domenica 26 maggio 2013

Il Paese delle leggi chewingum


“Le leggi son – diceva Dante ai suoi dì – ma chi pon mano ad esse?”. Storia vecchia in Italia: le leggi non mancano, ma non sempre vengono applicate. Si dirà: ma se applichiamo le leggi in maniera rigorosa e puntuale, che di per sé sono conservazione e staticità, dove va a finire la società aperta, la crescita sociale, il riconoscimento delle muove libertà individuali, la risposta alle sollecitazioni della realtà, che di per sé è mobilità, dinamismo, dialettica? Giusta osservazione.
Ma la risposta è semplice e immediata: il potere legislativo sta appunto per cambiare le leggi non più rispondenti alle esigenze della realtà, per introdurne di nuove nella prospettiva di favorire o semplicemente assecondare aperture e cambiamenti. Ma finché una legge è in vigore, essa va applicata. Questo vuole lo Stato di Diritto.
In Italia, invece, le leggi, ad incominciare da come le usano i magistrati, vengono interpretate, per cui per una stessa identica situazione un giudice condanna, un altro assolve, a seconda del suo personale convincimento ideologico. Non diversamente fanno i parlamentari, i quali hanno l’esercizio del potere legislativo. Addirittura delle leggi, che essi stessi hanno elaborato e approvato, ne fanno un uso “opportuno”. Se conviene le applicano, se non conviene le ignorano, oppure cavillano sulla loro giustezza, non le rispettano ma neppure le abrogano. Le masticano come chewingum e poi le attaccano sotto il tavolo o la sedia.
Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale, un gran bel principio in astratto, in concreto è il campo dove i magistrati sono soggetti solo ai gradi della loro vista: qui vedo e qui no. L’Italia, patria del diritto è una bufala, fondata sul malinteso dell’eredità romana. E’ invece il Paese dell’arbitrio. Già Giuseppe Prezzolini sosteneva che gli Italiani non sono Romani. “I Romani – scrisse – lasciarono un’impronta nel mondo…per un alto concetto della legge; gl’Italiani son conosciuti…per il carattere, che vari han definito anarchico” (L’Italia finisce, ecco quel che resta, 2003).
Veniamo al dunque. Nel 1957, quando Silvio Berlusconi aveva vent’anni e faceva il cantante sulle navi da crociera, fu approvata una legge secondo la quale è ineleggibile alla carica di parlamentare chi abbia con lo Stato rapporti di interesse economico, come le concessioni governative. Ovvio il perché di questo: incompatibilità e conflitto d’interessi. Nel 1994 Berlusconi si trovava esattamente nel caso previsto da questa legge: non era eleggibile per via delle frequenze televisive. Da allora ad oggi sono passati quasi vent’anni. Berlusconi è stato eletto e rieletto, ha guidato diversi governi. La legge del ’57 è stata sempre interpretata in maniera non ostativa alla sua eleggibilità. Di punto in bianco la sinistra italiana, con la sindrome del Moscarda, si è ricordata della legge e la vuole applicare per far decadere Berlusconi da Senatore. Il giornalista de “la Repubblica” Giovanni Valentini, comunista, ha candidamente ammesso che le leggi sono soggette alle atmosfere politiche: oggi – ha detto – c’è una maggioranza in favore dell’interpretazione ostativa di quella legge, così come ieri ce n’era una concessiva. Sicché la forza della legge dipende dalla forza della politica! Molte cose accecano gli uomini, ma la più brutta di tutte è l’odio politico, perché a sua volta genera una serie di sconvenienze, fra cui l’esibizione involontaria della propria demenza. Quella legge andava applicata senz’altro nel 1994. Non più rispondente alla realtà del momento, come a loro volta sostengono i difensori di Berlusconi? Benissimo! Intanto non si elegge Berlusconi, poi la si cambia, la si emenda, la si abroga. Questo significa vivere all’insegna dello Stato di Diritto. Volerla applicare oggi, perché c’è una maggioranza che lo vuole fare è un obbrobrio, prima ancora di essere un arbitrio.
E passiamo al secondo punto. L’art. 49 della Costituzione vuole che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti politici per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Nessuno prima, se non a livello giornalistico e di pubblico dibattito, aveva mai sollevato l’incostituzionalità della partecipazione alle elezioni dei movimenti, come quello di Grillo, che non presentano i requisiti costituzionali. La proposta di legge della Senatrice Finocchiaro – che, non si dimentichi, è un ex magistrato – è un evidente attacco al Movimento 5 Stelle, che di mettersi sui binari della Costituzione non ne vuole sapere, perché il suo successo sta nel suo pazziare ora dentro ora fuori la Costituzione, secondo convenienza. Anche qui, perché decidersi di applicare l’art. 49 dopo 65 anni? Risposta: perché oggi si è posto il problema. O perché solo oggi conviene porselo?

