sabato 30 settembre 2023

Ma commuoversi è di destra o di sinistra?

Va a finire che il generale Vannacci diventa proverbiale e va ad associarsi ad altri ben più illustri che hanno detto che il mondo va alla rovescia. Torquato Tasso definiva il mondo una gabbia di matti. Non diversamente Vanini. Due autori che vivevano la crisi del rinascimento e sentivano le stravaganze del barocco. E noi? Noi ci dobbiamo uniformare. Non ci resta altro da fare. Niente sforzi, del resto; anche noi siamo in una sorta di barocco politico e culturale fino alla gola, anche noi viviamo una crisi di valori senza precedenti. E che sono se non gabbie di matti gli studi televisivi dove tutte le sere si azzuffano senza ritegno giornalisti e intellettuali, politici e gente comune sui più svariati temi del giorno? Perfino politici seri e composti sono diventati personaggi da circo equestre, che cercano di affogare gli avversari nella gora dei loro sbraiti. È bastato un innocuo spot pubblicitario, con una bambina che cerca di rimettere insieme i genitori separati con un ingenuo atto d’amore, ben fatto come spesso accade ad alcune pubblicità, per scatenare polemiche e dibattiti. Ma invece di apprezzare la positività del messaggio e la sua bellezza propositiva, la bravura del regista e degli autori che lo hanno realizzato, l’hanno messa sull’essere di destra e l’essere di sinistra, chi esce meglio dallo spot la donna o l’uomo, fino ad arrivare a sostenere che la bambina è più vicina al padre più affettuoso che alla madre più severa. A dibattito aperto è intervenuta perfino la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che lo ha definito per quello che è: bello e toccante. Apriti cielo! La dimostrazione che è uno spot di destra, hanno gridato a sinistra, accreditando l’idea che ci siano spot di destra e spot di sinistra. Questa ci mancava! Siamo tornati alla doccia e alla vasca per stabilire se l’uso dell’una o dell’altra per lavarsi è di destra o di sinistra. Come si chiedeva Giorgio Gaber qualche anno fa. Qualcuno, a sinistra sempre, si è spinto fino a dire che quello spot è un’entrata a gamba tesa, una sgrammaticatura, una cosa che non si fa. Bisogna subito correre ai ripari con un bello spot pubblicitario di sinistra per pareggiare i conti. Sembra che a sinistra non abbiano altro da fare che cercare il pelo nell’uovo per