domenica 27 febbraio 2011

Islam all'attacco: dopo Tunisia ed Egitto, la Libia

Politici interessati ed osservatori, un po’ al seguito e un po’ ben andanti di proprio, vorrebbero far passare le rivolte nordafricane con conseguenti colpi di stato come desiderio di libertà e di democrazia di quei popoli. E’ una lettura tanto interessante quanto scontata. Gli uni e gli altri rappresentano su piani diversi la stragrande maggioranza della gente, bisogna riconoscerlo. Sono quelli che per pigrizia utilitaristica allargano la forbice mentale non prima di ieri e non oltre domani; un tre giorni, al massimo. Una valutazione che non tiene conto del passato e non vuole compromettersi sul futuro.
Ancora una volta, ad aprirci gli occhi è la nostra tradizione politica realistica, di cui abbiamo insuperati maestri, la quale invita a guardare alla storia, cioè ai fatti.
Quelle masse che si sono scatenate in Tunisia, in Egitto e in Libia contro i rispettivi governi probabilmente non hanno consapevolezza di quel che fanno. Le masse sono corpi privi di testa; la testa sta altrove. La testa ha mosso sapientemente alcuni tasti ed alcune leve e ha messo in moto quelle masse, che urlano e chiedono di migliorare le condizioni di vita, sollecitate da bisogni reali e da diritti legittimi. Lo fanno gridando libertà e democrazia, che sono valori tradizionalmente occidentali, ma che oggi, anche per colpa o merito della globalizzazione, sono diventati universali.
Ma la testa di quelle masse è l’Islam, una grande cultura, la stessa che ha capito l’Occidente cristiano ed europeo meglio, ma molto meglio di quanto non siano riusciti gli occidentali a capire l’Islam. Ha capito, per esempio, che il modello occidentale sta conquistando quelle aree, più che geografiche, umane tradizionalmente dell’Islam, che la coca cola fa più tendenza di datteri e banane, che la minigonna tenta più del burqa, che la conquista morbida del mercato e della moda è più efficace di quella violenta degli scontri armati. La reazione di questi ultimi venti anni dell’Islam, in tutte le sue declinazioni, dimostra che è in atto una guerra contro l’Occidente. Questa guerra passa attraverso numerose vie: politica, terrore, immigrazione, rivoluzione liberale e sociale, colpi di stato.
Fino a qualche anno fa, prima di Obama, negli Stati Uniti d’America, colpiti in casa da questa guerra – ricordiamo l’abbattimento delle Torri gemelle nel 2001 – ha prevalso lo scontro frontale. Con Obama, benché costui non abbia potuto fare a meno di continuare la guerra in Afghanistan, ha preso sempre più consistenza una linea diversa, tra la scelta ideologica, democrazia e libertà d’esportazione anche a quei popoli, e la resa, dettata dalla paura di uno scontro finale che avrebbe i caratteri dell’Armageddon.
L’Europa, invece, assai più ragionieristica degli americani, un po’ per concludere affari, un po’ per sincera ideologia illuministica e un po’ – diciamolo pure – per paura, si è spalancata all’invasione islamica, fino a negare le proprie radici cristiane. Affermarle avrebbe significato una messa delle cose in chiaro, di importante valenza politica. Per altro verso i governanti europei hanno più volte involontariamente suggerito una nuova tattica agli islamisti: la guerra in casa del nemico. Non dicono i nostri governanti che i soldati europei in Afghanistan tengono impegnato il nemico in casa sua impedendogli di portare attacchi a casa nostra? Ora gli islamisti la guerra ce l’hanno portata alle porte di casa; poi, ce la porteranno in casa.
L’attacco islamista all’Europa si sta dispiegando in questo inizio di anno puntando proprio sull’abbattimento di quei regimi pluridecennali ormai funzionali alla politica europea di buon fruttuoso vicinato, ma penalizzante l’islamismo. L’Islam più aggressivo vuol punire l’Islam più vecchio e flaccido; quello che si è venduto agli occidentali ed ha i forzieri stracolmi di danaro e di preziosi.
