domenica 31 luglio 2016

Abbracciamo pure i musulmani in chiesa, ma...


In Francia, dopo la barbara uccisione del povero parroco, Jacques Hamel, fedeli cattolici e fedeli musulmani hanno deciso di stare insieme e partecipare in chiesa alla santa messa. Solo per domenica 31 luglio? E come pregheranno insieme, date liturgie completamente differenti?
Subito c’è stata l’emulazione dei cattolici e dei musulmani italiani. Speriamo bene. Quando altro non c’è da fare, è giusto perfino tentare il paradossale. Il cardinale Bagnasco si è detto contento. Nessuno vuole la guerra e nessuno ha da guadagnare dal radicalizzarsi di uno scontro che purtroppo è in atto.
L’evento, però, non deve farci andar troppo lontano con la fantasia e deve farci tenere i piedi per terra. Lo scontro religioso – non so come diversamente chiamarlo – non riguarda tanti buoni islamici che si trovano in Europa nelle più varie condizioni, ma una classe dirigente islamistica (Daesh o Isis, come la si vuol chiamare) che è convinta di dover abbattere il regno degli infedeli, che siamo noi europei. Accusati noi di essere andati in casa loro in tempi neppure tanto lontani e di aver disegnato la carta politica delle loro popolazioni, dicendo: qui dovete stare voi, e qui voi altri.
Non è il caso di addentrarci nel groviglio delle ragioni, vicine e lontane, di questa contrapposizione, diciamo soltanto che noi non siamo estranei e lo dimostra il fatto che agli atti di guerra rispondiamo con atti di guerra. Alcuni di questi atti sono sotto gli occhi di tutti, come i bombardamenti, altri sono più nascosti ma altrettanto efficaci. La guerra, insomma, è inutile negarlo, c’è. Gli stessi terroristi islamici giustificano i loro atti come vendicativi delle bombe che i nostri aerei lanciano sui loro correligionari in tutta l’area dell’Iraq e della Siria. Noi la combattiamo con cacciabombardieri e droni, per quello che vediamo e sappiamo; loro con attacchi terroristici, improvvisi e imprevedibili.
E’ ovvio che il noi sta per noi occidentali, non per noi italiani, che invece continuiamo a raccogliere musulmani dal mare e portarceli in casa.
Il punto vero è come risolvere la guerra delle redazioni giornalistiche, dei ristoranti, delle promenades, dei concerti, delle chiese. Servizi segreti, agenti in strada ed altri strumenti di prevenzione e repressione non bastano; anzi, il più delle volte non sono adeguati. Tanto soprattutto in quei paesi, come Francia e Belgio, dove ormai la società si è così intrecciata che il terrorista può essere anche lo studente, il compagno di scuola del figlio, il fidanzato della figlia o della nipote e via discorrendo.
La differenza tra i nostri attacchi e i loro sta nel fatto che loro sono avvertiti e in qualche modo possono mettersi al riparo dalle bombe; noi no, siamo esposti sempre e dappertutto: in treno o in pizzeria, sulla spiaggia o in ufficio. Insomma, per farla breve, noi non dobbiamo schivare una pallottola o una bomba, ma una pioggia di pallottole o di bombe perfino mentre stiamo in un bar. I terroristi si vedono quando ormai è troppo tardi. Il terrorismo è devastante per questo.
Si capisce perfettamente allora che il pregare insieme in chiesa o in una moschea è un bel gesto, ma non serve a combattere il terrorismo, che in chiesa arriva per farti la festa.
In Europa ci sono paesi più presi di mira di altri. La Francia e il Belgio, per esempio; ma tutti possiamo essere colpiti. Ma se c’è una differenza tra noi italiani e i francesi o i belgi è perché da noi la società ha una identità ancora più forte e riconoscibile. Ebbene, come ci stiamo comportando? Esattamente come non ci dovremmo comportare e cioè cercando di diventare come francesi e belgi e dunque essere esposti come loro. Il nostro governo sta facendo di tutto per trasformare anche l’Italia in un paese multietnico con tutte le conseguenze che vediamo nel mondo, Stati Uniti d’America in primis, dove ormai in certi momenti è guerra civile. Come definire le tante morti di giovani neri uccisi dalla polizia anche per cose da niente? Come definire gli agguati ai poliziotti da parte dei neri, che li attaccano per vendicare i loro “fratelli” uccisi dai poliziotti bianchi?
La risposta che dovremmo dare al terrorismo islamico è in due tempi. Il primo è quello di stare alla massima allerta per prevenire attacchi. E questo è compito tecnico che spetta ai servizi di sicurezza, ricorrendo anche a premi a chi si rende utile in questa caccia, come suggeriva Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” di sabato, 30 luglio, che proponeva di mettere taglie sui terroristi. Il secondo è politico, consiste nel ridurre al minimo la componente straniera, ivi comprendendo anche la diversità di religione, anzi soprattutto di religione se essa è quella musulmana.
Questa religione, è appena il caso di puntualizzarlo, a differenza di altre, trova nei suoi testi i motivi per guerre di conquista e di sterminio degli infedeli. E’ la componente più radicale di questa religione; ma è sufficiente per far saltare il mondo. Non è la prima volta che simili tentativi di conquista sono stati effettuati con la conseguenza di lunghe e cruente guerre. Minimizzare il pericolo non serve, anzi è deleterio. Il che non significa che siamo al punto di “armiamoci e partiamo”, ma non possiamo neppure escludere in maniera assoluta l’opzione militare, mentre si cercano tutte le vie politiche e diplomatiche, commerciali e finanziarie per giungere ad una ricomposizione. Cosa, questa, che comporta una nuova sistemazione di tutta l’area interessata, con nuove egemonie e nuovi equilibri.

