martedì 27 giugno 2017

A Lecce vince Salvemini


Quando si parte il gioco della zara – dice Dante nel VI del Purgatorio – colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara”. Normale che dopo una sconfitta ognuno rifaccia il percorso per trovare gli errori compiuti e i responsabili.
Per la sconfitta di Mauro Giliberti, candidato sindaco del centrodestra nelle Amministrative leccesi dell’11-25 giugno, è accaduta puntuale la conta degli errori e l’indicazione di chi li avrebbe compiuti. Ma più che Giliberti, lo sconfitto, sono i suoi mentori a cercarli. E, come prima cosa, è stata messa sotto accusa l’improvvida scelta di un candidato che con la politica non aveva avuto fino a quel momento nulla a che fare.
Bravo conduttore di fortunate trasmissioni a “TeleRama” e poi inviato di “Porta a Porta” di Bruno Vespa per la Rai, Giliberti si è impegnato a fondo nella campagna elettorale, ha messo la faccia per un’impresa partita male, si è presentato col garbo che lo ha sempre contraddistinto e sorprendentemente con buone competenze anche politico-amministrative, sapendo individuare problemi cittadini ed emergenze sociali, proponendo soluzioni e dando prospettive. Nei confronti diretti col suo antagonista Carlo Salvemini non solo non ha sfigurato ma è riuscito perfino a metterlo alle corde quando gli ha rinfacciato l’asimmetrica e discordante alleanza con Delli Noci, candidato proveniente dal centrodestra sconfitto al primo turno. Evidentemente l’aver avuto a che fare per tanti anni con politici e amministratori ha reso Giliberti “del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”, per tornare a Dante. 
Giliberti ha riconosciuto subito la sconfitta, ritenendola forse assai più probabile, se non scontata, di tanti altri esperti leader del suo schieramento, avendo anche per il vincitore parole politicamente opportune e interessanti. Ma i leader del centrodestra hanno fatto subito processi a uomini e a cose: Raffaele Fitto, la Poli Bortone e perfino la neve caduta in abbondanza a gennaio, quando in incontri se non segreti comunque silenziosi si puntò sulla candidatura di Giliberti.
A Mauro personalmente voglio bene. Mi ha invitato tante volte alle sue trasmissioni. Ho veramente gioito per lui quando seppi del suo successo in carriera con l’approdo a Rai Uno. Ma la sua candidatura mi parve subito come un atto di arroganza politica e di faciloneria di chi l’aveva disposta. Come dire: noi siamo il centrodestra e siamo talmente consapevoli della nostra forza che possiamo candidare un estraneo al mondo della politica, sicuri di vincere al primo turno come nelle precedenti quattro elezioni amministrative. Il messaggio era questo, almeno per come poteva essere recepito dall’elettorato.
Allora, la domanda: perché uomini politici scafati come Perrone, Fitto, Poli Bortone et similes hanno tirato fuori il coniglio dal cilindro – absit iniuria verbis – dando alla città di Lecce un messaggio offensivo? In politica chi insulta l’elettorato, sia come sia, facendogli capire di essere un povero fesso che beve tutto quello che gli propini, va incontro ad una giusta e salutare scoppola. Viene il sospetto che non di troppa sicurezza si sia trattato ma di calcolo nella scelta di Giliberti. Pur di non cedere a nessuno dei probabili eredi politici del centrodestra leccese, con buone probabilità di altri dieci anni di governo cittadino, i responsabili della scelta hanno pensato: mettiamo Giliberti, se vince tanto di guadagnato; e se perde, ha perso uno che non ha niente di politico da perdere; e intanto noi ci prepariamo per future competizioni.
In politica – mi scusino i lettori per queste mie incidentali – tutto ciò che accade a Roma accade anche nel più piccolo e sperduto paesino, perché la politica ha le sue leggi; e gli uomini tanto più istintivi sono, tanto più obbediscono a quelle leggi. Mi ricordo di un tale a Taurisano che, in occasione di candidature a sindaco, quando vedeva vacillare la sua, per stornare l’ambiente, tirava fuori una proposta che non stava né in cielo né in terra e perciò destinata a fallire; fino a quando non si arrivava, anche per stanchezza, alla sua. Guarda caso, era anche quel tizio di destra.