denunciare le sgrammaticature degli esponenti di destra, che, a dire il vero non si fanno pregare nell’elargire campioni di spropositi. Torniamo nella normalità se ci riesce. Lo spot della pesca, come lo chiamano, è bello perché “vero”, perché non c’è bambino o bambina che non soffra quando i genitori si separano. È l’occasione che fa riflettere quanti si trovano nelle condizioni di separati sul male che fanno ai figli, specialmente se piccoli, sulle loro sofferenze. I bambini considerano la separazione dei genitori come un’ingiustizia, una condanna che non sanno da dove provenga e perché. Sempre meglio che assistere a scenate, litigi e zuffe, si obietta. I bambini crescono meglio coi genitori separati piuttosto che coi genitori uniti ma in continue violenze domestiche. È una materia delicata e complessa, probabilmente non ci sono formule risolutrici. Certo, se come oggi purtroppo accade sempre più spesso, le liti si traformano in fatti di sangue, è preferibile la separazione; ma se le separazioni avvengono ai primi dissensi, anche questo purtroppo accade sempre più spesso, allora si commette un’ingiustizia nei confronti dei figli, i quali, piaccia o non piaccia a destra o a sinistra, hanno bisogno di entrambi i genitori. Di più quando sono bambini, che sentono i genitori come beni di loro esclusivo possesso e non concepiscono che il papà o la mamma si allontanino o che qualcuno se li prenda. Purtroppo viviamo una stagione di stravaganze, di eccessi, di rovesciamenti concettuali. L’ideologismo mette il naso dappertutto. Il buonsenso è negativo, è da evitare, specialmente se mette in discussione gli assiomi di una certa cultura. Abbiamo smarrito il senso delle cose, per cui una ovvietà come la raccomandazione di un genitore alla figlia o al figlio che la sera esce di casa di riguardarsi per non incappare in qualche guaio diventa una cosa negativa. La dicotomia tra il sentimento protettivo di un figlio e l’obbedienza ideologica ad un principio, in privato pende sul bene del figlio, in pubblico sul totem dell’ideologia. La storia non ha insegnato nulla. L’illuminismo diceva tre secoli fa che siamo tutti uguali. Ancora oggi siamo alle prese con le diseguaglianze, ma intanto continuiamo a dire che siamo tutti uguali, anzi ne siamo più convinti, mentre tra l’essere e il credere di essere c’è la realtà delle cose.

