domenica 31 agosto 2014

Multiculturalismo o difesa della propria cultura?


Se uno ogni tanto trasecola vuol dire che è un individuo trasecolabile? Non lo so, so che io sono uno che trasecola. Non ne meno vanto, ma neppure mi abbatto. Colgo l’aspetto buono, che è di avvertire il pericolo quando sta per arrivare.
Io il pericolo islamista l’ho avvertito, come tanti altri in Italia e nel mondo, anche se molti fanno finta di non avvedersene. Una volta da noi si diceva che non si crede al santo finché non se ne vede la festa; ora la festa è arrivata.  Ce n’è altra di gente, che, per partito preso, continua a dire che c’è un Islam buono e un Islam cattivo e che per quello buono dobbiamo prendere le legnate da quello cattivo.
Fuori dalle celie, mi chiedo: come si fa di fronte alla minaccia concreta, che ormai riguarda l’intero pianeta, da parte dell’islamismo radicale, uscirsene coi soliti distinguo: ma la civiltà islamica, la vera, non vuole la guerra, non vuole l’egemonia, non vuole la prevaricazione; è invece per la pace, per l’incontro, per la collaborazione, per il vivi e lascia vivere? Dicevo, come si fa, quando ci sono nel mondo, in zone caldissime, focolai di guerre con scene di esecuzioni di massa, di raccapriccianti singoli sgozzamenti, con reclutamento nei paesi occidentali, ormai in preda ad una classe dirigente ideologicamente rimbambita, di terroristi pronti a morire per il Jihad? Mi viene alla mente l’immagine plastica di Cassius Clay, di quel grandissimo pugile, peraltro divenuto musulmano col nome di Muhammad Alì, che, mentre prendeva sassate micidiali in faccia dal suo avversario Joe Frazier, rivolto al pubblico continuava a far segni come per dire: no, non è niente, sono carezze. Finì al tappeto. E dopo è finito peggio.
Certo, non è elegante attaccare chi per anni ha predicato la cultura meridiana del vogliamoci tutti bene perché è nel bene che si coltiva il progresso, lo sviluppo, la pace; quella pace che è da sempre nel nostro dna – dicono. Come se il Mediterraneo non fosse stato nei millenni un mare di guerre, di scontri armati epocali! E, certamente, anche di pace. No, non è stato elegante Gianni Donno sul “Corriere del Mezzogiorno” del 28 scorso, quando con stringenti argomentazioni ha invitato i meridianisti del multiculturalismo, presente financo – dicono loro – nel mosaico della Cattedrale di Otranto, a darsi con la pietra in petto. E ha dimostrato di avere la coda di paglia e poche idee Onofrio Romano, che sullo stesso giornale, il giorno dopo, ha usato frasi tanto vuote quanto sprezzanti nei confronti di chi dice: signori, basta con le chiacchiere, qui siamo in piena aggressione islamista, non potete continuare a dire che l’Islam è per la pace quando bande di milizie armate in alcuni territori arabi si abbandonano a stragi orripilanti, ad esecuzioni spettacolari e raccapriccianti, quando la pancia dei paesi di civiltà giudaico-cristiana è piena di terroristi islamici.
Non è tutto l’Islam responsabile? E chi dice che è tutto l’Islam? Si rifletta sul visconte dimezzato di Italo Calvino: in ogni uomo una metà è buona e una cattiva. In ognuno si può risvegliare la parte cattiva e magari un povero migrante raccolto in mare e salvato, e in un primo momento sinceramente grato a chi lo ha salvato, può benissimo sentirsi emergere dentro l’islamista malvagio fino ad allora dormiente. Non è malanimo vedere in ogni buon uomo islamico in atto un terrorista islamico in potenza. Gli esempi quanto meno ci inducono a riflettere.
La nostra storia ci ha insegnato che ci sono periodi di pace e periodi di guerra. Il tempio di Giano si apriva e si chiudeva a seconda se c’era in corso una guerra o se si trascorreva un periodo di pace. E il leone di San Marco non aveva ora il libro ora la spada? Significa che nella nostra millenaria civiltà non c’è persona che non ami la pace, ma quando arriva il momento del difendersi o soccombere, allora occorre combattere. Non è peccato, non è reato: è un diritto naturale, che dall’individuo si trasferisce ad un popolo, ad una civiltà.  
Il problema che si pone oggi è di assumere comportamenti consequenziali all’emergenza in atto. Serve poco esibire la propria cultura, la propria erudizione, per non dire nulla o solo per dire aveva ragione chi vedeva il pericolo e torto chi non lo vedeva. Non si tratta di aver torto o ragione, si tratta di non fare la fine peggiore. La civiltà occidentale, che si riconosce nei valori giudaico-cristiani e nel modello politico liberaldemocratico, deve intervenire come meglio è possibile per scongiurare la bestia islamica che si è risvegliata, a causa delle incaute politiche degli ultimi anni sia degli Stati Uniti d’America sia dell’Europa. Solo degli illusi potevano gioire alle cosiddette “primavere arabe”; solo degli incapaci e dei presuntuosi potevano destabilizzare i paesi mediterranei dell’Africa senza prevedere il caos che sarebbe seguito.
Che fare, allora? Dichiarare guerra al mondo avverso? Non facciamo i cretini! Per fortuna non siamo ancora ad uno scontro alla pari, totale, ci sono margini di interventi circoscritti nei luoghi ma con la stessa filosofia politica.