Un terzo assurdo caso è quello della legge elettorale detta Porcellum, che la Cassazione ha di recente dichiarato incostituzionale interessando la Consulta, che perciò si deve esprimere. Ma come? Sono stati eletti parlamenti e governi, promulgate leggi, fatti accordi internazionali, e ora si dice che è incostituzionale. E i danni provocati chi li paga? A causa di quella legge sono stati eletti parlamentari invece di altri, fatti governi invece di altri, fatte cose invece di altre, sono state create condizioni politiche, economiche e sociali invece di altre, c’è stata una storia nazionale invece di un’altra. Ed oggi si dice: scusateci tanto, siamo stati disattenti: quella legge era incostituzionale. E prima, quando è stata approvata e resa esecutiva, gli organi di controllo dove stavano? Dove la Presidenza della Repubblica, la Corte Costituzionale? Quanto meno ci sarebbe l’accusa di culpa in vigilando. Già, ma chi accusa? Dovrebbe essere il popolo italiano a farlo, direttamente col voto e indirettamente con la sua classe dirigente. Ma non lo fa, perché in buona sostanza in Italia non esistono gli uni e gli altri, ma solo gli uni, in senso manzoniano parodiato, dove al posto di “arme, di lingua e d’altare, di memorie, di sangue e di cuor” possiamo mettere tutto il repertorio di stranezze e stravaganze cui quotidianamente assistiamo e nelle quali, a volte, ci capita perfino di essere protagonisti. 

venerdì 24 maggio 2013

Gino Pisanò "Apollo d'Argento" 2013. In memoriam


Quest’anno l’ “Apollo d’Argento”, Premio ideato un po’ di anni fa da “Il Laboratorio” di Aldo D’Antico, va a Gino Pisanò, in memoriam, come vuole lo statuto del premio. E’ il primo che Gino riceve post mortem; molti ne ha ricevuti in vita.
Oggi, egli manca; ma questo riconoscimento ha per tutti un valore aggiunto, che è quello dei suoi tanti amici ed estimatori che un po’ rinnovano il mito di Orfeo richiamandolo in vita. 
L’illusione è vita. Era anche questo uno dei tanti temi che Gino mutuava dalla cultura classica, da quell’immensa miniera di miti vivificanti che è l’universo della Grecia antica. “Celeste dote è negli umani; e spesso / Per lei si vive con l’amico estinto / E l’estinto con noi” canta il Foscolo nei Sepolcri. Ogni volta che a Gino si dedica qualcosa, un premio, un libro, un convegno di studi, è come richiamarlo in vita, è come farlo stare con noi.
Di premi Gino ne ha ricevuti davvero tanti, quasi a scandire tappe di una carriera progressivamente sempre più articolata e importante. Io lo seguivo nei suoi successi culturali ed editoriali. Sapevo di fargli piacere.
Leggo sul mio “Brogliaccio Salentino”, l’inserto cultura sul quale Gino dal giugno del 1989 al dicembre del 2012, dunque quasi fino all’ultimo, ha pubblicato ben 38 testi, tra articoli, saggi brevi, recensioni critiche:
nel 1997 ebbe a Gallipoli la Targa d’Argento “L’uomo e il Mare” assegnatagli dall’omonima Associazione Culturale “per la sua intensa e altamente qualificata attività culturale”;
nel 2007 a Cracovia ebbe il “Premio Europeo” assegnatogli dalla Federazione Europea della Stampa Turistica come presidente dell’Istituto di Culture Mediterranee “per l’attività svolta a beneficio della cooperazione culturale e per aver favorito il dialogo e la conoscenza reciproca tra i diversi Paesi e le differenti culture mediterranee”;
nel 2008 a Calimera ebbe il Premio Tekné “Città di Calimera Processi di contestualizzazione dell’arte urbana”, assegnatogli dal Comune di quella città e dall’Osservatorio “Tekné”.
Egli stesso fu organizzatore di premi. Il più importante dei quali certamente fu il “Premio Casaranello”, ideato da lui e da Giovanni Pino nel 2006 col patrocinio del Comune di Casarano.
Ora giunge questo importante riconoscimento degli amici parabitani. Con Parabita Gino aveva un rapporto splendido, testimoniato dal dono dei suoi libri alla Biblioteca Comunale “Ennio Bonea”, che li ha sistemati in un fondo a lui intitolato.
Ringrazio perciò l’amico Aldo D’Antico che mi ha voluto questa sera qui per la cerimonia della consegna del Premio e del ricordo di Gino.
***
Gino era una personalità ricca e poliedrica, ma i suoi tanti aspetti confluivano in un unico profilo. Credo di non esagerare se dico che egli ha rinverdito negli ultimi trent’anni, a livelli profondi ed estesi, il tipico intellettuale salentino di tradizione poligrafica, avendo attraversato come studioso e scrittore le più importanti discipline dell’universo umanistico.
Dei tanti suoi aspetti, mi piace qui ricordare brevemente l’uomo, il docente, lo studioso, l’operatore culturale.