sabato 23 settembre 2023

Putin e il tentato femminicidio dell'Ucraina

Non sono più i tempi all’Onu di Nikita Kruscev, quando il leader russo per protesta sbatteva la scarpa sul tavolo. Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a Washington, giorni fa, i due antagonisti più antagonisti di oggi, il russo ministro degli esteri Sergej Lavrov e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky hanno preferito ignorarsi. Quando uno parlava, l’altro non c’era. Ed entrambi le scarpe se le sono tenute ben allacciate ai piedi. Ovviamente si sono lanciate reciproche accuse, che conosciamo da più di un anno, da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Gli altri a tifare, chi per l’uno e chi per l’altro e chi in attesa che prima o poi qualcosa di decisivo accada. La Russia, invadendo l’Ucraina, ha commesso un crimine e un errore. Un crimine perché è lampante la sua azione delittuosa. L’Ucraina, che nel 1994 (Memorandum di Budapest) aveva rinunciato al nucleare per essere garantita anche dalla Russia in caso di bisogno, è stata aggredita proprio dalla Russia. Una sorta di femminicidio a livello planetario. A un certo punto l’Ucraina non ne ha voluto sapere più di stare con Putin per avere più stretti e proficui rapporti con l’Europa e la Nato. E Putin che ha fatto? L’ha “accoltellata”. È così lapalissiana la situazione che non si capisce come anche nel nostro Paese ci sia chi tiene per la Russia, anche se non lo dice esplicitamente. Si pensi all’ultimo messaggio lanciato da papa Francesco ai giovani russi a Sanpietroburgo, in cui faceva l’elogio della grande madre Russia maestra di civiltà. Si pensi ai pacifisti, quasi mai pacieri, i quali intervengono tra i due contendenti e più che tenere fermo l’aggressore vorrebbero tenere fermo l’aggredito. Così fanno i Cinquestelle e i loro amici della stampa e dell’intellighenzia. Ma è stato anche un errore, come si diceva, perché tutti i piani russi di fare in quattro e quattr’otto polpette dell’Ucraina sono saltati, un po’ per la resistenza eroica del popolo ucraino e molto per l’aiuto che all’Ucraina è stato fornito dall’Occidente, europeo e americano. L’aggressione russa che voleva tenere lontano dalla Nato un suo confinante ha sortito l’effetto opposto, l’ha maggiormente avvicinato. Non solo, ma due paesi storicamente neutrali, come Svezia e Finlandia, si sono spaventati e hanno chiesto di entrare nella Nato, facendo crescere il numero dei paesi vicini e confinanti con la Russia, che Putin considera “assedianti” del suo Paese. Putin si è infilato in un tunnel dal quale gli costerà molto uscire. Se dovesse riuscire, abbandonando ogni parte di territorio ucraino occupato come gli ucraini costantemente dicono, sarebbe per lui il meno danno possibile. Esito, questo, piuttosto remoto. Come remoto appare che gli ucraini rinuncino a parte del loro territorio. Perdere dei territori rivendicati come propri ci può pure stare, ma perdere perfino la faccia no. Ovvio che si ragiona sul presente e su ciò che si vede e si sente; il che non basta a capire e meno ancora a prevedere come andrà a finire. Purtroppo la situazione va sempre più complicandosi a danno anche del fronte antirusso. La Polonia ha detto di non avere più armi da dare all’Ucraina, che quelle che ha servono a lei. Al momento non si sa che cosa accadrà negli Stati Uniti alle prossime elezioni presidenziali. Potrebbe essere eletto nuovamente Trump, che, come si sa, non è affatto ostile a Mosca come lo sono Biden e i suoi alleati europei. Ma anche in Europa molte cose potrebbero cambiare e alterare l’attuale schieramento in favore dell’Ucraina. L’Europa ha tutto da perdere da questa guerra. Le critiche interne ai vari paesi europei potrebbero prendere il sopravvento. Perfino in Italia potrebbe crescere il fronte pro Putin, non tanto perché i “putiniani” italiani gli riconoscono qualche ragione, ma perché, essendo il russo più forte, pensano che possa dipendere da lui la fine delle ostilità. A nessuno in Europa dispiacerebbe che la guerra finisse con dei compromessi fra i due contendenti. Al momento, perciò, il protrarsi del conflitto gioca in favore di Putin, che potrebbe sperare in un cambiamento delle geografie politiche. La pace, da tutti invocata, ma da nessuno perseguita, è assai lontana dall’orizzonte. Finora solo parole, mentre le parti in causa sono più radicalizzate di quanto non lo fossero agli inizi, perché un anno e passa di guerra ha avvelenato ancor più gli animi.