Dobbiamo solo cambiare la politica finora seguita. Finora ci siamo lasciati guidare dalla dottrina di Obama e di Sarkozy, del lasciare i popoli arabi inseguire improbabili primavere o di eliminare dittatori che comunque in casa loro mantenevano l’ordine e avevano con noi buoni rapporti di vicinato e di affari. Bene, da ora in poi cerchiamo di seguire una politica più realistica, più concreta, più pragmatica, finalizzata alla pace e all’incontro ma senza illusioni. Se non possiamo essere per la pax romana, lasciamo perdere anche la pax americana, e guardiamo in faccia la realtà, soprattutto quella parte della realtà che al momento è più brutta e più minacciosa. Ne avremo di che salvarci.     

domenica 24 agosto 2014

Siamo tutti mafiosi: la strada stretta della democrazia


Un processo degenerativo in corso, dei rapporti politici e di partecipazione popolare alla politica, fa pensare che oggi in Italia la strada della democrazia vada sempre più restringendosi. Si potrebbe puntare l’attenzione sugli aspetti più istituzionali: nomine dei Presidenti del Consiglio, difficoltà ad eleggere il Presidente della Repubblica per conclamata anarchia nei partiti, abolizione di uno dei due rami del Parlamento, iperattivismo del Presidente della Repubblica, dimezzamento del Presidente del Consiglio che va e viene dal Quirinale a pie’ sospinto, sempre meno ricorso alle urne. Tutti sintomi già di per sé molto gravi.
Ma ancora peggio vanno le cose nel sociale. Si rifletta su un fenomeno che è davvero esemplare. Lo Stato scarica su tutti i cittadini colpe che sono soltanto di alcuni specifici e individuabili soggetti. Ora, finché si tratta di farsi carico di tutti i problemi politici e sociali del Paese, secondo principi di appartenenza e di solidarietà, come è giusto che sia, è un conto; ma se si tratta di farsi carico di colpe che lo Stato non sa o non vuole attribuire a chi le ha commesse è un altro.
Il Parlamento, il governo, le istituzioni in genere pensano e operano non in funzione dei cittadini onesti, laboriosi, corretti, che sono sicuramente la grandissima maggioranza, che hanno bisogno di percorsi semplificati e rispondenti alle esigenze della modernità e dell’efficienza per lavorare e produrre, ma di una ristretta minoranza, costituita da mafiosi, corrotti e disonesti, i quali peraltro delle leggi dello Stato si preoccupano solo per trovare il modo di aggirarle e vanificarle.
Per dirla papale papale, lo Stato non affronta le mafie per sconfiggerle, non affronta la corruzione per sconfiggerla, non affronta l’evasione fiscale e ogni altra forma di illegalità per sconfiggerle, nei loro confronti ormai si è arreso; ma legifera in ragione antimafia erga omnes, secondo una malintesa morale cattolica di colpire il peccato e non il peccatore e spalma le responsabilità e le conseguenze delle sue debolezze e incapacità sull’intero corpo sociale. Il che vuol dire che lo Stato tratta i suoi cittadini come se fossero tutti mafiosi, corrotti ed evasori. Le mille leggi della – come oggi la chiamano – burocracy, con l’ennesimo insulto alla lingua italiana, che costituiscono un groviglio di impedimenti, di ritardi, di veri e propri