venerdì 23 ottobre 2020

Terrorismo islamico: l'Europa deve difendersi

 

Il terrorismo islamico produce in Europa e nel mondo martiri per un verso e vigliacchi per un altro, qualche vittima e caterve di pusillanimi. Non nascondiamocelo. Per una vittima, sono milioni i vigliacchi che tacciono o si limitano a manifestare in massa. Occorrerebbe recuperare il senso personale del coraggio e allontanare da sé quel calcolo egoistico del tanto a me non succede o peggio ancora tanto in Italia non può accadere. E’ l’Occidente cristiano che viene colpito: è l’Occidente cristiano che deve reagire. Se uno, dunque, non vuole sentirsi vigliacco, certo non gli appare scritto in fronte, deve predisporsi al martirio o battersi. Che non significa necessariamente ricorrere a mezzi estremi di difesa o di attacco personali, ma impegnarsi perché la politica del suo paese utilizzi i suoi strumenti di potere per sventare la minaccia, faccia leggi ad hoc e le faccia rispettare, nel più puro spirito laico. L’indifferenza, come spesso si vede in Italia, o il piccolo calcolo, tanto qui non accade, sono segni di pusillanimità e di resa.

Le istituzioni finora hanno reagito – penso a Macron in Francia – con un insignificante slogan, “l’islamismo non passerà”, che in buona sostanza significa che bisogna convivere col terrorismo come si convive col Coronavirus. C’è e, siccome non lo si può eliminare, occorre conviverci. Con l’aggravante che mentre per il Coronavirus si spera nel vaccino, per il terrorismo islamico semplicemente si dispera. Convivere col terrorismo perciò significa che da un momento all’altro si può essere decapitati per strada come accadde in Olanda qualche anno fa al regista Theo van Gogh per aver fatto un film sulle donne e l’Islam o come è accaduto in Francia in tempi più recenti ai redattori della rivista Charlie Hebdo o ai cittadini ignari di Berlino o di Nizza investiti da un camion lanciato contro di loro mentre facevano spese per Natale o passeggiavano sul boulevard. Le modalità cambiano, le ragioni e gli effetti purtroppo no: nessuno deve sentirsi al sicuro. Per essere colpiti non è necessario rendersi autore di un presunto insulto all’Islam, come nel caso di Van Gogh e Charlie Hebdo, ma è sufficiente essere parte di una realtà percepita come ostile, espressione di una civiltà da colpire e abbattere per la sua identità. D’altra parte dove l’islamismo regna sovrano si attaccano le chiese cristiane, si incendiano e si spara sui fedeli.

L’ultima efferata esecuzione pubblica, con la decapitazione in Francia di un professore, Samuel Paty, reo di aver fatto vedere in classe ai ragazzi le caricature di Maometto pubblicate dalla rivista Charlie Hebdo allo scopo di far capire che cosa a volte significhi la libertà di pensiero, potrebbe legittimare una perdita di pazienza, un basta ad un fenomeno che si sta protraendo da diversi anni. Se l’opinione pubblica, per ora incline alla sopportazione, dovesse spostarsi su posizioni più oltranziste sarebbero guai seri per tutti.  

Quando il mondo non sopporta più e perde la pazienza, si arriva a conseguenze che potrebbero comportare rimedi più gravi milioni di volte del male. Ma non si può neppure far finta di niente dando risposte evasive, generiche, scontate, di normale amministrazione, come possono essere indagini giudiziarie per colpire i colpevoli. Certo, si devono fare anche quelle. Un attacco terroristico non è un reato qualsiasi alla persona. Chi muore per quell’attacco non può essere considerato una normale vittima e l’autore del gesto criminoso un normale assassino, motivato o da forti ragioni personali o da futili motivi. La vittima di un atto terroristico islamista è il simbolo di tutta una nazione, di tutta una religione, di tutta una civiltà. A Parigi non è stato colpito un professore, ma la scuola, la libertà di insegnamento, l’intera comunità nazionale, la civiltà europea. La risposta non può essere dunque che collettiva, comunitaria, istituzionale, e deve trovare elaborazione ed esecuzione nei poteri dello Stato. Se le istituzioni non si assumono per tempo la responsabilità di dare risposte concrete finiscono per lasciare alla furia popolare l’incarico di farlo. Anche qui tutto diventa simbolico. Se uno si arma e se ne va in giro a sparare sui primi migranti, presumibilmente islamici che incontra, come è già accaduto, è simbolo di una collettività che ha perso la pazienza contro i portatori di minaccia terroristica; di rispondere al terrorismo con un altro terrorismo. Una simile eventualità è da scongiurare, perché sarebbe il trionfo della barbarie, il ritorno ad uno stato di natura.

Per difendersi dal terrorismo islamico non c’è che un modo. Cercare di ridurre quanto più possibile l’ingresso nei nostri paesi di gente che non ne condivide le leggi, considerando che per gli islamici le leggi dello Stato sono le leggi di Dio. E’ questo un punto dirimente: per noi un conto è Dio un altro lo Stato. Se un non credente offende il mio Dio in un modo qualsiasi io mi posso tutt’al più indignare e scandalizzare, ma non vado oltre. Se un islamico si sente offeso da una vignetta su Maometto – meglio non offendere mai la sensibilità religiosa di nessuno, comunque, per principio! – e ricorre all’eliminazione di chi l’ha fatta o ne condivide il gesto, semplicemente non doveva stare in Europa, significa che le nostre autorità hanno fatto male a farlo entrare o ancora peggio ad illudersi di regolarizzarlo. A questo punto il credente islamico deve capire di essere incompatibile con le leggi del paese che lo ospita e se ne deve andare in grazia del Dio di tutti. Se insiste a rimanere in Europa diventa ipso facto un islamista, che all’occorrenza colpisce o condivide chi colpisce il presunto nemico della sua religione.

Al punto in cui siamo occorre una iniziativa forte, tendente ad una bonifica generale, eseguita con criteri di legge, senza caccia alle streghe ma neppure alla carlona. L’Europa, che già fece male a non inserire nella sua Costituzione le radici cristiane, deve prendere atto dei rischi a cui sta esponendo i suoi abitanti.