L’uomo era di una correttezza straordinaria. Non riesco proprio ad immaginare Gino che abbia mai mancato di rispetto a nessuno. Scrupoloso oltre ogni comprensibile prudenza era attentissimo a non urtare la suscettibilità di persona alcuna. Cito un episodio. Qualche tempo prima che ci lasciasse mi chiese di pubblicargli una sua vecchia lettera di ringraziamento a Oreste Macrì, che gli aveva mandato un suo libro, ma voleva che chiedessi l’autorizzazione di pubblicarla ad Albarosa Macrì, che era ed è la custode delle cose dello zio. Gli dissi che mi sembrava un’esagerazione chiedere permesso ad altra persona di pubblicare un proprio scritto; ma lui insistette; ed io con lui ad oppormi, fino a dirgli: no, io non chiedo a nessuno di fare qualcosa che dipende solo da me. Allora – disse lui – gliela chiedo io personalmente l’autorizzazione; e gliela chiese e fu felicissimo di darmi la notizia che avrei potuto pubblicare tranquillamente quella lettera. Credo che i tanti riconoscimenti che ha ricevuto nella sua non lunghissima carriera abbiano avuto sì una motivazione culturale, ma anche e soprattutto umana. Gino era una persona squisita.
Il docente. Al Liceo prima e all’Università dopo, ha dato a tante generazioni di giovani insegnamenti di vita e di cultura, facendo loro amare la terra, le radici, gli uomini e le opere della loro appartenenza regionale e nazionale; offrendo le sue competenze a tante giovani colleghe, che con lui si sono preparate per affrontare il concorso a cattedre, vinto anche per gli insegnamenti, teorici e pragmatici, da lui ricevuti. Mi ha detto qualche tempo fa un suo alunno, oggi brillante professionista, che le sue lezioni erano particolarmente belle ed esclusive, non si esaurivano mai alle parole del libro di testo. Non è, questo, un dato di poco conto. Gli studenti prima ancora di studiare la disciplina studiano il professore, cercano di saggiarne la preparazione, di carpirne i dati caratteriali, di capire il metodo dell’esercizio pedagogico. Un professore che si limita a riferire le parole del manuale è un professore mediocre, scrupoloso forse ma di preparazione superficiale e povera di contenuti critici. Gli studenti non tardano ad accorgersene. Gino si faceva apprezzare subito per l’eleganza dell’esposizione, per la profondità del sapere, per la spazialità dei contenuti.  
Lo studioso meriterebbe un convegno di studi. Partito da giovanili esperienze poetiche, nel solco della poesia classica, è passato attraverso la storia, la filosofia, l’arte, l’italianistica, producendo saggi importanti che hanno colmato spazi vuoti e arricchito il panorama culturale. Cito, tra i tanti da lui pubblicati, quello su Ignazio Falconieri, la cura degli inediti di Luigi Corvaglia su Vanini e la filosofia del Rinascimento, lo studio degli affreschi e dei mosaici di Casaranello, i numerosi saggi sulla letteratura italiana dal Settecento al Novecento, la cura di un’antologia della rivista comiana “L’Albero”. I suoi saggi sono usciti sulle più prestigiose riviste locali e nazionali. Ha goduto dell’amicizia e della stima di studiosi e di accademici illustri, da Mario Marti a Oreste Macrì, di cui nel 1995 curò “Le prose del malumore di Simeone”, da Gaetano Chiappini a Maria Corti, da Francesco Politi ad Anna Dolfi, da Mario Spedicato a Luigi Scorrano, da Andrè Jacob a Predrag Matvejevic. Una volta gli feci osservare che forse sarebbe stato meglio per lui scegliere un solo percorso di studio per divenirne uno specialista. Mi rispose che avevo ragione ma aggiunse che un intellettuale deve dare ciò che l’ambiente fisico ed umano chiede e che spaziare per diverse discipline era qualcosa che lo faceva sentire sempre motivato. Ogni argomento che lui affrontava, in verità, lo trattava da autentico specialista. Anche come studioso egli cercava sempre di aprire sentieri nuovi, di andare oltre il già detto, di vedere in un’opera o in un autore se per caso ci fosse un aspetto non indagato, fino a spingersi ad ipotesi critiche ed ermeneutiche di assoluta originalità. Ricordo la sua lettura dei mosaici di Casaranello. Di recente egli vide nel Trionfo della Libertà del Manzoni, lettura critica fatta in occasione del Convegno di Copertino per i 150 anni dell’Unità d’Italia, l’ipotesi suggestiva nel giovane Manzoni degli scenari apocalittici della fine della Rivoluzione napoletana del 1799.
Infine l’operatore culturale, che era fra tutte forse la sua vocazione più avvertita, perché ne favoriva la mondanità, la socialità, lo stare con gli amici, coi collaboratori. La sua partecipazione a convegni di studio in tutta Italia e fuori, le sue conferenze, i suoi articoli e saggi su giornali e riviste, le sue lezioni alle Università popolari e della terza età, le sue presentazioni di mostre d’arte, le sue prefazioni a libri di poesie, di narrativa, di memorie, le sue collaborazioni con uomini di spettacolo come il regista teatrale e attore  Francesco Piccolo e il coreografo Fredy Franzutti, fanno di lui un uomo di cultura straordinariamente versatile e disponibile. Proprio quella sera, in cui avvertì per la prima volta il male, era reduce di un pomeriggio freddissimo nel Castello di Copertino per il convegno già ricordato sui 150 anni dell’Unità d’Italia.
I suoi amici, i suoi alunni, i suoi colleghi e collaboratori non lo dimenticheranno e il “Premio” di questa sera è solo l’avvio stimolante in costanza di memoria e di presenza.