A Lecce la candidatura di Giliberti è passata, per arroganza o per calcolo poco importa. L’elezione, invece, si era vista problematica già al primo turno con quel voto disgiunto in favore di Salvemini che la diceva lunga. L’elettorato, che in genere si esprime più liberamente e senza calcoli al primo turno, al secondo si è accorto che tra i due contendenti chi aveva le carte in regola per fare il sindaco era Salvemini. Il mettere nel presepe amministrativo un santo qualsiasi, nel nostro caso una specie di Santo Stefano, al posto di San Giuseppe, al ballottaggio è risultato in tutta la sua incongruenza. E, infatti, Giliberti si è preso le pietre del protomartire. No, amici, il presepe va fatto coi pupazzi giusti. Nelle amministrative conclusesi non era Giliberti il “santo” giusto. Ma Mauro fa bene a non mollare e a prepararsi per futuri cimenti, perché il centrodestra di Lecce ha bisogno di lui. Salvo che non voglia mettere una pietra sopra e tornare alla sua professione. 

domenica 18 giugno 2017

A Lecce c'è chi ha già vinto, ma...


I sistemi elettorali sono determinanti a far vincere un partito, un candidato o uno schieramento; sono così determinanti che a volte fanno aggio perfino sulla volontà degli elettori. Lo dicono da sempre gli scienziati della politica o i politologi, come forse meno pretenziosamente si chiamano. Cosa significa? Che con gli stessi risultati ma con un diverso sistema elettorale invece di uno potrebbe vincere un altro. Tanto, per esemplificare. A Palermo basta raggiungere il 40 % più uno dei votanti per essere eletto sindaco. Con questo sistema elettorale a Lecce Mauro Giliberti sarebbe già sindaco. Invece, che cosa potrebbe accadere? Che sindaco potrebbe diventare Carlo Salvemini, vincendo il ballottaggio di domenica 25 giugno.
Se così andassero le cose, la legge sarebbe rispettata; ma la volontà dell’elettorato sarebbe tradita. Dura lex sed lex, io andrei oltre: mala lex sed lex. E dunque, amen!
Il responso elettorale di domenica scorsa, 11 giugno, è stato chiarissimo. Sommando i voti di Giliberti e quelli di Delli Noci, che pure di centrodestra è – ha fatto parte dell’Amministrazione Perrone – si arriverebbe ad una percentuale abbondantemente oltre.
Ma chi per una serie di motivi, magari anche giusti, invoca la discontinuità con le precedenti amministrazioni di centrodestra vorrebbe che Delli Noci appoggiasse Salvemini invece di Giliberti, come se si potesse cambiare posizione politica come si cambia una cravatta. Ma siamo in Italia, patria del diritto di strafottersene perfino del diritto.
Lecce la vedo col cannocchiale s’intende – vivo in provincia – e dunque non conosco i retroscena della politica leccese, ma la situazione la vivo con maggiore serenità; sicuramente maggiore rispetto ai tanti risentiti dell’ultima o della penultima ora. Leggo di alcuni che, tradizionalmente di destra, ora vorrebbero che vincesse il centrosinistra. Valli a capire!
Tra i due contendenti Salvemini sembrerebbe in possesso di un maggiore carisma rispetto a Giliberti, anche per ragioni di età. Se si dovesse scegliere a prescindere, avrebbe sicuramente qualche vantaggio. Non a caso il voto disgiunto – altra allegra trovata italiana, il trasformismo simultaneo! – lo ha premiato al primo turno. Quante probabilità avrebbe poi di amministrare fino al termine sarebbe da vedere. Sarebbe problematico con una maggioranza consiliare risicata o addirittura inesistente. Tutto dipenderà dall’attribuzione dei seggi, nient’affatto scontata. Evviva la certezza del voto, che va a farsi benedire!
Giliberti si fa forte dei suoi voti che vede trasformati in seggi. Ma potrebbe non essere così. Salvemini spera in Delli Noci, il quale probabilmente avrebbe voluto essere lui il candidato sindaco dello schieramento di centrodestra.
Ma veramente Delli Noci ha il potere di riversare i suoi voti su Carlo Salvemini? Personalmente avrei dei dubbi. I voti non sono noccioline che si possono travasare in un sacco piuttosto che in un altro. I voti appartengono agli elettori. Chi ha votato Delli Noci ha pensato di esprimere un voto sempre per il centrodestra ma guidato da un candidato diverso da Giliberti. Ora che il primo turno ha emesso le sue sentenze gli stessi elettori sono liberi o di restare fedeli al centrodestra e dunque alla continuità o tentati di seguire il candidato di centrosinistra per la discontinuità.