sabato 16 settembre 2023

Perché negro e non nero

Lunedì sera, 11 settembre, su La 7, dopo la pausa estiva, è tornata la Gruber col suo “Otto e mezzo”. Per l’occasione la conduttrice sudtirolese – lei ci tiene che si sappiano le sue origini etniche – aveva messo in campo i pezzi forti del suo team: Pierluigi Bersani e Giovanni Floris, campioni da sempre dell’antiberlusconismo, dell’antimelonismo, dell’antidestra. A reggere il confronto Alessandro Giuli, un perfetto gentlemen della destra più raffinata, uno che si fa tagliare la lingua piuttosto che offendere l’altro. Li vedremo e sentiremo chissà quante altre volte ancora nel corso della nuova stagione discettare su tutto lo scibile umano, con la presenza di tanto in tanto del filosofo scompigliatore Massimo Cacciari e del puntuto collega Italo Bocchino. Bersani, formidabile inventore di metafore, sosteneva che un “negro” va chiamato nero e non negro, per il rispetto che gli si deve in quanto persona umana, perché negro è offensivo e significa schiavo, dato che i negri negli Stati Uniti d’America per un periodo della loro storia sono stati schiavi. Mi permetto di dissentire. Anzitutto la comunicazione deve rispondere a criteri oggettivi di immediatezza ed economicità. Per questo non bisogna usare parole dai significati molteplici o generici ma quelle che hanno un significato preciso, unico o prevalente. Si chiama proprietà di linguaggio. Se uno va a comprare dei piselli non si rivolge al bottegaio chiedendogli dei legumi o ancor più genericamente qualcosa da mangiare ma gli chiede dei piselli e se di questi ci sono più varietà ne indica il nome con una sola parola. Per indicare una persona di colore si dice perciò negro o negra e non nero o nera. Con negro si indica una persona, con nero si indica un colore. Ridurre una persona al solo colore della sua pelle è davvero come svilirla, deprivarla della sua dimensione umana e della sua storia. Che nei tempi di un popolo ci siano periodi negativi e periodi positivi, fortunati e sfortunati, è ovvio. Gli ebrei lo insegnano con la loro storia millenaria, ora schiavi degli egizi ora signori in casa propria e nel mondo. Un popolo che si rispetti si assume la responsabilità di tutto né si vergogna di qualcosa mentre s’inorgoglisce per altre. Una persona va indicata con tutto ciò che essa rappresenta. Se si omette deliberatamente qualcosa si commette un errore di occultamento di significato. Un negro chiamato nero è una persona senza identità, senza storia. La parola negro secondo il vocabolario Treccani deriva dal latino niger ed è così definita: “Che appartiene alle popolazioni nere, viventi per lo più in Africa e in poche regioni dell’Asia”. Fig. “Schiavo, con riferimento alle condizioni di schiavitù cui furono sottoposti molti africani soprattutto in America e in Africa”. Sin. nero. Significa che se si preferisce chiamare nero un negro si usa il sinonimo al posto del nome suo proprio. Il che non è opportuno. Restano le considerazioni sui derivati della parola, per cui negretto o negretta diventerebbero neretto e neretta. Si obietta che si potrebbe dire bambino nero e bambina nera. Ma in questo caso si spendono due parole invece di una, che è contro il principio dell’economicità comunicativa. Ma perché tutto questo battagliare su una parola che non ha niente di particolare rispetto ad altre? Perché – dicono i sostenitori dei neri e non dei negri – il politicamente corretto lo esige. La parola ha in sé qualcosa di offensivo, potendo appunto significare schiavo. Si sa che questa parola è entrata, sempre con significato negativo, in tanti modi di dire, fra cui lavorare come un negro. Negli ambienti letterari il negro è chi scrive un testo al posto di chi poi se ne dice autore. Insomma uno che lavora a beneficio di un altro. Tutto questo è vero, ma non basta o non c’entra a far cambiare la lingua. È di tutta evidenza che uno non può rivolgersi direttamente ad un negro dicendogli “ehi negro”. Questa sì che sarebbe offesa, ma altrettanto offensivo sarebbe dire “ehi, italiano” o “ehi, tedesco”, specialmente se lo si pronuncia con tono perentorio o allusivo a qualcosa di negativo. Va da sé che ad una persona ci si rivolge sempre gentilmente chiamandola signore o signora, siano essi neri o bianchi, gialli o rossi. Quanto ai negri, si ha il sospetto che chiamandoli neri si voglia solo riconoscere un avanzamento sociale nella non ancora del tutto risolta questione razziale. Tanto accade – e la parola negro non è il solo caso – perché i politici vogliono piegare tutto alle loro ideologie. E non si tirano indietro neppure nel dare i numeri a Pitagora o i triangoli a Euclide.