reticolati di sbarramento al procedere spedito delle pratiche per avviare un’azienda, per tentare un’impresa, per aprire un esercizio commerciale, per intraprendere un’iniziativa editoriale, per far progredire il Paese, si giustificano teoricamente con la lotta alla mafia, alla corruzione, all’evasione fiscale; di fatto penalizzano tutti gli italiani costringendoli a farsi democraticamente carico di colpe altrui. Conseguenza finale e continua è che il popolo italiano vive in un sistema antidemocratico, che penalizza i suoi cittadini costringendoli alla disoccupazione, alla povertà e all’emigrazione. Dietro una parvenza di eccessiva democrazia, fatta di ogni libertà e di abbattimenti etici, lo Stato italiano in cambio di ordine, giustizia e progresso, elargisce licenziosità incredibili. Che sarebbero specchietti per le allodole se non fossero fattori scardinanti della connessione sociale.
Per un verso lo Stato afferma di combattere la mafia, per un altro la esalta equipaggiando l’intero corpo sociale di coppola e lupara. L’esempio più eclatante – che trova difesa persino in persone intelligenti e colte, ma purtroppo non libere – è l’abolizione della preferenza nella legge elettorale, per cui gli eletti di fatto sono dei nominati. Questo e uno sproporzionato premio di maggioranza, in presenza di un sistema monocamerale, dopo l’abolizione del Senato elettivo, escludono di fatto dalla partecipazione politica il popolo nella sua interezza. Si dice: il voto di preferenza consente alla mafia di eleggere suoi rappresentanti, come è stato ampiamente dimostrato negli anni in cui vigeva il proporzionalismo perfetto. Allora, per evitare che la mafia mandi in Parlamento e al Governo suoi emissari, via il voto di preferenza, gli eletti vengono nominati dai leader politici, i quali si assumono la responsabilità delle loro scelte. Almeno, in teoria.
Si può chiamare democrazia una cosa del genere? Un sistema che espropria i cittadini dei loro diritti? Un sistema che fa pagare a tutti i suoi cittadini colpe che sono solo di alcuni? Un sistema che lungi dal combattere per annientare i nemici dello Stato e della società decide di convivere con essi in una sorta di guerriglia diffusa e continuata i cui costi gravano sugli altri cittadini?
Se sì, allora i cittadini, che nulla hanno a che fare coi mafiosi e che da essi intendono difendersi, hanno non solo il diritto ma l’obbligo morale e politico di dirsi antidemocratici e di rivendicare la libertà di coltivare il principio e di concretamente esercitarlo.
Il fenomeno è di una gravità assoluta. Qui non è in gioco la democrazia, intesa come partecipazione alla vita politica del proprio Paese – è assodato che è già gravemente compromessa da chi oggi la rappresenta ad ogni livello – ma è in gioco il proprio Paese, è in gioco l’Italia. Sono in fuga non solo i giovani che non hanno e non trovano un posto di lavoro, condannati di fatto a non avere un futuro, pur che sia, né di capifamiglia, né di professionisti, ma anche le aziende, le imprese, le intelligenze singole e collettive, che non trovano in loco condizioni di vivibilità e di sviluppo, oberate da uno stato imbelle e ingiusto.