Gigi Montonato


Parabita, 23 maggio 2013  

domenica 19 maggio 2013

Il governo muove i primi passi tra dispetti e minacce



Il Presidente Napolitano ha detto qualche giorno fa che l’Italia a fine maggio ha un esame importante dal quale dipende la sua non meglio definita sopravvivenza: “Siamo sul filo del rasoio”. Che ci dobbiamo aspettare? Quale nuovo o vecchio disastro di ritorno? Il debito pubblico ha abbondantemente superato i duemila miliardi di euro. Già questo non basta?
Il 30 maggio la Commissione Europea valuterà se chiudere la procedura di infrazione in cui l’Italia si trova. E la potrà chiudere se il governo garantirà di tenere il deficit sotto la soglia del 3 % del Prodotto interno lordo, come vogliono le regole comunitarie. In questo caso il governo potrà iniziare una politica di maggiore flessibilità per tentare la ripresa economica. Ma come? E’ il cane che si morde la coda. Lo sforzo di tenerci al di sotto del 3 % ci impedirà di ridurre il carico fiscale; e senza riduzione del carico fiscale la macchina economica non si rimetterà in moto, non potrà aumentare il Pil. Finché le imprese pagano un fottìo di soldi allo Stato non possono crescere.  Ancora una volta la massima autorità dello Stato ci ricorda che siamo sotto esame e che dipendiamo dalla valutazione di Bruxelles. Dipendenza, non indipendenza, dunque: questo è il problema!
A preoccupare di più è la situazione politica delle due grandi componenti della maggioranza governativa. Basta la salute! Si diceva una volta, con ottimismo. Ma è proprio questa che manca. Pd e Pdl non stanno bene…di testa.
Il Pdl minaccia rappresaglie se: 1) Berlusconi dovesse essere condannato, 2) se non sarà abolita l’Imu dalla prima casa, 3) se sarà aumentata l’Iva. Sorte di Berlusconi a parte, sulla quale il Paese si sta voltando e rivoltando nella mota con una goduria che ricorda i maiali di una volta nel grattarsi la schiena nel lordume, si tratta di spese che lo Stato fatica a coprire dal punto di vista finanziario.
Il Pd stenta a trovare un’indicazione per uscire da una situazione nella quale il numero delle posizioni supera quello degli esponenti delle stesse, come a dire che in ognuno ci sono più punti di vista. Gli attacchi a Berlusconi estemporanei e personali sono manifestazioni defatiganti, come ad allontanare le questioni interne, che tengono il partito sospeso.
Le due componenti del governo – ma che fine ha fatto la terza, che dovrebbe essere di equilibrio? – giocano una pericolosa partita, come se fossero due squadre di calcio che cercano il goal per la gioia dei tifosi o del pubblico più in generale. Dal campo di Brescia Berlusconi è uscito con una sconfitta. Lo ha ben capito Zanda, che è tornato sulla sua ineleggibilità. Prove di rissa, che hanno un unico obiettivo: far cadere il governo per reciprocarsi la responsabilità. Perfino sui pochi successi ottenuti le due parti si fanno dispetti incrociati. La sospensione dell’Imu e il decreto per la Cassa integrazione in deroga hanno fatto esultare Berlusconi. Il successo è nostro, ha detto. E in risposta dall’altra parte: il successo è del governo. Insomma, anche un po’ infantili.
Il rischio che il governo cada c’è e preoccupa più di quello paventato da Napolitano sulla procedura d’infrazione. Significherebbe, infatti, in assenza di un’alternativa, dover andare a votare senza una nuova legge elettorale, mentre su quella esistente, a parte ogni altra riserva, grava una molto probabile sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta, dopo la bocciatura di ieri della Cassazione.
Quanto si sta delineando lascia ben poche speranze. I processi di Berlusconi procedono verso esiti nefasti per lui e per il governo. Intorno una scena-oscena, grottesca. Lo spettacolo offerto da Brunetta, Formigoni e Santanché a Brescia, che, protetti da nugoli di carabinieri e poliziotti, rispondevano ai contestatori con atteggiamenti di sfida, è tipico di chi ormai non ha nulla a cui appigliarsi se non ad una sorta di spavalderia per nascondere la consapevolezza di una fine imminente.
La situazione del centrodestra berlusconiano è la rappresentazione plastica della dissoluzione di una grande montatura politica. Quella del centrosinistra, al contrario, offre lo spettacolo di chi si affatica a montarne una in una situazione di massima confusione.   
Purtroppo – lo diciamo con la preoccupazione di cittadini che avvertono gravi le conseguenze di tanta impotenza politica – la Costituzione non prevede passaggi ulteriori sulla strada di un’assunzione diretta di responsabilità da parte del Capo dello Stato. Mai, come in questo periodo, si è sentita la necessità di avere un timoniere abile e deciso al comando della nave.