Se, per giungere a questo, è bene passare anche dalle sceneggiate religiose, dagli embrassons nous, va bene; ma stiamo attenti e non sottovalutiamo ancora un pericolo che ci può essere fatale.          

domenica 24 luglio 2016

Perché NO: l'Italia e il referendum sulla riforma costituzionale


A ottobre si doveva votare per il referendum. Oggi non si è più sicuri della data, forse a novembre. Il referendum confermativo della riforma costituzionale voluta da Renzi, forte di una maggioranza parlamentare votata con una legge dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale e con un voto di fiducia, è oggi altro da quel che era un paio di mesi fa. Resta un guazzabuglio, degno della migliore italianeria. Ne parlano tutti ormai. Ma, invece di spiegare alla gente che Italia avremmo in conseguenza di quella riforma ove venisse confermata, i sostenitori insistono a spaventare gli elettori con visioni apocalittiche. I contrari non sono da meno e spaventano la gente sul versante delle libertà democratiche. A ottobre, insomma, gli italiani voteranno o spaventati e confusi, con giudizi più calibrati su ciò che non vogliono che su ciò che vogliono. E vale per sostenitori e contrari.
Chi sostiene la riforma va dal minacciare crisi al buio, con dimissioni del governo e l’impossibilità per qualche decennio di ritentare una qualche riforma, alla lusinga di risparmiare un po’ di soldi con l’abolizione degli stipendi ai senatori. Argomenti facili e di immediata comprensione sono del tipo: volete voi che ci siano due camere identiche con identici compiti? Volete voi che lo Stato paghi trecento e passa senatori del tutto inutili e dannosi all’efficienza legislativa?  Domande che hanno in sé la risposta, ovviamente negativa. La Confindustria, da sempre schierata col governo in carica secondo la nota teoria di Giovanni Agnelli senior, ha addirittura paventato la perdita di 4 punti di pil e di centinaia di migliaia di posti di lavoro. La ministra Boschi ha detto che con la riforma l’Italia combatterebbe meglio il terrorismo. Siamo alla paranoia della truffaldinità. Per fortuna non c’è un’associazione di sismologi a sostenere il governo Renzi, sarebbe capace di prevedere terremoti e maremoti su tutte le coste italiane. 
Chi è contrario, invece, oltre che esprimere giudizi trancianti, come fanno Brunetta di Forza Italia e Di Maio di M5S, la definisce “schiforma” (Travaglio), paventa tagli alla democrazia e scenari di confusione totale, con un senato, che non è abolito ma solo privato del potere politico di dare la fiducia al governo e coi cittadini ridotti a comparse elettorali, per via del combinato disposto con la legge elettorale detta Italicum. La costituzionalista prof.ssa Lorenza Carlassare ha detto che si passerebbe dal bipartitismo perfetto al bipartitismo confuso.
Ma perché non dicono, tutti, sostenitori e contrari, che cosa potrebbe essere l’Italia per effetto della riforma? Possibile che per tutti tutto si debba esaurire ad un pugno di euro o ad un pugno di voti? Senza neppure il piacere della regia di un Sergio Leone e l’interpretazione di un Clint Eastwood? A ottobre, Ramon, a ottobre! Col trucco di avere sul petto una corazza d’acciaio nascosta. Ecco, ci dicano a che serve la corazza nascosta, ovvero la metafora dei loro interessi reali.
Siamo andati a leggerci i punti più importanti di questa riforma e abbiamo scoperto cose davvero gravissime ove questa riforma dovesse essere confermata dal referendum ottobrino.
Il libro di riferimento è di parte, “Perché no”, di Marco Travaglio e Silvia Truzzi (Paper First, 2016); ma ci siamo serviti delle parti più asettiche, quelle attinenti il testo del come la Costituzione è e del come la Costituzione sarebbe se passasse il al referendum. Non mancheremo di esaminarne altri; e di altro orientamento.
1° punto importante. Siamo alla Parte II, Ordinamento della Repubblica, Titolo I, Il Parlamento, Sezione I, Le Camere. L’art. 55, “Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica” rimane identico. Ma si aggiunge “l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza”; “Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”. Seguono altri compiti di carattere legislativo. E qui è la prima novità assoluta: il Senato non dà più la fiducia al governo; ha tante altre funzioni ma non quella fondamentalmente politica. 
Art. 57. I Senatori si riducono da 315 a 100, si aboliscono i senatori a vita. Solo 5 sono di nomina presidenziale e decadono dopo sette anni, quanto dura in carica il Presidente della Repubblica. 95 Senatori vengono nominati dai Consigli Regionali tra i Consiglieri eletti e tra i Sindaci dei comuni dei rispettivi territori. Godono di immunità parlamentare.
Art. 70. Il Senato può fare osservazioni all’approvazione delle leggi, che però non sono vincolanti. 
Art. 71. Può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, richiedere alla Camera dei Deputati di procedere all’esame di un disegno di legge. Il popolo può esercitare l’iniziativa delle leggi mediante proposta di 150mila elettori (prima bastavano 50mila).
Art. 73. La Corte Costituzionale si pronuncia sulle leggi che riguardano l’elezione della Camera dei Deputati e del Senato prima della loro promulgazione su ricorso motivato presentato da almeno un quarto della Camera e da un terzo del Senato.
Art. 75. Referendum, firme di 500mila elettori o 5 Consigli Regionali. Il Referendum passa se ha votato la maggioranza degli aventi diritto; ma se le firme raccolte sono state 800mila basta la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni sempre che ad esse sia stata raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. Tanto per evitare lo scoglio del quorum.
Titolo II, Il Presidente della Repubblica. Art. 83. “Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti”. Non mi pare che ci sia una soglia minima di votanti. Prima, dopo il terzo scrutinio, era necessaria la maggioranza assoluta.
Art. 86. Le funzioni del Presidente della Repubblica, in sua assenza o impedimento, sono esercitate dal Presidente della Camera. Prima era il Presidente del Senato a sostituirlo.
Art. 94. Il Senato non dà più il voto di fiducia al governo; è politicamente esautorato.
Titolo V. Art. 114. Sono abolite le Province.