Se lo Stato non recupera interamente la sua sovranità, senza pietismi calcolati di bassa lega chiesastica, se non si decide ad annientare con la forza che gli è propria i suoi nemici, che sono tutti coloro che guastano i rapporti di convivenza politica, economica e sociale, il rischio che si vada incontro al peggio c’è. I cittadini hanno bisogno di libertà, di partecipazione, di lavoro, di giustizia. Se tutto questo è garantito, è garantita la democrazia; e i cittadini possono tornare a dirsi orgogliosamente democratici e a comportarsi come tali. Se tutto questo, invece, continua ad essere disatteso e vanificato nelle more di un chiacchierume arrogante e cialtrone, tipico di certe rivalità contradaiole, la strada della democrazia finisce in un vicolo cieco, dal quale si esce con percorsi, per forza di cose, non democratici ancorché tesi verso una nuova e più vera democrazia. 

domenica 17 agosto 2014

Elogio della reazione: se Renzi non può diventare Giolitti


Quando le aggressioni al modello di società e di vita nel quale il cittadino si riconosce sono continue e sistemiche, per quanto subdole e fatte passare per inevitabile corso dei tempi e importanti conquiste civili, non c’è altro da fare che ricorrere alla reazione, chiara e consapevole.
Il periodo nel quale stiamo vivendo è come un interregno: il re-modello è morto, ma il nuovo non c’è e sembra che non debba esserci. L’impressione è che si viva in anarchia, privi di leggi solide e condivise e soprattutto di autorità riconosciute.
Il mondo dei valori, dei costumi, dei rapporti sociali in continuazione di anni è sottosopra. Donne vengono privilegiate quasi per risarcirle da millenni di presunte angherie patite, famiglie assurde nell’idea che possano contrarre matrimonio soggetti dello stesso sesso, figli da generare secondo sistemi non naturali e in adozione da coppie anche di omosessuali, uno svilimento continuo dell’adultità con privilegi per i giovani e penalizzazioni per gli anziani, la cui soglia di inutilità sociale si abbassa sempre più. Si sta espropriando il cittadino del diritto di vivere e di ambire legittimamente per tutti gli anni della sua esistenza.
E’ proprio su questo punto – esproprio di vita – che occorre puntare i piedi con forza. Si fa strada in maniera sempre più insistente nelle riflessioni quotidiane, sollecitate da quel che si vede, si sente e si legge, una mortificante verità: oggi, giunti all’età di quarant’anni, non si può aspirare più a niente. E’ il punto d’arrivo, una sorta di zona off limits. Quel che si è riusciti a fare si è fatto, oltre non si può. Oltre c’è la morte civile, politica, sociale. Oltre si pesa dannosamente sulla società. C’è chi addirittura vuole affinare e legalizzare la morte procurata. Per emulare Lucio Magri o evitare suicidi alla Mario Monicelli, dicono. Insomma, dopo quarant’anni vieni socialmente suicidato; se vuoi puoi anche portare a compimento il suicidio anagrafico da te, togliendo il disturbo con morte spontaneamente procurata. Lo Stato ti fa quest’ultima assistenza. 
Benché la durata e la qualità della vita oggi facciano di un quarantenne un uomo al fiore della sua maturità, un pensiero assai diffuso e condiviso vuole che venga rottamato, quasi fosse un apparecchio obsoleto. L’idea di un progress infinito, che una volta accompagnava l’individuo a promuoversi costantemente negli anni fino ad ambire a cariche pubbliche sempre più importanti e di crescente responsabilità, si è trasformata nella rassegnazione di uno stop a qualsiasi obiettivo dopo i quarant’anni.
