minoritaria, no, non è proprio riuscita. E si è ribellata, votando contro le decisioni della maggioranza, verificata anche dal voto sulla piattaforma Rousseau. Non stiamo parlando degli elettori grillini, ma degli eletti e dei quadri dirigenti, per i quali vale la distinzione politologica di “credenti” e “carrieristi”.

Bisogna partire da lontano, non da molto lontano, ma se consideriamo l’età del Movimento, meno di dodici anni, sembra che sia passato un secolo. Ma “un secolo fa” grillino era di totale opposizione a tutto ciò che sapeva di establishment, a suon di vaffa, di ingiurie, insulti e anatemi tra i più volgari che mai linguaggio politico abbia conosciuto qui in Italia. Molti dei grillini erano figli di missini sfegatati (vedi Di Battista, vedi Di Maio), dei fascisti irriducibili, erano contro il sistema; e, come i loro padri, non intendevano piegarsi alle sirene del potere condiviso. Con la differenza che i missini erano esclusi, i grillini si autoescludevano e si mettevano come D’Artagnan, uno contro tutti, un po’ come la Meloni oggi. Nel 2013 rifiutarono di entrare in un governo col Pd, allora guidato da Luigi Bersani.

Ora essi, non è che non abbiano ragione, ne hanno da vendere, solo che la loro è una merce senza mercato. Nel giro di pochi anni si ritrovano in uno stesso governo con gli odiati nemici. Non nemici qualsiasi, ma nemici strutturali. Il Movimento era nato contro di loro, si giustificava contro di loro e si finalizzava annientandoli. Con Berlusconi nemmeno un saluto da lontano. Ce lo ricordiamo tutti lo psiconano! Accettare ora che stiano insieme, tutti appassionatamente, è da folli. Addirittura un tradimento colossale il doversi piegare alla “maturità” del Movimento. Come a dire: ora che si è tutti insieme il Movimento dimostra di essere finalmente maturo, moderato e liberale. Ma le ragioni dei “dissidenti” finiscono qui, con le loro ragioni in bacheca, come trofei di cui inorgoglirsi.

Quello che essi non capiscono – non si tratta che non vogliano capire, che è cosa diversa! – è che tutto ciò che si pianta nel terreno politico finisce per tralignare in qualcos’altro. È inevitabile. In meno di una legislatura il Movimento ha conosciuto le giravolte più acrobatiche. Dall’alleanza con la Lega (2018-2019) a quella con Pd, Italia Viva e Leu (2019-2020), ossia dalla destra più estrema alla sinistra edulcorata, fino all’odierno assemblearismo mattarelliano.

Nel frattempo si erano aperte crepe nel Movimento. Non sempre per nobili motivi. Alcuni non hanno inteso versare le quote mensili e per questo sono stati espulsi, andando ad ingrossare i gruppi misti di Camera e Senato, qualcuno è approdato ad altri lidi. La tanto decantata democrazia diretta, attraverso Rousseau, si è rivelata in tutta la sua inconsistenza, per l’esiguità dei votanti. Una sproporzione enorme se si considera che i gruppi parlamentari del Movimento sono ancora di gran lunga maggioritari in entrambi i rami del Parlamento. Altra cosa sono gli espulsi per disobbedienza politica.

I dissidenti vogliono organizzarsi in gruppi con tanto di nome. Hanno creato “l’alternativa c’è”, che è come un volersi radicare alle ragioni primigenie e compiacersi di un’opposizione fine a se stessa, senza sbocchi, fuori dai giochi politici che movimentano le dinamiche democratiche. In realtà in politica chi non accetta i mutamenti, può avere anche ragione sul piano etico e ricevere tutta la simpatia di questo mondo, ma dimostra di avere la sindrome di Peter Pan, ossia quella patologia secondo la quale non si vuole crescere ma piuttosto rimanere fanciulli, com’era appunto il personaggio di James M. Barrie.

Anche in questo il Movimento, almeno la componente ribelle, che non ha votato Draghi e rifiuta il moderatismo e il liberalismo di Di Maio, ricorda l’altro Movimento, il Sociale Italiano, che, in quanto reduce del fascismo, si compiaceva di stare all’opposizione in una sorta di mistica della sconfitta. Anche nel Movimento Sociale non ci volle molto per far cambiare idea a moltissimi, i quali finirono per apprezzare l’ingresso al potere nella prima metà degli anni Novanta (Fini, Berlusconi, Bossi). “Che ne abbiamo avuto – dicevano – per tanti anni all’opposizione? Ci guardavamo allo specchio e ci dicevamo: ma come siamo onesti e puliti!, mentre gli altri s’ingozzavano e si sbrodolavano”.

Ora qui non si vuol dire che la politica in Italia è solo gozzoviglio diffuso. Ci mancherebbe altro! Ma i missini di ieri e i grillini di oggi, limitatamente ai loro periodi di opposizione netta e radicale, hanno offerto un servizio al Paese e alla Politica, sì quella con la P maiuscola. Perché sarà pure vero che i missini si compiacevano dell’opposizione e i grillini della loro diversità, ma è anche vero che essi hanno dimostrato che si può fare politica con nobili intenti. Nessuna opposizione è sterile ed ogni opposizione in politica svolge un ruolo fondamentale. La realtà, purtroppo, finisce sempre per premiare i più spregiudicati, i più rotti a qualsiasi compromesso. I quali, tuttavia, non bisogna mai dimenticarlo, costituiscono la parte più pragmatica e realistica della politica e con la loro spregiudicatezza ma anche col loro impegno si fanno carico dei problemi del Paese. La politica è estrema bellezza ed estrema bruttezza. Entrambe indispensabili.