Per somma sintesi, questa è la riforma costituzionale. Per essa non si può dire che la montagna abbia partorito un topolino solo perché di topolini ce ne sono una figliata. Francamente se le cose che accadono rispecchiano i tempi in cui accadono – ed è così – questa riforma costituzionale è una boiata. E lo è tanto più quanto la si combina col disposto della legge elettorale detta Italicum, entrata in vigore il 1° luglio. Il combinato produce qualcosa che non solo lede i diritti politici dei cittadini, ma trasforma la Repubblica in uno stato di fatto presidenziale. Una boiata che tale si è rivelata appena si è capito che così votando si consegna il paese al Movimento 5 Stelle. Il che è contro la legge prima della politica, che vuole che chi ha il potere tenda a conservarlo e chi non ce l’ha tenda a conquistarlo. Non esiste chi, avendo il potere, lo regali a chi non ce l’ha. Se tanto accade, allora davvero siamo nelle mani di Dio.

domenica 17 luglio 2016

L'italicum? Neonato e neomorto!


Ricordate che diceva Renzi fino a prima delle votazioni amministrative del 5-19 giugno? Diceva che l’Italicum, la nuova legge approvata l’anno scorso, con decorrenza dal 1° luglio di quest’anno, non si toccava per nessuna ragione. Ebbene, a pochi giorni di distanza le cose sono cambiate. L’Italicum così com’è non va. E’ lo stesso Renzi che lo vuole cambiare. L’imbarazzo tra i renziani è diffuso; non così tra le altre forze politiche.
Per capire soccorre Dante. Il sommo poeta nel VI del Purgatorio, a proposito di leggi nella sua Firenze, diceva in maniera ironica: “fai tanto sottili / provvedimenti, ch’a mezzo novembre / non giugne quel che tu d’ottobre fili”. Ovvero: sono così ben congegnate le tue leggi che non durano neppure un mese.
Oggi noi siamo ancora più ingegnosi dei fiorentini del tempo di Dante. Non per nulla è il momento di un suo concittadino, Matteo Renzi. Eppure una legge non dura neppure il tempo di essere applicata una prima volta. Difatti il neonato Italicum è già cadavere. La ragione è semplice e immediata: prima conveniva a Renzi e sconveniva agli altri, al M5S più di tutti che gli stava ad una tacca, dopo i ballottaggi del 19 giugno, che hanno premiato il M5S, le cose si sono rovesciate. L’Italicum è pericoloso, potrebbe consegnare il governo del paese al M5S. Questione di opportunità. E bisogna proprio avere la faccia tosta, come quelli del Pd, per dire agli altri quel che andrebbe detto a loro; anzi, quel che i cittadini dovrebbero dire a tutti.
Ma, al di là della sua convenienza o sconvenienza, l’Italicum è la riproposizione del Porcellum (la precedente legge elettorale, dichiarata incostituzionale dalla Consulta) sciacquato in una pila ad hoc costruita. Dà a chi prende il 40 % dei voti al primo turno o un voto in più nel ballottaggio un numero eccessivo di parlamentari, sì da rendere una comparsata il ruolo dell’opposizione per tutto il tempo della legislatura. Si dice: occorre garantire la governabilità. Ma chi la invoca come interesse prioritario del governare fa finta di non sapere che ci sono regimi che la garantiscono assai meglio e di più. Erdogan in Turchia, per esempio. Putin in Russia, per esempio. 