E’ l’effetto del giovanilismo, che ha tanto contagiato la società dei nostri tempi. Una società liquida – dice il sociologo polacco Baumann – in cui cambiano continuamente le forme della politica e del potere, sicché l’esperienza fatta nel passato non serve più nel presente e meno ancora nel futuro.
Per esemplificare, in politica, che resta il campo di più attendibile promozione, a vent’anni si può ambire a diventare un Renzi; ma uno dell’età di Renzi non può ambire a diventare un Giolitti e neppure un Andreotti. Il sociologo venezuelano Moisés Naìm dice che il potere dura così poco nelle mani di un soggetto, si sposta così repentinamente da un soggetto ad un altro, da poter dire che il potere stesso è finito.
Anche nel lavoro. Giunto ad una certa età, a prescindere dalla propria volontà, dalle condizioni di salute e dal comprovato valore, vieni pensionato, ossia vieni deprivato del ruolo sociale e condannato a sentirti un peso sociale, una nullità dannosa, a cui si augura una morte la più rapida possibile.
E’ una situazione surreale. Altro che rivoluzione copernicana! Si è passati dalla ricerca del più e del meglio, alla progressiva rinuncia perfino del meno e del peggio. Quel che prima era un valore aggiunto, oggi è nocumento aggiunto. Non conta sapere, non conta aver fatto esperienza, non conta aver dimostrato di possedere doti innate ed acquisite. Conta l’esatto contrario: dover sapere, dover fare esperienza, dover dimostrare di poter acquisire doti; e una volta fatto tutto questo, passare la mano a chi viene per età dopo di te, al giovane inesperto di turno. E’ paradossale.  
Come può un giovane di appena trent’anni avere acquisito le conoscenze adeguate, dove e come può aver fatto esperienza per valutare e agire secondo efficienza ed equilibrio?
E gli intellettuali di questo paese, gli opinionisti, i commentatori politici, che fanno? Hanno fiutato il vento contrario e tacciono. Bisogna stare sempre con chi vince – suggeriva il buon Guicciardini – per evitare di dover rispondere di colpe altrui. Oppure sono rassegnati allo spirito del tempo, succubi di sociologi, filosofi e nuovi cangianti uomini di potere, che non danno più punti di riferimento sicuri. Rottamare è diventato l’imperativo categorico.
Ovvio che quella di rottamare è una moda dei nostri tempi. Passerà, come ne sono passate tante. Si tornerà a quella bacchetta, invocata dal Pasolini luterano, che è la sola che spetta a chi deve studiare, conoscere, fare tirocinio ed esperienza, perché è vero come è stato sempre vero e come sarà vero che non si finisce mai di imparare. E bisogna imparare. Nessuno ancora ha inventato l’infusione della scienza. Per diventare persona adulta e capace occorre attraversare gli anni nella fatica e nelle più varie situazioni di vita. La natura non concede surrogati.
Ma va da sé che le persone adulte devono resistere a tentazioni di resa, devono essere cioè reazionarie. Devono opporsi a simili mode, per almeno due motivi. Il primo è che è legge di natura opporsi a quanti ti impediscono di essere e di realizzarti come vuoi. Secondo, resistendo rendi ancor più forte e importante il tirocinio dei giovani e li aiuti a diventare dei veri uomini. Qualcuno ti dice: togliti di mezzo e lascia il posto ad un giovane? Risponderai che il giovane il posto se lo può prendere non per grazioso omaggio o ope legis, ma  per conquista, dimostrando sul campo di valere per sé e di essere alla società utile coi suoi anni più di quanto non lo sia tu coi tuoi.