domenica 12 maggio 2013

La Chiesa di Francesco stenta a decollare



Per ora è la Chiesa di sempre. Stesse scene di Piazza San Pietro. Più passeggiate del Papa tra la folla dei fedeli. Più episodi popolari e confidenziali, scambi di zucchetti, baci e abbracci coi bambini, coi malati. Più messe fuori da San Pietro, a Santa Marta, eletta dimora papale. E’ la Chiesa che ci viene mostrata tutti i giorni. Una propaganda degna di regime, continua, noiosa perché ripetitiva. E’ la Chiesa di Francesco I. E’ la Chiesa della televisione di Stato, dello Stato italiano.
A vedere le scene sanpietrine si ha l’impressione che essa goda di ottima salute. Lo stesso se si scorrono le classifiche dei libri più venduti, con due-tre di Papa Bergoglio tra i primi dieci; cinque-sei tra i primi venti. Accade da diverse settimane. Un duello editoriale avvincente, il suo, con Andrea Camilleri, che ha trovato pane per i suoi denti. Sappiamo che è fumo negli occhi.
La Chiesa resiste nei continenti dove ancora è la società in ritardo, come nel continente sudamericano. Dove invece la società è più avanti rispetto a lei si registrano ritardi su ritardi. Un’antica usura del clero alto, un alienato e a volte abbrutito clero basso, un sempre crescente distacco dalla società cambiata, che continua a cambiare, avevano indotto Benedetto XVI a compiere un gesto rivoluzionario, dimettendosi. Forse nemmeno da lui condiviso nell’intimo delle sue convinzioni teologiche, ma reso necessario per far sentire una voce diventata fioca. L’uscita di Papa Ratzinger dalla scena aveva ed ha, nonostante tutto, il significato di una cesura netta col passato e di un ricominciamento forte e deciso nel presente. Sembra abbia voluto dire: mi sacrifico perché finalmente vi rendiate conto della gravissima situazione in cui ci troviamo.
Non è forse questo il significato del suo salire sulla croce? Uno stare sulla croce diverso da quello toccante, estremo del suo predecessore Giovanni Paolo II. Papa Ratzinger è un grandissimo intellettuale e il suo vocabolario è raffinato e difficile. Ha inteso sacrificare la teologia alla storia. Se lo ha fatto, chi gli è succeduto dovrebbe trarne le conseguenze.
Invece, novità, cambiamenti, per ora nada. Sicuramente è presto per dire qualcosa, men che meno per ipotizzare un bilancio. Qualche giorno fa un dubbio di Francesco I: ma lo Ior serve a qualcosa? Che potrebbe essere l’avvio per un’attesa trasformazione del sistema finanziario del Vaticano. Le gerarchie per ora non si muovono.
Francesco I insiste su due punti, entrambi riconducibili alla povertà. Ma non si capisce bene se intesa come condizione socio-economica o condizione morale. Nell’un caso o nell’altro è lontana dalle esigenze e dalle aspirazioni della società di oggi, almeno da quella europea. Se è solo amore per i poveri, che pure esistono, è un altro discorso; meglio sarebbe parlare di carità.
Il primo punto sul quale insiste è l’invito al clero, alto soprattutto, a non inseguire il potere, le cariche, le promozioni; a non sgomitare, spingere, mettere sgambetti agli altri per arrivare primi. Vuol dire che tutto quello che si diceva prima delle dimissioni di Benedetto XVI, dal caso Boffo a Vatileaks, era vero; anzi, che era solo una parte del malessere reale. L’altro punto è l’appello a conservarsi poveri. Lo dice con le sue metafore della nonna: il sudario non ha tasche; mai visto un corteo funebre seguito dal carro dei traslochi. Forti, efficaci; ma anche queste decisamente antiche, espressione di buon senso contadino. Del resto, la nonna per un uomo che è prossimo agli ottanta anni rimanda al Piemonte contadino dell’Otto-Novecento.
Solo di recente ha sfiorato il problema della pedofilia nel clero. Lo ha fatto con discrezione, quasi con difficoltà a trattare un argomento di per sé brutto, untuoso, scabroso sicuramente.
Il vero problema della Chiesa cattolica è lungi dall’essere considerato nella sua realtà e nella sua evidenza; è quello del suo dover dare ragione a chi cinquecento anni fa fece la riforma. A riflettere, la situazione di Roma è andata precipitando da quando non si volle inserire nel preambolo della Costituzione europea le radici cristiane. Non lo si volle fare nonostante le lamentele del Papa perché la Chiesa cattolica non rappresenta il cristianesimo quale si è evoluto nell’Europa fin dal Cinquecento. IL vero problema è questo. Se il cristianesimo in Europa fosse uno ed uno soltanto, le radici cristiane, peraltro innegabili, probabilmente sarebbero state accolte nel testo eurocostituzionale. Ma tra il cristianesimo cattolico, il luterano e il lefebvriano, e fermiamoci pure qui, ci sono differenze importanti sul modo di concepire i rapporti tra cittadini e Stato, tra cittadini e società. L’etica protestante, che oggi vuol dire Europa, è qualcosa di diverso dalla morale cattolica, che oggi vuol dire terzo mondo, di profondamente diverso dal tradizionalismo del vescovo Lefebvre, che oggi vuol dire medioevo.