L’Italicum va cambiato come va cambiata la riforma costituzionale che dovremmo promuovere o bocciare a ottobre col referendum. Si deve andare in questa direzione perché nel giro di pochi mesi tutto è in discussione. Ma i cambiamenti da apportare non dovrebbero rispondere ad esigenze particolari e del momento; sarebbe necessario che guardassero avanti e fuori dai propri interessi. Il che probabilmente non accadrà, perché è legge politica che chi ha il potere cerchi di conservarlo e chi non lo ha cerchi di conquistarlo. Perciò Renzi non sarà così ingenuo da far passare una legge che gli sottragga la cadrega. Si spera solo che venga indotto o costretto a fare qualcosa che vada oltre l’interesse del momento.
Da sempre i più avveduti politologi dicono che il sistema elettorale è decisivo per conquistare o perdere il potere attraverso il voto. Ma se chi ha il potere – ed oggi il potere dura pochissimo – si preoccupa solo di fare leggi che gli garantiscano la sua conservazione nell’immediato, si è punto e daccapo. Occorre che si adoperi per l’elaborazione e l’approvazione di una legge che fatta a ottobre, per tornare al divin poeta, non duri fino a metà novembre e soprattutto che garantisca a tutte le forze politiche in gara, almeno alle maggiori, pari opportunità di vincere le elezioni. Si pensi almeno al dopodomani. Per farla breve, se una legge non ha ampiezza, respiro e profondità contraddice se stessa; vale quanto una legge ad personam.
Certo, la crisi dei partiti e del loro sistema elettorale e di potere, che sembrava avviata a soluzione con il rimescolamento politico e ideologico degli anni Novanta, si è addentrata nella sua fase più profonda e più pericolosa. Stupisce la disinvoltura con cui i commentatori politici e i politologi trattano quella che sembrerebbe l’uscita dal tunnel, ovvero il Movimento 5 Stelle. Questa soluzione – per così dire! – in verità getta il paese nell’incertezza e nel caos perché a tutt’oggi non si capisce chi faccia certe scelte; come e perché le faccia. La cosiddetta rete o la democazia diretta attraverso di essa è solo allo stadio di percezione da parte delle forze politiche e dei loro studiosi. E’ sicuramente un passo avanti rispetto a prima, a quando un Fassino diceva a Grillo di farsi un partito e di scendere in campo; ma resta pur sempre una “bestia” sconosciuta, che si presenta nella forma più allettante, quella appunto della democrazia diretta che con un clic consente a ogni cittadino di dire la sua e di partecipare.

Una cosa è certa. I nuovi mezzi di comunicazione hanno cambiato i modi e i tempi di far politica. Ormai la rivoluzione è sotto gli occhi di tutti. Chi non sa fare uso dei socials è come l’analfabeta di un tempo e perciò viene escluso. Il problema che si pone oggi è che la democrazia deve consentire a tutti la partecipazione; deve fare in modo che una parte dei cittadini prevalga su un’altra solo perché ha dei mezzi che l’altra non ha o non sa usare. La rete è l’avvenire – ma forse è il caso di dire che è già il presente – della democrazia? Allora bisogna vedere quanto essa sia effettivamente democratica, se garantisce tutti i tradizionali elementi costitutivi della democrazia: universalità di diritto e di fatto, trasparenza, correttezza, libertà, discussione. Fino ad ora abbiamo visto un Grillo che è andato avanti a forza di “vaffanculo” e un’azienda privata, la “Casaleggio & Associati”, che ha gestito la partecipazione al Movimento. Troppo poco e troppo inquietante, per non dire troppo rivoltante. 