Solo la reazione oggi può aiutare la società a recuperare il suo assetto, i suoi equilibri, la sua solidità; può garantire una prospettiva di durata più lunga di una moda. Alle mode si deve opporre la civiltà, che è sempre sedimentazione di cultura e trasformazione misurata; così come ai regimi si deve opporre la libertà e la dialettica. L’interregno non deve diventare regime. 

domenica 10 agosto 2014

Renzi, Ostellino e l'aurora boreale


Qualche sera fa a “In onda”, la trasmissione estiva de “La 7”, condotta da Alessandra Sardoni e Salvo Sottile, Gianni Cuperlo, ex presidente del Pd dimessosi in polemica con Renzi, e Paolo Mieli, ex direttore del “Corriere della Sera” e attuale presidente di “Rcs Libri”, si esibirono in uno stomachevole elogio di Renzi, duettando come certe coppie nei musical americani degli anni Cinquanta. Qualche sera dopo nella stessa trasmissione era la volta di Mario Adinolfi, ex deputato Pd, a masturbarsi verbalmente col mito Renzi, l’uomo nuovo della politica italiana, a cui riesce di fare quello che ai suoi predecessori e ai suoi contemporanei mai riuscirebbe di fare. Per diversità di cultura – insisteva – il compiaciuto e straripante (in senso verbale) Adinolfi, provocando la reazione di Stefano Fassina, altro Pd dimissionario in polemica con Renzi, che a stento riusciva a contenersi.
Non diverso è il comportamento di tanta stampa italiana, che o elogia apertamente Renzi o comunque non s’azzarda a dire cosa a lui sgradita. Sta nascendo in Italia la più assurda e ridicola delle montature mediatiche, quella di Renzi “uomo nuovo”, dalle capacità straordinarie, eccezionali, taumaturgiche, l’anti Schettino che aggira gli scogli e riesce a portare l’Italia fuori dalle secche della burocrazia, della lentezza, della vecchiezza e a metterla in gara con le più moderne potenze politiche ed economiche del pianeta.
Ricordo e associo per idee che lo scrittore Antonio Beltramelli agli inizi del Novecento definì Mussolini proprio con le stesse parole “l’uomo nuovo” e ne scrisse l’elogio in una biografia che reca lo stesso titolo. Altrettanto fecero, poi, altri giornalisti, scrittori, poeti, filosofi, storici, pittori, scultori, musicisti, scienziati, preti, sagrestani, muli e conducenti; per anni e anni usque ad finem.
Ricordo ancora che gli dei pagani, secondo la teoria razionalista del filosofo Evèmero (IV-III sec. a. C.), altro non erano in origine che semplici uomini, che, grazie alla fama, assursero al rango dell’Olimpo. Ora il posto della fama l’hanno preso i mass media e – ovvio – i loro operatori. I quali, come i loro “cantati” finiscono per diventare i nuovi “dei del potere”, così essi diventano i nuovi “cantori del potere”. Laudatores temporis acti creano i miti degli uomini, ieri di Mussolini oggi di Renzi.  
Confesso di horrescere associando Renzi a Mussolini. Non già perché io ritenga l’uno incommensurabilmente superiore all’altro – ovvio, il superiore è Mussolini! – ma perché mentre l’uno aveva il potere di piegare le coscienze degli altri e renderli servi, avendo conquistato il Parlamento coi suoi manipoli di Camicie nere e a conservarlo con metodi coercitivi, l’altro assiste all’asservimento di politici e giornalisti, opinionisti e studiosi, in divisa da boy-scout, chiamato al potere dal Maggiordomo di Palazzo, dopo che tutti i camerlenghi se la sono squagliata. In verità horresco associando gli italiani del tempo di Mussolini agli italiani del tempo di Renzi.