giovedì 9 maggio 2013

Ambrosoli, un gesto rivoluzionario ed incompreso



Umberto Ambrosoli non ha inteso partecipare al minuto di raccoglimento in omaggio a Giulio Andreotti osservato martedì, sette maggio, nel Consiglio Regionale lombardo, di cui è membro, dopo essere stato battuto dal leghista Maroni per la presidenza. Non ha fatto dichiarazioni. Semplicemente si è alzato ed è uscito dall’aula. Discreto ed elegante. Solo, senza neppure che un grillino lo seguisse, per simpatia o solidarietà o per condivisione del gesto. Eppure i grillini si dicono rivoluzionari, giudici implacabili dei politici del passato e del malaffare eretto a sistema! Una buona occasione, per loro, di dimostrare una coerenza che faticano ad avere. Non uno di quella destra almirantiana e del buongoverno e dei buoni sentimenti – ma ce ne sono più in circolazione? – ha avuto parole di comprensione per quel gesto umile e nobile insieme! Ah, sì, uno c’è stato. L’ex missino e poi vicesindaco Pdl del Comune di Milano Riccardo De Corato ha espresso rispetto e comprensione. Addirittura esponenti di una certa destra, che alcuni vorrebbero democratica moderna europea, lo hanno pubblicamente stigmatizzato. Gli stessi media, storditi dagli incensi e dai peana all’illustre scomparso, hanno cercato di nasconderlo, quasi si fosse trattato di uno sproposito. Non così i tifosi di calcio negli stadi, che mercoledì sera hanno subissato di fischi il minuto di raccoglimento, considerandolo per quello che era: una provocazione.
Il gesto di Umberto Ambrosoli, nell’Italia paludata degli ipocriti, dei gommosi e sinuosi spiriti plastilinati, sempre accomodanti e politicamente corretti, è risultato rivoluzionario, ben oltre le intenzioni di chi lo ha compiuto. Tutti gli italiani perbene avrebbero ragione di apprezzarlo, non solo quelli che la criminalità politica o comune ha reso orfani.
Umberto è figlio di Giorgio Ambrosoli, ucciso nel luglio del 1979 dalla mafia di Michele Sindona. Avvocato, era stato nominato commissario liquidatore della Banca Privata Italiana e, siccome non aveva ceduto alle lusinghe e poi alle minacce di aggiustare le cose come volevano i poteri politico-mafiosi del tempo, fu ammazzato. Morte, che, secondo Andreotti, se l’era cercata. Un’affermazione orribile, fatta da un politico proverbialmente freddo e riflessivo. Chiese scusa dopo, ma le scuse sono vernice che copre il fatto, non lo rende come mai accaduto.
A sottolinearne il carattere rivoluzionario è stata la condanna espressa da Roberto Maroni, che ha definito “non elegante” il gesto compiuto da Ambrosoli. Non elegante? Ma che dizionario consulta, se lo consulta, Maroni? Invece Ambrosoli è stato elegantissimo e superbo nella sua discrezione, se si pensa che richiesto dai giornalisti sul perché di quel gesto, ha perfino detto che capisce i doveri istituzionali, l’importanza del mondo politico di celebrare uno dei suoi massimi esponenti, ma che lui è un uomo che con quel signore che si onorava con un minuto di raccoglimento aveva una storia personale, famigliare, che non gli permetteva di comportarsi diversamente. Le istituzioni sono rappresentate da uomini – ha detto – e gli uomini hanno il dovere di rispettare sì le istituzioni, ma senza mortificare se stessi nell’inviolabilità della sfera intima e famigliare. A momenti chiedeva perfino scusa per un gesto del quale invece poteva essere fiero.
Avrebbe potuto dire altro. Ci stava pure. Ma l’educazione e la compostezza di Ambrosoli evidentemente sono doti di famiglia ed egli ha lasciato al mondo politico e culturale di gestire un episodio della Repubblica che non passerà davvero tra i più edificanti.
Si dice spesso che la politica è insopportabile per essere il regno delle finzioni, delle ipocrisie, delle menzogne, degli opportunismi. Lo si dice e lo si canta in mille spartiti. Ma poi, quando si presenta un’occasione – e avviene assai raramente – per dimostrare che essa è capace anche di momenti di sincerità, di chiarezza, di verità, ecco che si torna all’usato.
Si parla tanto di lotta alla mafia, si intitolano vie e piazze alle vittime dei mafiosi, ci sono magistrati che vanno in giro a propagandare i loro libri antimafia nelle scuole; ma poi quando giunge il momento di compiere un gesto sovrano contro la mafia, allora si ricorre ai surrogati della pietas cristiana e si delega al Padreterno di provvedere dall’alto della sua giustizia.
Del resto se in Italia nulla mai veramente cambia e tutto continua nell’andazzo dei fatti e nelle ipocrisie della forma vuol dire che non c’è assolutamente nulla da fare. Viene di pensare paradossalmente che perfino la mafia esista per consentire al potere politico di vantarsi dei suoi periodici ma effimeri successi nel combatterla. Come diceva Leonardo Sciascia, a proposito dei professionisti dell’antimafia. 

lunedì 6 maggio 2013

E' morto Andreotti, divo e belzebù



La rapida successione della morte di Giulio Andreotti, avvenuta a mezzogiorno del 6 maggio, dopo quella di Agnese Borsellino del giorno prima, fa pensare che si sia affrettato a raggiungere la donna su quel tratto che ci piace immaginare che i morti facciano insieme prima di giungere alla biforcazione per prendere poi destinazioni diverse; magari per raccontarle finalmente come andarono le cose sulla morte del marito o forse per convincerla che quello che gli avrebbe detto di lì a poco Paolo non era vero. La donna era morta con la pena nel cuore per non aver saputo chi aveva deciso l’eliminazione del suo Paolo. Il personaggio mi perdonerà la battuta.
Aveva 94 anni ed è morto nel suo letto, nella sua casa romana. Che voleva di più? Secondo una sua recente battuta, morendo non si passa a miglior vita, miglior vita è restare in vita. Siamo d’accordo, ma non si può vivere in eterno; e forse è morto quando restare in vita era diventato per lui una pena insopportabile o una sovrana indifferenza.
Altri, suoi coetanei e colleghi, hanno fatto morte peggiore. Il pensiero corre ad Aldo Moro. Quando un giornalista, dopo l’uccisione del suo luogotenente siciliano Salvo Lima per mano della mafia, gli chiese se era un avvertimento per lui, rispose calmo: beh, mi pare che l’avvertimento sia da preferire.
Accusato di tutto nel corso della sua lunghissima carriera politica – 7 volte capo del governo, 22 volte ministro in quasi tutti i dicasteri – associato a vicende inquietanti, dalle quali, in linea col personaggio, è uscito mai colpevole e mai innocente, Andreotti è ricordato per tante azioni e tante battute.
Si dice che fu lui a brigare perché Moro fosse lasciato al suo destino, che era stato il mandante dell’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, che aveva favorito le spericolate manovre finanziarie del banchiere Sindona, che era stato il beneficiario della potente cupola mafiosa siciliana, che lui sapeva come e perché era morto Mattei, come e perché era morto Calvi, che era associato alla P2 di Licio Gelli e perfino alla banda della Magliana. Tutto ciò che c’è stato di male in mezzo secolo di storia italiana lo vede in mezzo. E lui non se n’è dato eccessiva pena, anzi, scrittore brillante e di raffinato humour, ha aggiustato le sue verità nei diari, pubblicati ovviamente in vita.  
Il suo bacio a Totò Rijna ha fatto dimenticare quello di Giuda e fatto passare in secondo ordine i celeberrimi dell’arte, di Hayez e di Klimt.
Fu lui, a quel che si dice, a convincere Bettino Craxi, di cui era ministro degli esteri, ad avvisare Gheddafi dell’attacco americano a Tripoli, che salvò la vita al dittatore libico. Nessun uomo politico italiano è riuscito come lui ad esercitarsi in politica in uno spazio delimitato dal realismo di Machiavelli e dal cinismo di Guicciardini come un ring, su cui ha messo al tappeto tutti i suoi avversari. Lo ha sorretto, come la rete di Sigfrido che rendeva invisibili, la sua scorza cattolica di spregiudicato peccatore, convinto che nel nome del Signore si può fare di tutto e di più. Un modo di essere in politica che trova nella sua celebre battuta “il potere logora chi non ce l’ha” la sintesi e la sublimazione della tracotanza.
La sua carriera iniziò nell’immediato dopoguerra, all’ombra di Alcide De Gasperi, di cui fu sottosegretario. In quegli anni fu visto riconciliarsi pubblicamente col maresciallo Rodolfo Graziani, che era stato capo dell’esercito di Salò. A lui interessava vincere le elezioni e qualche voticino dai fascisti certo non gli puzzava.
Da allora si può dire che sia stato ininterrottamente al governo, ora come capo ora come ministro. Per la longevità del successo e per il rispetto di cui godeva era stato battezzato Divo, predicato con cui il regista Paolo Sorrentino ha intitolato il suo film, con Toni Servillo ad interpretarlo in maniera magistrale.
Ciò detto, però, non significa che tutto il suo operato sia stato opera del diavolo. Peraltro fu battezzato anche Belzebù da Eugenio Scalfari. Erano gli anni in cui il fondatore di “Repubblica” battezzava Craxi col nome di Mackie Messer, il protagonista dell’«Opera da tre soldi» di Bertolt Brecht, e considerava il partito socialista un’autentica banda di predoni.
Diabolico era diabolico. Se non lo fosse stato non sarebbe riuscito a fottere gli americani, ai quali senza mai dare prove di tradimento faceva passare come digeribile la sua politica filoorientale. Chissà che non abbia pensato di fottere perfino il Padreterno! Se lo ha fatto, questa volta gli è andata male. Ci piace pensarlo da uomini semplici e da cittadini onesti. Per il resto, parce sepulto!