lunedì 11 luglio 2016

Cari Austriaci, onoriamo insieme Cesare Battisti


Ricordare Cesare Battisti ad un secolo dalla morte (12 luglio 1916) significa evocare atmosfere “antiche”. Un po’ di anni fa, prima che l’Inno di Mameli s’imponesse davvero come l’inno nazionale per tutte le circostanze, il canto degli italiani più conosciuto ed eseguito era La leggenda del Piave o La canzone del Piave o semplicemente Il Piave, autore il compositore napoletano E. A. Mario (1884-1961). Fu composto o meglio completato a guerra conclusa e vinta: “e la vittoria sciolse le ali al vento” (novembre 1918).
Chi scrive ha frequentato le elementari nella prima metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Allora non c’era manifestazione pubblica o cerimonia scolastica che non iniziasse con questo canto, che già alle prime note faceva venire i brividi. “Il Piave mormorava…”. Altri tempi! Perfino le bande musicali, ingaggiate per le feste patronali, concludevano la serata, a notte fonda, prima del finimento dei fuochi artificiali, con “l’esercito marciava / per raggiunger la frontiera  / e far contro il nemico una barriera”.
C’era – ma che dico, c’è! – un passaggio verso la fine del canto in cui si citano tre personaggi martiri della causa nazionale italiana: Guglielmo Oberdan (1858-1882), Nazario Sauro (1880-1916) e Cesare Battisti (1875-1916), evocati per fali “partecipare” al giubilo nazionale per la “Vittoria”. Erano cittadini di nazionalità austriaca, perché nati in territori che a quel tempo facevano parte dell’impero asburgico; ma erano convintamente italiani, fino al sacrificio estremo. Oberdan, triestino, chiamato alle armi, disertò quando l’Austria per il disposto del Trattato di Berlino invase la Bosnia; e nel 1882 cercò di organizzare un attentato contro Francesco Giuseppe in visita a Trieste. Scoperto, fu processato e condannato a morte. Gli altri due, istriano Sauro, trentino Battisti, scelsero nella Grande Guerra di combattere per l’Italia e perciò catturati sul campo di battaglia dagli austriaci, furono processati e condannati a morte per alto tradimento. Stessa sorte subirono altri, tra cui l’istriano Fabio Filzi, che fu impiccato lo stesso giorno e nello stesso luogo di Cesare Battisti.
Per noi ragazzini erano delle figure famigliari e mitiche insieme, a forza di cantare: “e tra le schiere furon visti / risorgere Oberdan, Sauro, Battisti”.
Dei tre il personaggio più complesso è sicuramente Battisti, perché fu un politico di prim’ordine, consigliere a Innsbruck e deputato al parlamento di Vienna, un giornalista e un uomo di pensiero e di azione. Il quale si autoaccusò di tutto quel che gli austriaci gli contestarono per dimostrare che lui non aveva tradito, ma perseguito il suo essere italiano da sempre. Socialista, fondò e diresse a Trento vari giornali (Tridentum, Il Popolo, Vita Trentina) e per un certo periodo, tra febbraio e settembre del 1909, ebbe tra i collaboratori un certo Benito Mussolini e fu egli stesso suo collaboratore. Questi, socialistissimo, colà inviato come segretario della locale Camera del Lavoro e direttore de “L’Avvenire dei Lavoratori”.
Cesare Battisti fu un eroe per noi italiani, un traditore per gli austriaci. Oggi, purtroppo, è quasi sconosciuto, almeno in Italia, perché nelle scuole non se ne parla quasi mai. Che dicono di lui oggi in Austria o nel Trentino lo ignoro; mi farò informare dai miei amici trentini, da Marco Albertazzi, titolare della casa editrice “La Finestra”, che qualche anno fa ripubblicò gli “Scritti politici” di Battisti e gli “Scritti trentini” di Mussolini, generosamente regalatimi.