E’ vero, c’è chi, come Piero Ostellino, forse anche esagerando – ma nel gracidio di rane, val bene qualche cri-cri stonante di grillo – non esita a definire Renzi il “ragazzotto fiorentino”, con evidente sarcasmo; ma gli altri, anche quelli che per dignità di uomini e serietà professionale ne criticano gli esiti in politica, si guardano bene dall’attaccarlo per le sue intollerabili performance propagandistiche, quando insulta gli avversari politici o soltanto quelli che non la pensano come lui, e addirittura fanno della sua arroganza l’arma vincente della sua politica.
Perfino Angelo Panebianco ne mette in risalto gli aspetti positivi, ancorché solo annunciati, e tace colpevolmente sul resto. La qualcosa è uno sproposito per un osservatore politico attento. E il costituzionalista Michele Ainis, da qualche tempo in qua, la mette sullo scherzo e rifà il verso alla signora “Chesaramai” di cui parla Il Premio Strega 2014 Francesco Piccolo nel suo romanzo “Il desiderio di essere come tutti”. Non mi pare che Ainis, come Panebianco, eserciti il suo importante ruolo con serietà e severità.
Mi è venuto già altre volte di dire che non credo in un Renzi dittatore, per tante ragioni oggettive che lo impedirebbero. Non la pensa così Ostellino, che mette in guardia e si appella a Napolitano perché non rifaccia l’errore che fece Vittorio Emanuele III non firmando lo stato d’assedio richiestogli da Facta per stroncare la Marcia su Roma (“Corriere della Sera” del 9 agosto).
Secondo me il vero pericolo italiano non è Renzi, sono gli italiani. I quali stanno manifestando in maniera sempre più preoccupante la voglia di fare di Renzi una sorta di dittatore, da non chiamare magari “duce” per evidente inopportunità. Lo si vede, lo si sente, lo si vive, con disgusto da parte di pochi; con pigra acquiescenza da parte di molti; con rassegnazione da parte di moltissimi.
La riforma del Senato con la fine del bicameralismo perfetto non è di per sé una circostanza che favorisce la deriva autoritaria, ma nel modo come sarà combinata con quanto disporrà la nuova legge elettorale può renderla concreta e accelerarla. Di qui l’importanza che hanno avuto i 16 senatori del Pd, i 13 di Forza Italia, gli 8 del Ncd non votandola; oltre ai senatori del M5S, della Lega e di Sel, che addirittura hanno disertato la votazione. Di qui l’importanza dei giornalisti come Piero Ostellino, che, richiamandosi a Tocqueville, ricorda a tutti il ruolo che deve avere un giornalista in una democrazia liberale. Che è quello di vedetta, che può anche sbagliarsi a gridare al lupo al lupo per ogni nonnulla, ma viene meno al suo compito se vedendo avvicinarsi qualcosa, invece di lanciare l’allarme, se ne sta zitto o peggio ancora, scambiandola per l’aurora boreale, la guarda come incantato e se la gode ammirandola.  