Stati Uniti ed Europa hanno risposto alle sollevazioni popolari e al rovesciamento dei regimi in maniera, come si diceva in apertura, interessante ma scontata. Ma la situazione è grave. Alcuni paesi europei – e l’Italia primo fra tutti – aveva con quei regimi, che uno dopo l’altro stanno cadendo, vitali interessi economici, per non considerare la catastrofe delle centinaia di migliaia di profughi che si riverserebbero in Italia e a questo punto sperabilmente anche in altri paesi d’Europa. Insomma, par di capire che la libertà e la democrazia di questi popoli, che agiscono manovrati da teste pensanti nemiche dell’Occidente, valgono più dei nostri interessi politici ed economici.
Se così fosse sarebbe grave, ma almeno ci sarebbe il conforto di aver dato una mano a quei popoli per avviarli verso la modernità. Purtroppo, non è così. La storia, nemmeno troppo vecchia e lontana, ci offre esempi lampanti di involuzioni clamorose.
Nel gennaio 1979 in Iran lo Scià Reza Pahlevi dovette cedere alla piazza e lasciare il suo paese. E l’Occidente che fece? Disse che quella piazza chiedeva libertà e democrazia e aiutò l’ayatollah Khomeini, amorevolmente ospitato fino ad allora in Francia, a rientrare e ad instaurare un regime teocratico tra i più duri della seconda metà del Novecento, che ancora resiste. Lo Scià aveva da qualche anno avviato una politica di riforme modernizzanti di tipo occidentale. I politici e i governanti europei di allora, democratici doc, dissero invece che la rivoluzione iraniana era democratica, che voleva liberarsi di un despota. I fatti hanno dimostrato il contrario, e cioè che il vero processo modernizzante era quello dello Scià, mentre la piazza, se pure aveva avuto mai consapevolezza di lottare per la democrazia e per la libertà, si risolse per una reazione islamista.
E’ veramente libertà e democrazia ciò che tunisini, egiziani e libici hanno chiesto per rovesciare i regimi esistenti? Lo speriamo per loro e per noi. Ma la speranza qualche volta è la maschera della paura e qualche volta della convenienza. Ricordarcelo necesse est!
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domenica 20 febbraio 2011

Fini verso la sua reale dimensione

Il cognome indurrebbe alla battutaccia, scontata, e a fare un titolo così: “La fine di Fini”. Ma onestamente non credo che Fini sia finito. E perciò la battuta me la risparmio.
La crisi che sta vivendo in questi giorni la sua formazione politica, il Fli, sicuramente è grave e darebbe ragione a chi gliela aveva divinata con largo anticipo di tempi. Continua a perdere pezzi, anche importanti. Al Senato non ha più il gruppo. Lo ha lasciato, tra gli altri, il vecchio Sen. Pontone, il suo tesoriere, quello dell’affare della casa di Montecarlo. Il che lambisce anche il Fini chiacchierato, quello della moglie, del cognato, della suocera e della famiglia allargata. Una beffa per il Presidente della Camera: si allarga la famiglia anagrafica e si assottiglia quella politica. Chiedo perdono se cedo a qualche battuta alternativa. Lo stesso fenomeno di abbandoni alla chetichella si sta verificando in periferia. Ci sono autentici e sofferti ripensamenti, ma anche opportunistici calcoli di convenienza. E’, questo, nel centrodestra, un momento di morti, di nascite e di rinascite. Vedremo quel che accadrà di qui a non molto.
Certo, lui ha sbagliato a metterla sulla solita solfa del Berlusconi che compra tutto. Non si può dire che ogni sgarbo a Berlusconi sia un atto di coraggio, quasi eroico; e ogni favore, diretto o indiretto, un atto di prostituzione politica. Né può passare senza annotazione critica il comportamento suo e di alcuni suoi fedelissimi quando di fatto essi si comportano allo stesso modo rinfacciato a Berlusconi, di decidere senza discutere e di mettere alla porta chi non ci sta.
Al di là di ogni considerazione, pur comprensibile, di malumori per cariche non ricevute – sarebbe il caso, per esempio di Urso – o per paura di non essere più rieletti, c’è un dato politico, enorme e perciò ineludibile. Il personale politico che aveva seguito Fini nell’avventura del Fli è fondamentalmente di destra, di destra vera, non di destra camuffata da modernità e da europeità, e a destra vuole restare, mentre Fini tende a tagliare in maniera definitiva con quella parte politica, per approdare su lidi opposti. Se gli dovesse riuscire – e non c’è motivo per non augurarglielo – finalmente si potrebbe parlare di lui a destra come di un avversario politico, punto e basta; senza parlare di tradimenti e di derive. Ognuno va dove vuole e chiama le cose come vuole, salvo a fare i conti con gli altri. E’ un delitto, infatti, presentarsi agli elettori con un volto politico e poi, ottenuto il voto, cambiarlo. A mio avviso un comportamento simile dovrebbe essere ascritto a reato, il dimettersi sarebbe solo un’attenuante.