domenica 5 maggio 2013

Italia tra guerriglia politica e disagio sociale



Vero o non vero, esagerato o meno, la guerra tra centrodestra e centrosinistra è momentaneamente sospesa; perciò non facciamoci illusioni e soprattutto non scomodiamo Moro e Berlinguer. La tregua – dice Veltroni – è un’anomalia, “una fase di assoluta e inedita emergenza, dovuta all’intreccio tra una devastante crisi istituzionale e una devastante crisi sociale”. Il governo Letta non è né una formula, né una scelta virtuosa, è una necessità. (Corriere della Sera, 4 maggio). Più chiaro di così! Intanto, come in tutte le guerre di conquista, è iniziata la guerriglia sul territorio conquistato. Imu no, Imu sì. Presidenza della Convenzione a Berlusconi no…a Berlusconi sì. Renzi e Fassina, i dioscuri del Pd non vogliono che Berlusconi la presieda. Difficile dire fino a che punto siano convinti di quel che dicono, l’importante è creare scontri, dissapori, fastidi. Come quello dell’amazzone Biancofiore, la sottosegretaria dirottata per proteste delle femministe dalle Pari opportunità alla Pubblica amministrazione.
Letta raccomanda: “Siamo una squadra di governo, fate attenzione alle cose concrete e attenti alle parole”. Sembra l’allenatore juventino Conte, che prima della partita arringa i suoi: “Siamo la Juve, mi raccomando, poche parole e concretezza!”. Letta è consapevole che in Italia ci si squarta per le parole, per il cavillo. Tra ragazzi, una volta, i bisticci diventavano mazzate non quando c’erano offese concrete ma quando l’uno toccava il naso dell’altro, allora si scatenava la rissa furibonda. Sì, per una toccata di naso!
Pare che anche nella compagine governativa si cerchi la toccata di naso per mandare tutto all’aria. Anche qui il pretesto fa aggio sul motivo. Pare a chiunque che la presidenza della Convenzione sarebbe più opportuno affidarla ad una persona garante di terzietà, che onestamente Berlusconi non potrebbe essere. E chi potrebbe essere, allora, Rodotà? Speriamo che Grillo non si sogni di proporlo, sarebbe la toccata di naso temuta.
Ma la guerriglia non è solo sul territorio fisico, anche su quello mediatico, ovvero sulla rete. La Presidente della Camera Boldrini riceve insulti, ingiurie e minacce di fuoco e di schifo. Chi gliele può fare? Se volessero i carabinieri lo scoprirebbero in men che non si dica (dixit Severgnini). E perché non lo fanno?
Alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle sono stati sputtanati sulla rete con la pubblicazione di corrispondenza elettronica privata. Sarà che io col computer so appena fare uso della videoscrittura che non riesco ad immaginare come facciano questi Arsenio Lupin ad entrare nella posta privata, protetta da password a volte fantasiose e inimmaginabili, prendere le lenzuola ed esibirle come facevano una volta gli sposi novelli dopo la prima notte di nozze per rassicurare genitori e suoceri della verginità della pulzella “sacrificata”.
Qualcuno dice che cambiano i tempi e i mezzi, ma le verità del Vangelo restano: chi di spada ferisce, di spada perisce. Il Movimento 5 Stelle si è gonfiato tramite la rete. Chissà che ora altri esperti dell’arnese diabolico non trovino la valvola giusta per sgonfiarlo! Ma, così facendo, aumenta il processo di forestazione, che ormai ha inghiottito vaste zone di civiltà.
Altro aspetto di questa sempre più estesa guerriglia sociale è il proliferare di delitti non legati alla malavita. Come questi possano connettersi alla crisi che stiamo vivendo è difficile dirlo. L’esplosione di omicidi-suicidi in tutta Italia sta colpendo in particolar modo le donne, tanto che si è coniato di fresco il neologismo “femminicidio”. Ma vittime sono anche le famiglie, i figli. Sarebbe estremamente grave se queste forme di giustizia fai da te nascessero dalla sfiducia sempre più diffusa e radicata nella giustizia. Si sa che nei vuoti di potere, nell’anarchia, attecchiscono e allignano erbacce e piante infestanti di ogni tipo.
Nella mitica età dell’oro, cantata dai poeti, la prima divinità a lasciare la Terra, a significare la fine di quell’età, fu proprio Dike la dea della giustizia. In Italia, pur nella realtà dei tempi, non c’è da diversi decenni. C’è una convinzione diffusa che essa non serve a rendere ragione a chi ce l’ha, ma a premiare chi della giustizia fa un uso strumentale. Il governo Letta, che pure ha spaziato in lungo e in largo sulle cose da fare, poco o niente ha detto sulla giustizia.
Uno dopo l’altro sono in discussione in questo Paese i presupposti della vivibilità. Se vengono meno i capisaldi del contratto sociale, allora la situazione diventa davvero ingestibile. Non sappiamo, infatti, che cosa stia accadendo nel governo della mafia, in questo periodo di distrazione da parte dello Stato. Si ha motivo di temere che la tregua, questa volta forzatamente concessa alle organizzazioni criminali, possa servire alla loro riorganizzazione, dopo gli smacchi subiti negli ultimi due-tre anni.