domenica 3 agosto 2014

Destra e Sinistra sono finite, si ricomincia da Hegel


Le crisi sono come le gravidanze, le puoi nascondere quanto vuoi, alla fine si mostrano in tutta la loro evidenza. Destra e Sinistra sono in crisi, direi avanzata.
Qualche settimana fa (domenica, 29 giugno) i quotidiani commentavano il ritorno di Gianfranco Fini alla politica. Incredibile: vuole fare il coach della Destra. Di quale Destra nemmeno lui lo sa, avendo esordito che la Destra non c’è più. Seicento persone, il giorno prima, avevano risposto all’appello dell’ex leader missino e di An presentandosi al Palazzo dell’Eur in una specie di convention: “Partecipa, l’Italia che vorresti. La tua idea per la destra che non c’è”. Qualcosa come il teatro dell’assurdo. Ma la politica non è il teatro dell’assurdo. Se uno improvvisamente si presenta e dice: il Godot che aspettavate sono io. Ah, li mortacci tua e …il minimo che gli capita è di essere preso a scarpate, leggi lanci di scarpe.
Da parte sua Berlusconi apre al riconoscimento delle coppie gay dopo che la sua fidanzata, Francesca Pascale, ha aderito all’Arci-gay. Siamo alle comiche finali. Se qui non ridi, di che rider soli? In quello che resta della fu invincibile armada del centrodestra hanno fatto finta di allarmarsi per poi fare finta di rassicurarsi che jamais la Destra avrebbe accettato i matrimoni gay: parola di Dio, pardon di Berlusconi. Gasparri sorride felice della correzione, come se veramente ci credesse. Ha una faccia così da fesso che il comico che lo imita è di gran lunga più presentabile.
Nel frattempo anche Fratelli d’Italia si sono spaccati sulle coppie gay. Ci sono alcuni che sono favorevoli. Ma favorevoli a chi, a che cosa? Ciò che ha sempre contraddistinto l’uomo di Destra è l’impersonalità delle posizioni che assume, fino al cinismo. Non dice sì o no alla persona fisica con cui ha a che fare, ma ai principi attinti, anche quando personalmente può perdere tutto o qualcosa nella battaglia. Ogni piccolo no nasce da un grande sì. No a due omosessuali che vogliono contrarre matrimonio? Nasce dal sì alla famiglia naturale, quella composta da diecimila anni di storia da un maschio e una femmina; dal sì all’ordine sociale; dal sì al Decalogo: onora il padre e la madre. Chi sostiene che è meglio distinguere i genitori in genitore uno e genitore due invece di papà e mamma è uno che non riesce ad andare oltre il dato personale e individuale, rispettabile quanto si vuole ma sempre piccolo e circoscritto.  
Chi oggi conserva qualcosa di Destra si nasconde, si camuffa, ha paura di non sembrare moderno, umanitario, progressista, riformista, in una parola di sinistra: è plagiato. Non sa neppure che a volte dietro le parole non c’è nulla. Parole che fanno opinione, che creano movimenti, che portano caterve di voti a politici improvvisati, comici rincoglioniti. Almirante fin dagli anni Sessanta mise in guardia i suoi dalla guerra delle parole. Vesciche, piene di nulla, come le chiamava l’Ariosto nell’immaginario viaggio sulla Luna del suo Astolfo.
Ritardati! Scoprite oggi la legittimità dei diritti individuali, di certe posizioni sociali? Non capite che così facendo vi dichiarate falliti, più che sconfitti? Andate a raccogliere le briciole della mensa della Sinistra crapulona; non riuscite ad avere un minimo di coerenza e di coraggio. Sì, il coraggio, se volete, di difendere i vostri principi fino al torto conclamato e oltre, posto che i principi possano avere torto o ragione, essendo universali astrazioni, aspirazioni teoriche, punti cardinali da tener saldi e presenti nell’azione.  
In verità neppure a Sinistra ci sono idee chiare; e anzi si assiste ad una situazione paradossale: la sinistra moderata più quella radicale, l’una e l’altra componenti del Pd, votano appunto il Pd, che però con Renzi fa una politica di puro qualunquismo centrodestroide. La Sinistra sembra rispondere a specchio alla Destra: vota per chi fa una politica mai stata della Sinistra. Sono dei Narcisi che non si buttano nello stagno per abbracciare se stessi ma colpiscono con furia idiota il se stessi di una volta. Ma in questo momento sono vincenti e d’altro non si preoccupano, a parte i soliti irriducibili sergenti giapponesi dell’ultra Sinistra: i Rizzo, i Ferrero, i Diliberto.
La Destra si avvia così a trovare uno spazio nel territorio ideologico della Sinistra, convinta di poter far passare certe scelte e certe posizioni come patrimonio comune, fisiologico, tanto universalmente valide da non appartenere più né alla Destra né alla Sinistra, come lo stomaco o qualsiasi altra parte anatomica dell’organismo umano non appartengono a specifiche persone, ma a tutti come parti ineliminabili. Sembrano muoversi come nella dialettica hegeliana: destra e sinistra, tesi e antitesi, sono arrivate alla sintesi; che diventa tesi contro cui si contrappone una nuova antitesi per giungere ad una nuova sintesi. Ma chi ha perso di più è la Destra che ricomincia a costruirsi uno spazio identitario in casa d’altri, dopo aver sepolto gran parte del suo valore storico.
Al disastro l’hanno portata venti anni di finismo e di berlusconismo. L’uno con le sue manie di grandezza personale: ha sciolto tre partiti: il Msi, An e Fli e contribuito a far fuori Scelta Civica, senza avere uno straccio di direzione politica o di modello sociale. L’altro, coi suoi indegni comportamenti, ha squalificato non solo la Destra, perfino la più moderata e liberale, ma l’Italia intera. Oggi l’elettore di Destra non ha più un partito da votare, una proposta politica da coltivare, una militanza da esercitare.

E l’elettore di Sinistra? Sembra contento della prospettiva elettorale, anche se Renzi sta facendo a Sinistra quel che Fini e Berlusconi hanno fatto a Destra. Non crede nel benessere di cui attualmente sta godendo: prende consensi, ma per chi e per che cosa? Più di uno ormai non vuole più chiederselo per paura di rimanere di pietra come di fronte alla Gorgone.