Brutti colpi per lui quelli delle sue ex teste d’uovo, come una volta si chiamavano i consiglieri del leader, mi riferisco ad Alessandro Campi e a Sofia Ventura, che lo criticano per certi atteggiamenti e per certe scelte. Ma ancor più doloroso, per l’autorevolezza della provenienza, il giudizio di Piero Ignazi, studioso tra i più attrezzati dell’universo missino e postmissino. Il quale sul Corsera di venerdì, 18 febbraio, alla domanda del giornalista Andrea Garibaldi “Qual è la caratteristica del politico Fini?”, ha detto: “In una parola, direi il galleggiamento. Evita di prendere decisioni definitive. E per quelle poche che prende sbaglia il momento. Vedi l’adesione al Pdl, il suo abbandono, la sfida in Parlamento…”. Escluso che Ignazi volesse alludere al Re Travicello del Giusti: “Là là per la reggia / Dal vento portato, / Tentenna, galleggia, / E mai dello Stato / non pesca nel fondo…”, bisogna ammettere che gli somiglia molto.
Io all’analisi di Ignazi, farei una premessa. Vero che Fini “tentenna e galleggia”, ma questo accade quando pensa di valere più di quello che effettivamente vale. Davvero poteva scontrarsi con Berlusconi senza conseguenze? Fini si è sopravvalutato. Ora, però, le cose stanno diversamente. Scoppola dopo scoppola, ha capito che deve indursi a più miti consigli.
Ha capito che deve recuperare il rapporto con Adolfo Urso. Si è dimostrato accorto quando ha detto, per esempio, che le perdite di oggi possono non avere quell’importanza che potranno avere le conquiste elettorali di domani.
Perché ha ragione di dire questo, indipendentemente se le attese saranno o meno soddisfatte? Perché oggi ha a che fare con gente che è stata votata per essere e per fare cose precise all’interno di una maggioranza presieduta da Berlusconi. E’ comprensibile che questa gente, dopo una sbandata, pensi di tornare alla “diritta via”. Domani, invece, Fini si troverà con un personale votato da un altro tipo di elettorato, per essere e fare cose diverse.
Il punto semmai è un altro. Dove e con chi starà Fini domani? Per non finire Fini – chiedo scusa per l’allitterazione continua – dovrà mettersi come minimo con l’Udc di Casini e con l’Api di Rutelli, dovrà entrare cioè in una coalizione, una sorta di Ufi, dove non potrà che avere un ruolo marginale e non potrà fare quelle cose che lui dice di voler fare, perché non consone alla cultura e alla politica di un cattolico, sia pure laico, come Casini, che di quell’alleanza sarebbe il naturale capo.
A questo punto, valeva la pena abbandonare il suo mondo politico, rinunciare ad opportunità quali sarebbero state se fosse rimasto, sia pure in veste critica ma corretta, nel Pdl? Peggio ancora sarebbe per lui se fosse tentato dalla sirena Vendola, con cui, poste le ultime scelte di Fini in tema di diritti individuali, andrebbe più d’accordo.
No, non credo che Fini si stia avviando alla fine; ma sono convinto che ormai per lui è tramontata ogni possibilità di stare ad un livello politico di prestigio e di potere. Dopo venticinque anni deve accontentarsi della seconda linea. Continuerà a fare politica ma senza quella visibilità che ha avuto finora, a livello sia di partito che di governo.
E’, questo – certo – un ragionamento che potrebbe essere smentito da un qualche avvenimento straordinario e perciò imprevisto. Ma in genere i conti si fanno con le cose viste e previste. L’imprevisto, che imprevisto sarebbe se solo si potesse ipotizzarlo?