giovedì 2 maggio 2013

Confronto su Vanini




      - Tu credi di sapere di Vanini
      ogni minima cosa,
      dalla nascita al nome,
      dagli scritti a Tolosa;

      ti senti un autentico specialista:
      non vaniniano sei, ma vaninista.

      - Vaniniano, vaninista! Non c’è
      alcuna differenza,
      di Vanini ho raggiunto
      la vera conoscenza.   

      Nessuno meglio di me al mondo intero
      conosce la sua storia e il suo pensiero.

      - Vedo che tu non dai molta importanza
      fra studiare un autore       
      o seguirne l’esempio,
      tu sei un conoscitore

      di Vanini, ma come lui non fai, 
      tu certo non ti metti nei suoi guai.
     
      - Non credo che qualcuno si sia speso
      meglio di me al Vanini,   
      io son sicuro che
      avrei fatto quattrini

      se mi fossi in altro autore impegnato.
      Ed ora son perfino sospettato?

      - Certo! Tu non ti metteresti mai
      nella sua situazione
      d’andar controcorrente;
      tu sei al baraccone

      del potere legato a fil d’acciaio,
      tu sei il frate che non lascia il saio.

      - Ma che dici? Sei tu superlegato
      al buonsenso-pensiero,
      quello che condannò
      Vanini audace e fiero.

      Tu, teocon, ateo e devoto insieme,
      impianti accuse a me davvero sceme.

      - Tant’acqua è ormai passata sotto i ponti,
      or la moda è diversa,
      il male è diventato
      il bene e viceversa:

      le idee di Vanini son dominanti,
      son del pensiero nuovo i suoni e i canti.

      - Grazie al suo coraggio, al suo sacrificio,
      ciascuno è liberato,
      i diritti cresciuti,
      l’altare è limitato:
     
      oggi nessuno è mandato all’inferno 
      in nome e per conto del Padreterno.

      - All’inferno or si va per altre idee!
      Il vero vaniniano
      di oggi è chi dissente,
      è lui l’anticristiano.

      Che vaniniano sei se all’occorrenza
      pieghi il pensiero tuo alla convenienza?
       
      - Siam tutti battezzati e cresimati
      e tutti andiamo in chiesa.
      Allor, che vuoi che sia!
      A me certo non pesa

      ogni tanto perfino praticare
      coi  preti le bazzecole d’altare.

      -  Ecco, che riveli il tuo vero volto:
      tu fotti Gesù Cristo
      e col Vanini fai
      un grande fritto misto.

      Tu sei appena appena un vaninista,
      ma più e meglio sei opportunista.

      - Allor ti dico che i parenti tuoi
      mandarono Vanini
      al rogo ed al supplizio,
      quelli di oggi affini

      gli farebbero di nuovo il servizio:
      girala pure, è questo il vostro vizio.

      - Ed io ti ribadisco che a mandare
      a morte prima Cristo
      e poi Vanini fu
      quel tribunale tristo

      al quale sei devoto e sei legato
      come a bandiera sua un buon soldato.
     
      - E’ un tribunale che ha cambiato legge,
      vige la tolleranza,
      Sinedrio e Sant’Uffizio
      non han cittadinanza:

      sono vaninista e un po’ vaniniano,
      se proprio vuoi, anche un po’ cristiano.

      - Troppe cose per uno solamente.
      Tu sembri un venditore
      d’oroscopi e fortune,
      un pio millantatore:

      chi sta col diavolo e con l’acqua santa
      non ha di che gloriarsi e non si vanta.

      - E’ del sapiente il fin la mescolanza,
      chi non sa mescolare, 
      parodiando il Marino,
      è buono per strigliare.

      Io nego Gesù Cristo e mi confesso,
      amo Vanini ma ancor più me stesso.