Di Battisti e di tanti altri personaggi dalle vicende controverse, bisognerebbe parlare sempre, perché la storia non deve cambiare i connotati a nessuno, ma neppure far cadere nessuno in oblio. Essa è veramente utile quando offre elementi per valutare la realtà politica che cambia. Oggi noi e gli austriaci siamo o dovremmo essere europeisticamente connazionali; e il nostro Battisti – nostro di italiani e di austriaci, di francesi e belgi ecc.  –  andrebbe visto non come eroe e neppure come traditore, fermo restando che fu un uomo di grande carattere, di grande coraggio e di estrema coerenza.
Noi italiani dovremmo capire le ragioni degli austriaci quando lo considerarono un traditore e gli austriaci le ragioni nostre nel considerarlo un eroe. Per sforzarci di capire oggi gli austriaci nel loro astio contro Battisti, riflettiamo sulla nostra irritazione per il cattivo gusto di alcuni personaggi importanti, italiani di nazionalità ma austriaci di appartenenza etnica, quando danno prova di scarso senso civico e attaccamento nazionale. Qualche anno fa il campione olimpionico di slittino, l’altoatesino Armin Zöggeler, che peraltro è un carabiniere, avrebbe detto, così riferirono i giornali, che lui l’inno nazionale italiano neppure lo conosceva. Spesso la pur brava Lilli Gruber, brava soprattutto quando scrive, di meno quando parla, italiana anche lei ma con ascendenze austriache, non si lascia sfuggire occasione per pregiarsi delle sue origini. Francamente certe espressioni e certi atteggiamenti irritano; e stiamo in una situazione completamente diversa da quella di un secolo fa. Peraltro noi dobbiamo pur riconoscere che parte del Trentino Alto Adige, il Sud Tirolo, è terra austriaca, abitata anche da italiani.
Da parte loro gli austriaci dovrebbero capire noi italiani quando si rallegrano per certe manifestazioni orgogliose di “appartenenza” all’Austria di certi cittadini italiani. Come a loro sono simpatici questi personaggi che esternano pro Austria, così a noi sono antipatici; e viceversa.  E inoltre, se non hanno dimenticato del tutto la storia, i nostri amici austriaci dovrebbero ammettere che molti territori occupati da loro e inglobati nell’Impero asburgico, appartenevano ai popoli che da sempre li abitavano. Se oggi danno ragione a chi rivendica, sia pure in modo diverso rispetto a ieri, la sua identità, dovrebbero dar ragione anche a Cesare Battisti quando questi decise di battersi per la sua patria, che non era l’Austria. Insomma, ci dovrebbe essere sempre reciproco riconoscimento di ragioni e di sentimenti. Oggi è possibile. Non lo era ieri.
Ricordo che sulla corrispondenza politica della “Giovane Italia”, organizzazione studentesca parallela al Msi, di cui negli anni Sessanta ero dirigente, si timbrava lo slogan “I confini della Patria si difendono, non si discutono”. Erano i tempi degli accordi De Gasperi-Grüber.
E già che ci siamo, restituiamo alla Lilli televisiva l’Umlaut sulla sua ; è roba sua. Ma forse lei ha ormai optato per una più conveniente italianità. E noi la abbracciamo.
E torniamo a Battisti e a Mussolini, entrambi socialisti; ma di diversa tempra, i quali in quegli anni facevano un cammino inverso. Battisti verso l’irredentismo e l’italianità, a cui dava importanza prioritaria; Mussolini, al contrario, andava verso un socialismo più autentico ed indulgeva all’internazionalismo. Nelle sue corrispondenze del periodo trentino, per “La Voce” di Prezzolini, poi pubblicate col titolo “Il Trentino veduto da un socialista”, si leggono delle cose, che un po’ sbalordiscono, tra cui che molti altoatesini non volevano affatto diventare italiani perché lo Stato sociale austriaco li faceva vivere bene, mentre quello italiano, che di sociale aveva ben poco, li avrebbe fatti vivere male.
In clima di anniversari – cento anni dalla Grande Guerra – sappiamo che quando le truppe italiane giunsero nel Trentino non furono affatto accolte da liberatrici; e i militari italiani usarono le maniere forti con le popolazioni locali.