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domenica 13 febbraio 2011

Mubarak e la democrazia desnuda

Dico subito che il modo come Hosni Mubarak, Presidente della Repubblica Araba d’Egitto, è stato liquidato e come il potere è passato nelle mani dei militari è grave e preoccupante. Ha tutti i caratteri dell’amerikanata. La politica di un paese non piace? Via, quattro colpi e il cambio è fatto. Ne abbiamo viste tante in questo secondo dopoguerra. Questa volta, poi, si è passato il segno, si è nobilitata la piazza con lo spirito di Martin Luther King. Quell’Obama, prima o poi, la sceriffata l’avrebbe fatta. E se no, come si sarebbe presentato alle nuove elezioni presidenziali? L’albero e il cappio sono l’icona di tanti film western. Ci voleva qualcuno da appendere.
Quel Mubarak non mi sta simpatico, come nessuno di quei capi di repubbliche arabe che, pur disponendo di enormi risorse finanziarie, tengono i loro popoli nella miseria. Ma quel che è accaduto resta un fatto gravissimo, non solo e non tanto perché ad un atto formalmente corretto, quello delle dimissioni del presidente Mubarak, ancorché non spontaneo e anzi estorto dalle pressioni della piazza, fomentata dai governi dell’Occidente democratico, quanto e soprattutto perché è seguita una palese violazione della carta costituzionale di quel paese, la quale prevede che alle dimissioni del capo dello stato il successore è il presidente dell’assemblea del popolo.
L’ex ambasciatore, storico e osservatore politico Sergio Romano ha detto che “converrebbe, per amore di chiarezza, chiamare ciò che è accaduto con il suo nome. Stiamo applaudendo un colpo di Stato militare” (Corsera, 13 febbraio). Dunque si è trattato di un golpe.
Pur non disdegnando le problematiche politico-costituzionali, ci viene di dire che l’aspetto più preoccupante di questa vicenda è il passaggio anomalo del potere ai militari, che potrebbe produrre esiti pericolosi sia in Egitto sia in tutta l’area medio-orientale. Sappiamo che quella è l’area politicamente ed economicamente più calda del mondo, dove il minimo movimento in uno dei paesi interessati può rompere l’equilibrio dei rapporti ed innescare processi di difficile contenimento. C’è, per esempio, l’islam, c’è il Canale di Suez, c’è il petrolio. Con Mubarak al potere la situazione era sotto controllo. Che cosa accadrà ora? Ascolteranno i Fratelli mussulmani le sirene americane ed europee o quelle più famigliari dell’integralismo islamico? Né possiamo trascurare il fatto che la crisi egiziana è giunta a ridosso di quella tunisina e potrebbe precedere altre di tutta la fascia mediterranea dell’Africa. Siamo in presenza di una strategia, i cui termini per ora sfuggono o sono taciuti, pur non sottovalutando le cause più immediate che sono la mancanza di democrazia partecipativa e l’ingiusta spartizione delle risorse nazionali, che hanno ingenerato per lunghi periodi una situazione sociale di grave sofferenza.
Per tornare al caso egiziano, sarebbe stato più corretto e più prudente garantire quel che Mubarak aveva promesso: gestione pacifica della crisi, modifica della costituzione in senso più democratico, nuove elezioni a settembre e suo ritiro dalla scena politica. Invece abbiamo assistito alla benedizione del golpe, se non vogliamo proprio dire alla sua preparazione, da parte di tutte le cancellerie democratiche, dalla prima, quella appunto americana, alle altre obbedienti nel mondo e in ispecie alle europee.
Ancora una volta abbiamo assistito a metodiche di tipo massonico. La Loggia centrale detta e quelle periferiche obbediscono. Non governi, liberi e responsabili, ma logge e loggette massoniche si sono rivelati i governi europei. La tanto decantata Europa Unita ancora una volta si è rivelata un’entità politicamente astratta.
Sergio Romano, che non dimentica la prudenza diplomatica, si limita a chiedersi “perché quasi tutti i governi democratici abbiano accolto un golpe con soddisfazione”. Ma la sua risposta, secondo cui i militari garantirebbero stabilità e il popolo ha sempre ragione, non convince. E’ la prima che ha trovato, evidentemente, per non dire quello che veramente pensa. I militari sono uno strumento di ordine, garantiscono la stabilità del loro potere su ordini ricevuti. Ma se non c’è chi gli ordini glieli dia, che fanno i militari? Si auto-ordinano o obbediscono ad una carta, che resta muta se qualcuno non la legge.