sabato 9 settembre 2023

L'offensiva anticriminosa del governo e il signor Benaltro

Di fronte all’ampliarsi e all’aggravarsi della delinquenza e della criminalità un governo di destra che si rispetti non può rispondere che con una offensiva forte e intimidatoria. Così ha fatto il governo Meloni, mettendo in campo in Campania e in Calabria centinaia di uomini dei Carabinieri, della Polizia e della Guardia di Finanza. Ed ha promesso, per bocca del suo ministro degli Interni Piantedosi, che altrettanto farà non episodicamente ma sistematicamente in tutto il territorio nazionale. Lo scopo è di rendere vivibili le periferie di molte nostre città e alcuni luoghi delle stesse, come le stazioni e i porti, ricettacoli tradizionali di ogni genere di reati; far sì che il cittadino possa circolare senza il rischio di correre dei pericoli. I risultati sul piano materiale non sono stati eccezionali: pochi arresti, pochi sequestri, modesta quantità di roba recuperata tra droga e denaro. Si ha il sospetto che gli “interessati” lo sapessero e si fossero preparati all’occorrenza. Cosa non improbabile. Le guerre non si vincono e non si perdono solo sul campo. Si potrebbe dire scespirianamente “tanto rumore per nulla”. Ma non è così. I risultati si sono visti e comunque gli effetti che seguiranno potrebbero essere ben più importanti. Certo, se tutto dovesse esaurirsi a Caivano, sarebbe il solito buco nell’acqua. L’azione del governo, perciò, non si è esaurita manu militari, è andata oltre con un decreto legge che prende di petto la delinquenza minorile e la violenza sulle donne e ha fatto uscire in campo studiosi ed esperti che hanno condannato il buonismo e il perdonismo, di che sono impregnate molte nostre leggi e soprattutto le sentenze dei giudici, che, come spesso accade in Italia non smettono di sorprendere per la loro sconcertante remissività. L’effetto più importante è creare nel Paese un nuovo pensiero comune che renda sempre vigile l’azione dello Stato in ogni sua ramificazione. Un periodo lungo di durata di politica interventista potrebbe far maturare nei cittadini una sensibilità nuova, quella di sentirsi partecipi dell’azione dello Stato, come accade in gran parte dei paesi europei. Dove un cittadino una mala azione non la compie perché teme che un poliziotto lo sorprenda ma per la forza del poliziotto che ha in sé, come parte integrante della sua etica. Chi gli impedisce di delinquere è quella voce di legalità che gli parla dentro. Le opposizioni, in verità, questa volta non hanno emulato le oche del Campidoglio, pur di fronte a provvedimenti legislativi seri e pesanti. Tuttavia se ne sono uscite con le solite considerazioni: le misure del governo non risolvono i problemi, non bastano, ci vuole ben altro. È venuto fuori il solito signor Benaltro, per concludere: meno poliziotti e più educatori. Come da sempre parla il pedagogismo sociale. Fatta salva la necessità dell’opposizione di difendere la propria ragione politica, che è di diventare maggioranza e sostituire l’attuale governo, e dunque di non attestarsi sulle stesse sue posizioni, ancorché palesemente inderogabili, essa non può non riconoscere il fallimento di un modello educativo, che, basato su un eccessivo e acritico buonismo, ha prodotto le situazioni che vediamo nel nostro Paese, dalla famiglia alla scuola, alla società. Ci vuole ben altro. Certo. Si può senz’altro essere d’accordo sul ben altro. Non si può dire che il provvedimento adottato dal governo Meloni sia il massimo e che ne escluda ogni altro, ma, a fronte del nulla sistematico ereditato che ha aggravato la situazione, quanto è stato messo in essere può dare il via ad una svolta. Don Patriciello, il prete del Parco Verde di Caivano, da dove tutto ha avuto inizio, questo ha cercato di mettere in evidenza. Ci sono momenti in cui è necessario intervenire con la forza e con l’inasprimento delle pene e, ovviamente, non smettere di coltivare l’azione educativa. Le cose accadute a Caivano, gli episodi criminosi dell’uccisione del giovane musicista Cutolo a Napoli, dello stillicidio dei femminicidi, punte di una criminalità che fa passare altre forme di crimini e reati, anche gravi, come fatti di normale amministrazione, richiedeva una risposta dello Stato. Altri dell’opposizione hanno voluto evidenziare la necessità per il governo Meloni di risarcire con quest’atto di forza il suo elettorato, deluso dal fallimento della politica migratoria, su cui tanto aveva detto in campagna elettorale. C’è anche questo, evidentemente, nel dibattito ci sta; ma quel che conta è il valore che ha in sé il provvedimento. E dovremmo sperare tutti che sia producente.