Di fronte alla realtà dei fatti, che molto spesso è taciuta o mistificata, le valutazioni cambiano. Ed è giusto che cambino. Cesare Battisti non è più un eroe per noi italiani e neppure un traditore per gli austriaci, perché i tempi sono cambiati; oppure, se resta un eroe per noi italiani e un traditore per gli austriaci, per capirlo bene dobbiamo contestualizzare i fatti e storicizzare il personaggio. Altrimenti continuiamo a stare l’uno nell’incomprensione dell’altro.

domenica 10 luglio 2016

Il Pd non riguarda solo il Pd


Il Pd è l’unico partito politico oggi rimasto in Italia in cui ancora si può parlare di politica e di confronto, in cui è possibile una qualche discussione. Ricordiamo che il politologo austriaco Hans Kelsen definiva la democrazia un regime di discussione. Oggi, perciò, in difetto di altri luoghi politici, quanto accade nel Pd interessa l’intero paese e coinvolge i cittadini, anche se orientati diversamente.
Nella Direzione di lunedì, 4 luglio, si sono evidenziati in maniera netta, forse come mai prima, i due modelli di conduzione del partito e del governo. Da una parte Matteo Renzi, che sostiene la leadership esclusiva, ovvero il doppio incarico di capo del governo e capo del partito, per assicurare all’esecutivo tempestività ed efficacia nelle decisioni; dall’altra l’opposizione che sostiene che chi è capo del governo non può esserlo anche del partito e rivendica compartecipazione e corresponsabilità sia nell’azione di governo che in quella di partito.
I due modelli trovano dei riferimenti-forza in solidi ancoraggi nella storia repubblicana; di più il secondo del primo, che ebbe solo col socialista Bettino Craxi un imprimatur.
Il modello di Renzi è oggi prevalente in Europa e consente a chi governa di farlo in maniera più spedita e senza compromessi e concertazioni; quello della minoranza dem garantirebbe una maggiore collegialità partecipativa e meno netti profili politici nella geografia interna del partito.
A conferma che non sempre in Italia funziona quel che funziona benissimo in altri paesi europei, il modello renziano ha accusato con le ultime Amministrative una indiscussa flessione e ha dato l’allarme di quella che potrebbe essere una sicura sconfitta di qui alle prossime Politiche a vantaggio del M5S ove si dovesse votare con l’Italicum, da Renzi fortissimamente voluto. 
A parte le intemperanze caratteriali dei renziani e degli antirenziani, mi pare che il confronto sia del tutto normale e proficuo. Renzi ha iniziato la sua ascesa politica vincendo le primarie che prevedevano anche il conferimento della Presidenza del Consiglio. In questo c’è poco da dire. Pacta servanda sunt.
Quali sono i punti deboli della posizione di Renzi? Il primo è che non è accettabile, se non in particolari momenti di emergenza, il discorso della rottamazione. In politica, direi in democrazia, non si rottama l’avversario o solo chi ha un’età maggiore o un’opinione diversa. Il modello renziano inoltre non è più condiviso e vincente; ha perso sul campo. Di questo un partito deve prendere atto, senza fretta ma neppure senza lunghissime attese.
I punti deboli del modello opposto a quello di Renzi sono per così dire storici. Starei per dire annosi. Il primo è che, come spesso accade, dieci persone possono concordare nel momento destruens e non concordare in quello costruens. Sicché passare la mano della segreteria politica da parte di Renzi potrebbe aprire nuovi fronti di conflitto, con ritardi operativi, che il Paese non si può più permettere. Per questo gli elementi più validi dell’antirenzismo dovrebbero rivedere talune modalità e la tempistica dell’operare politico, perché è di tutta evidenza che i tempi non sono più quelli di Moro-Berlinguer o di Craxi-Andreotti.
Un punto sul quale i due modelli o i due fronti potrebbero incontrarsi è la modifica dell’Italicum. Renzi, infatti, non è più dell’avviso che non si deve toccare. Ma ha posto un problema: c’è la maggioranza per toccarlo? Che è una cosa diversa. L’apertura di Renzi è importante perché la modifica della legge elettorale nella direzione voluta dagli oppositori, non solo interni, potrebbe anche risolvere la questione referendum sulla riforma costituzionale. Perfino il M5S era per rivedere l’Italicum; ora non lo è più per evidente opportunismo.
A questo punto potrebbe aprirsi un tavolo di trattative, al quale far partecipare anche il centrodestra, sia nuovo che vecchio, senza nascondimenti e mascheramenti, come è avvenuto in passato (Patto del Nazareno, Verdini). Ma soprattutto senza calcoli penelopei da parte di nessuno, tessendo insieme con gli altri e nello stesso tempo scucendo in altra sede, come hanno fatto in passato le commissioni investite del compito.

Legge elettorale e riforma costituzionale riguardano tutte le forze e le idee politiche e di conseguenza tutti i cittadini. Sarebbe veramente un bello sforzo di buona volontà giungere ad un risultato concordato e condiviso, se non proprio da tutti, almeno dalla parte più rappresentativa della democrazia italiana. Finora le due cose sono state tenute separate, ma la realtà politica dimostra che esse vanno insieme e la loro validità non può durare una stagione o una carriera. 