Sappiamo tutti cosa possono fare i militari al potere. Ed è incredibile che i governi politici e democratici abbiano dimenticato le esperienze cilena, argentina, cambogiana e via di seguito nell’interminabile geografia delle dittature militari nel mondo.
Quanto al fatto che il popolo ha sempre ragione, occorre mettersi d’accordo. Se la volontà è espressa attraverso libere elezioni è un conto, ma se è espressa attraverso la furia anarcoide e bestiale, quale abbiamo pure visto in Egitto nei giorni di più aspra contestazione, con l’assalto perfino al Museo, è un altro. Questo potrebbe suggerire analoghe soluzioni, diventare una moda. Qualche idiota nostrano lo ha addirittura auspicato per l'Italia; come a dire mubarakizzare Berlusconi.
La fine traumatica di ogni potere – e non si vede perché il caso egiziano debba essere diverso – produce periodi di anarchia e di disordine, nel corso dei quali c’è lo scannamento delle parti per assicurarsi il potere, con l’incognita che quel che segue può essere peggio di quel che c’era prima. Il caso iraniano, con la fine della monarchia dello Scià e il ritorno di Komeini, avrebbe dovuto indurre i capi dell’Occidente, cosiddetto libero e democratico, a maggiore prudenza. O c’è ancora chi crede che l’Iran degli Hayatollah e dell’attuale presidente Acmadinejad sia da preferire a quello dello Scià Reza Palahvi? Domanda che vale tanto per le condizioni interne di quel paese quanto per le condizioni di tutta l’area medio-orientale.
Ora già siamo noi a subire le prime e immediate conseguenze. Migliaia di profughi si stanno riversando sulle nostre coste, producendo una situazione di emergenza umanitaria, con quel che seguirà a breve.
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domenica 6 febbraio 2011

Amici di destra, ripensiamoci!

Berlusconi deve o non deve, prima o poi, lasciare? E’ una domanda che a destra ci si pone in maniera sempre più incalzante. Si tratta di trasformarla da muta in sonora. La nostra opinione è che deve lasciare. Non tanto per ragioni politiche, che in parte possono essere condivise e in parte no, quanto per ragioni complessivamente di opportunità nazionale.
Anzitutto la destra da cui parliamo e a cui ci rivolgiamo è quella ex missina ed ex aennina; anzi, per essere precisi, è il radicalismo di destra, quello che una volta faceva capo a Rauti. La nostra storia ci obbliga a non dimenticare i nostri padri e le nostre vicende patrie. Non è nostalgismo, ma consapevolezza che dietro le scelte ci sono sempre valori da difendere ed obiettivi da raggiungere.
Non siamo stati mai dell’avviso che le idee politiche siano come i vestiti che indossiamo e che cambiamo col cambiar delle stagioni e col cambiar delle mode. Per questo non abbiamo condiviso il modo come nel 1995 si chiuse un glorioso partito il Msi e si diede vita ad An, che pur conservava qualcosa della precedente esperienza. E meno ancora abbiamo condiviso lo scioglimento nel 2008 di An nel Popolo della Libertà, che di fatto ha precluso qualsiasi presenza politica, non tanto di uomini, quelli ci sono, quanto di idee a livello di governo.
La fase che stiamo attraversando è di confusione, ma non di smarrimento. Ci auguriamo, pertanto, una riorganizzazione, per ripartire finalmente sui nostri abbandonati binari. Per questo ci vuole un leader, che al momento neppure si intravede. Purtroppo!
Quello che c’era e che rappresentava la destra, per la lunga marcia effettuata, Gianfranco Fini, si è miseramente suicidato, con comportamenti non meno gravi, sotto il profilo politico ed etico, di quelli di Berlusconi. Ricordiamo a tutti, ed ai preti in particolare, che i vizi capitali sono sette, non uno. Alcune scelte ed alcune azioni di Fini hanno immiserito l’uomo e delegittimato il politico. Il suo trasformismo in direzione liberalradicale ha tradito la sua e la nostra storia ed ha rivelato un uomo arrogante e cinico, che ha una visione medievale della politica, in cui il capo fa e disfa e gli altri lo seguono. Il tradimento nei confronti degli elettori che lo avevano votato dimostra come l’uomo non ha seri convincimenti politici ed opera a seconda delle sue convenienze di carriera, convinto che solo i leader hanno una coscienza mentre i cittadini elettori no. Il suo cambiamento di schieramento e di programma ha svalutato e svuotato di significato il voto che è l’espressione stessa della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Lo scarso senso delle istituzioni che ha dimostrato rimanendo incollato ad una carica che lui non è più oggettivamente in grado di onorare nella sua istituzionalità, ha dimostrato che l’uomo è culturalmente rozzo ed intimamente dispotico e prepotente. Il modo come ha alienato a beneficio del cognato una casa, che una generosa signora aveva donato al partito “per la giusta causa”, lo ha rivelato un meschino profittatore di quart’ordine o un povero turlupinato da osteria. Credere ancora in quest’uomo vuol dire essere allo sbando spirituale e mentale prima ancora che politico. Ma la sua uscita di scena pone seri problemi di leadership alla parte politica che rappresentava, ossia alla destra, cui sentiamo di appartenere.