sabato 2 settembre 2023

Destra: non si può avere tutto

Mi piacerebbe chiedere a Giorgia Meloni – se non fosse fantagiornalismo! – due-tre cose. Che cosa direbbe se lei fosse all’opposizione su quanto sta accadendo in Italia nel mondo della politica e del governo, immaginando che vi fosse la Schlein o Renzi o Calenda o Conte a Palazzo Chigi. È un esercizio mentale, il mio, scontato ma parimenti interessante. Un esercizio, che, peraltro, viene fatto dai suoi oppositori, quando propongono alcune sue performance di quando era realmente all’opposizione per confrontarle con alcune prese di posizioni di oggi che la vedono protagonista in maggioranza e, a quel che si dice, ben salda in sella. In particolare le chiederei che cosa direbbe sulla situazione dei migranti, quelli che lei prometteva di chiudere nei porti d’imbarco con il blocco navale. Nei circa dieci anni di vita di Fratelli d’Italia Meloni ci ha convinti che è in corso una vera invasione del nostro Paese, mentre paventava in prospettiva una sostituzione etnica e un pericolo di irrimediabile contaminazione della civiltà italiana. Vediamo che in dieci mesi di governo di destra i migranti sono più che raddoppiati rispetto all’anno precedente e lo spettacolo che offrono alla gente gli sbarchi è che l’invasione continua ancor più di prima e peggio di prima. Un’invasione che non viene solo dal mare, ma anche dalle frontiere nordorientali del Paese, come ha allarmato il Sindaco di Trieste in questi giorni. Ora, che il blocco navale non fosse possibile lo si è sempre saputo, anche se la Meloni precisava che sarebbe stato possibile col consenso dei paesi rivieraschi nostri dirimpettai e “fornitori” di migranti. Insomma, un blocco convenuto. Gli accordi col presidente tunisino Saïed, però, non hanno funzionato, nonostante i soldi elargiti e le visite in pompa magna con la presidente della Commissione Europea Von der Leyen e il presidente olandese Rutte. E del resto lo stesso presidente tunisino ha detto che non avrebbe fatto il guardiano delle sue coste per impedire ai migranti di partire, rivelando anche, al di là delle maniere di facciata, di non averci in simpatia. A quanto pare per i migranti non c’è niente da fare. Li dobbiamo accogliere, perché così vuole l’Europa. E dei rapporti con essa, secondo quanto prometteva la Meloni, che si è fatto? Ecco, è questa la seconda domanda che le farei, perché questa questione si collega alla precedente. Ho paura che la risposta sarebbe che non si può aver tutto dalla vita. O l’appoggio dell’Europa o il contenimento dei migranti, dall’Europa “protetti”. Meloni ha scelto la prima, mentre la seconda è caduta di conseguenza. Nel momento in cui la Meloni fa una politica filoeuropeistica, prendendo anche le distanze qualche volta dai suoi vecchi amici di Visegrad, non può poi respingere o contenere i migranti. È imbarazzante sentire i ministri del governo quando piatiscono la comprensione e qualche aiuto dall’Europa, esattamente come facevano i ministri loro predecessori. Intanto dal governo si affaccia la tesi della indispensabilità dei migranti per mantenere in salute il nostro sistema socio-economico, così introducendo, senza dirlo esplicitamente, il concetto di sostituzione, se non etnica, lavorativa e contributiva. Dicono: siccome in Italia mancano lavoratori, disposti a svolgere mansioni di manovalanza, occorre sostituirli coi migranti, che invece sono disposti, i quali col loro lavoro garantiscono produttività alle imprese e coi loro contributi la pensione agli anziani. Anche qui aut aut: o produttività e pensioni assicurate dai migranti o la difesa della nazione dagli stessi. Sembra che da queste forbici non si esca incolumi. Intanto la ripresa della politica, dopo la pausa estiva, ci ha regalato un’altra perla, in parte nota. La sorella di Giorgia Meloni, Arianna, moglie del Ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, è stata nominata capo della segreteria politica del partito, in coppia diarchica col coordinatore nazionale Donzelli. Non è una bella trovata. E che direbbe Giorgia Meloni se la cosa fosse accaduta in casa d’altri? Si dirà, Arianna Meloni non può essere dimezzata perché c’è la sorella ai vertici del partito e del governo e il marito ministro; ha tutti i diritti di realizzarsi per se stessa e per quello che vale. Giusto, se la cosa fosse liquidabile in sé. Ma non possiamo tacere sul fatto che quanto meno è una cosa sconveniente che un Paese come l’Italia finisca nelle mani di un gruppo famigliare. Non si fa una bella figura. In casi del genere qualcuno deve sacrificarsi e farsene una ragione. Torna il principio, secondo cui non si può avere tutto.