domenica 3 luglio 2016

E' il terrorismo islamico la nuova guerra


Questa volta è toccato a noi. Nove dei venti uccisi in un ristorante nei pressi dell’Ambasciata Italiana a Dacca, capitale del Bangladesh, venerdì, 1 luglio, sono nostri connazionali, persone di pace e di lavoro. Era da tempo che gli italiani erano presi di mira in quel paese. L’anno scorso, il 28 settembre, fu ucciso Cesare Tavella, un agronomo che era andato per insegnare tecniche di coltivazione.
Siamo stati attaccati perché “crociati”, credenti in un dio che non è il loro, il dio dell’Islam. Hanno ucciso barbaramente al grido di “Allah è grande”. Lo hanno fatto in maniera diversa da altri attacchi terroristici, utilizzando in gran parte armi da taglio, per produrre un effetto più devastante sul piano psicologico.
Allah sarà pure grande; è l’unico Dio, a cui loro hanno dato un nome diverso da quello che abbiamo dato noi. Ma i musulmani che a quel grido massacrano sono esseri abietti, macellai di uomini, distruttori di civiltà. Cercare di capirli, fuori da una logica di punizione, è una resa nei loro confronti.
I tanti dottoroni che si aggirano negli studi televisivi, islamici e cattolici, i primi arroganti e arrabbiati, i secondi più soft e quasi remissivi, insistono nel dire che l’Islam non c’entra col terrorismo; che i terroristi sono dei poveri disgraziati a cui si dà qualche soldo e s’inculca il delirio religioso per trasformarli in combattenti per la fede. Ma sono argomentazioni false, palesemente ipocrite. In tutto il mondo il terrorismo islamico ha una motivazione di base che è il credo religioso, la fede nella guerra santa in nome di Allah. Non si capisce perché da noi si insiste a dire che l’Islam non c’entra o addirittura che è una religione di pace.
Se non si parte dalla presa d’atto della realtà, il terrorismo islamico continuerà a mietere vittime in ogni parte del mondo nell’equivoco cristiano e occidentale di aver a che fare con dei provocatori che vogliono destabilizzare il mondo usando i valori religiosi. Nel frattempo l’Islam conquista pacificamente sempre più spazi nel mondo cristiano.
Che significa prendere atto? Certo non considerare tutti i musulmani come dei terroristi. Non solo perché non è praticabile, ma soprattutto perché è ingiusto. E, allora, che fare?
Passare dalla difesa all’attacco, come dalla difesa all’attacco si passa quando è in corso una minaccia al paese. Il che significa che non bisogna aspettare di prendere qualche sospettato ed estradarlo, ma andare con tutti i mezzi di cui disponiamo alla loro cattura e alla loro messa nelle condizioni di non nuocere. Cosa possibile sul nostro territorio; ma assai più complicato in casa loro, dove ci attaccano in maniera più agevole. Il Bangladesh è un paese a larghissima maggioranza di religione islamica; e viene considerato di un islamismo moderato. Figurarsi!  
Allora significa adottare una strategia di forza, per lanciare un messaggio di forza e far capire che i cristiani dell’Occidente non si fanno martirizzare come i cristiani dei primi secoli cantando e recitando preghiere. E’ una sfida che va raccolta per dare risposte di sicurezza alla nostra gente e al mondo.
E’ nel quadro di una simile strategia che va fermato il flusso di immigrazione che produce tanto denaro ai terrroristi, i quali poi, con quel denaro, organizzano e compiono stragi.
L’Occidente, l’Europa soprattutto, che si vanta di aver garantito la pace per settant’anni, deve prendere atto che le maniere forti sono sempre opzioni necessarie. Del resto in questi anni di pace qualche guerruccia qua e là c’è stata, a cui non siamo stati estranei neppure noi italiani. Ma soprattutto occorre riconoscere che ora è in corso una nuova guerra, diversa dalle precedenti, volta contro di noi senza mai che fosse dichiarata da uno stato estero, riconosciuto e sovrano.
E’ dimostrato che la forza paga. L’Isis, in questi ultimi tempi, dopo gli attacchi dell’aviazione militare russa, ha conosciuto pesanti sconfitte, è stato costretto ad arretrare. Questo ha comportato l’intensificarsi degli attentati, perché quando l’Isis arretra sul campo si vendica portando la guerra nei teatri, nei ristoranti, nelle stazioni, negli aeroporti, nei luoghi cioè che sono punti sensibili e nello stesso tempo simboli della nostra civiltà.

Prendere atto significa soprattutto avere il coraggio di rispondere ad una situazione difficile e drammatica con modalità e mezzi eccezionali. Il terrorismo islamico non può essere considerato alla stregua di tante altre emergenze che in nome di malintesi valori politici sono stati lasciati che si sgonfiassero da sé. Pensiamo al terrorismo politico degli anni Settanta in Italia, con le Brigate Rosse e Nere che insanguinarono il paese, uccidendo persone singole e compiendo stragi. Il terrorismo islamico richiede una diversa strategia, riconoscendo prima di tutto il nemico e non riconoscendogli ragioni di sorta. E’ guerra e in quanto guerra va affrontato con la guerra. Diversa quanto vogliamo, ma guerra è. L’Europa non può dimenticare chi è, che cosa rappresenta ancora nel mondo. Svegliarsi dal torpore per lei non è una scelta, oggi è un obbligo. Oggi è toccato a noi, come ieri era toccato a Spagna, Inghilterra e Francia. Non è un problema solo nostro, è un problema globale, a cui ogni paese deve dare un contributo di determinazione e di forza.