Per noi la giustizia, l’etica, la legalità, il decoro sono valori non negoziabili, qualunque sia la stagione. Lo Stato, la Nazione e la Società sono le grandi sintesi che devono guidarci nell’operare quotidiano sia nel nostro esercizio professionale sia nel nostro agire politico. La nostra vita privata non deve in alcun modo condizionare quella pubblica. Non abbiamo mai creduto negli effetti benefici del tramonto delle ideologie; anzi ne vediamo gli effetti devastanti prodotti a tutti i livelli, anche in quelli non sospettati. Assistiamo ad una deriva antropologica da lambire scenari biblici.
Amiamo la libertà, ma non siamo liberali. Crediamo nella iniziativa privata ma siamo fermamente convinti che il ruolo dello Stato, specialmente in alcuni settori vitali per la nazione e per la società, non sia surrogabile. Ci riconosciamo nell’art. 41 della Costituzione, che riteniamo sia di preziosa irrinunciabile impostazione sociale. Nessuna impresa privata può essere tollerata se produce manifestamente danno sociale e mette a repentaglio la sicurezza dei cittadini.
Berlusconi deve lasciare perché i suoi comportamenti privati non sono assolutamente tollerabili, non solo nel merito ma anche e soprattutto per gli effetti collaterali, per quel che creano nel paese e nel mondo. Pur riconoscendo che la magistratura, in questi ultimi sedici anni, è stato il braccio giudiziario dell’opposizione o come tale si è comportata, riteniamo che la condanna nei suoi confronti debba essere assoluta e inappellabile. E se pure, ancora una volta, Berlusconi dovesse dimostrare di aver ragione dei giudici “politicizzati”, noi dobbiamo andare avanti sul piano politico a far sì che se ne vada e lasci la conduzione a persone più credibili e più presentabili. Non ultimo dei danni provocati, infatti, è che in Italia abbiamo una magistratura politicizzata e un Presidente del Consiglio giudiziarizzato.
Ma se è certo che debba lasciare è altrettanto certo che ciò deve accadere in maniera naturale, attraverso un passaggio elettorale e previa preparazione di una successione. I cambiamenti rapidi e traumatici portano male. E’ grave che i tanti leader dell’opposizione non l’abbiano capito. Il Paese ha bisogno sempre e in ogni circostanza di un governo. Il peggiore governo, il più tirannico, è sempre meglio della vacatio che produce disordine ed anarchia.
La destra, cui ci pregiamo di appartenere, non può – non è realistico pensarlo – assumere da sola la guida di una maggioranza tale da esprimere un esecutivo coeso. Ce ne rendiamo conto. La stagione missina, relegandoci fuori del sistema, ci esimeva dal problema di inserimenti e di alleanze. Oggi sappiamo che alla guida del Paese possiamo arrivare con altri, che con noi condividono solo alcune cose. Quel che è importante è che la nostra politica non dimentichi di far valere le nostre istanze nelle sedi decisionali. Esse erano, sono e saranno sempre di una concezione politica in cui l’iniziativa privata venga favorita ma sempre negli interessi superiori dello Stato, della Nazione e della Società; che il merito venga premiato compatibilmente con la soddisfazione dei bisogni; che la libertà venga sempre dopo la legge, come una volta si leggeva nei manifesti col bando di arruolamento nella Polizia di Stato, quando era un corpo militarizzato: Sub lege libertas! Che non è una deminutio di libertà, ma la consapevolezza che la legge è condizione di libertà.
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