A parte tutti questi ragionamenti, del tutto teorici, ci sono forti perplessità sulla disinvoltura degli attori di questo teatro, i quali, fanno il gioco delle tre carte, che, essendo coperte, una vale l’altra. Le carte, invece, devono essere scoperte, perché non tutte valgono allo stesso modo. Potrei pure avere maggiore simpatia o stima nei confronti dell’uno o dell’altro, ma se al primo turno ho votato il centrodestra, Giliberti o Delli Noci, o il centrosinistra, Salvemini, al ballottaggio non potrei fare che la stessa cosa. Se no, per quanto coperto dal segreto del voto – m’immedesimo nel semplice elettore – avrei un po’ di mal di stomaco se cambiassi. Si obietterà, ma allora perché il ballottaggio? Perché in Italia si tende a complicare o a stravolgere tutto, e più di ogni altra cosa la volontà dei cittadini. I quali una domenica sono di destra e due domeniche dopo potrebbero essere di sinistra. E c’è chi vorrebbe che tanto accadesse; non solo, ma addirittura lo ritiene giusto.

domenica 11 giugno 2017

Il grande vecchio di oggi è Giorgio Napolitano


C’è sempre un grande vecchio nella storia d’Italia, in genere occulto. Quello di oggi non si nasconde, è Giorgio Napolitano, sopravvissuto a se stesso e pronto a difendere le sue scelte quirinalesche, a partire da quella famigerata del 2011, quando fece fuori Berlusconi per mettere in sella Mario Monti. Sono bastate la sua sortita contro l’accordo fra i quattro (Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini) sulla legge elettorale e la sua sparata contro le elezioni anticipate che Pd e M5S corressero ai ripari, facendo fallire l'accordo. Ed ora, si voterà nel 2018. Ancora una volta il vero obiettivo da colpire era Berlusconi. Napolitano vede rosso, come i tori, quando s’intravede il recupero del signore di Arcore. Vede crollare il suo castello fatato.
Ora i furbastri del Pd e del M5S si rinfacciano reciproci tradimenti. Gli uni e gli altri hanno tradito il popolo italiano. Sanno che non è così e che la loro è una messa in scena.
Ci è capitato in passato di parlar bene di Napolitano; continuiamo a farlo. Fra una caterva di nanerottoli presuntuosi è un gigante. Esserlo in politica è già un fatto positivo. Ma lo è per il bene del paese o per se stesso, come spesso si giudicano i politici in Italia? Lo rilevava proprio Mario Monti dalla Gruber, venerdì sera, 9 giugno. Ha detto Monti, riassumo: la stampa italiana non giudica le scelte politiche per la ricaduta benefica o malefica sul paese, ma per successo o l’insuccesso di chi le fa. E’ l’eterno equivoco machiavelliano. Eppure Machiavelli è chiaro: si può e si deve fare perfino il male, ma sempre per il bene dello Stato; chi opera per se stesso è un tiranno.
Una legge elettorale era sul punto di essere varata, finalmente. La sua mancanza è una vergogna per un paese come l’Italia, che ha una storia grandiosa. Poteva essere una cattiva legge, ma a quel punto era una legge. Mala lex sed lex. E lo sa chi capisce di politica e di diritto quanto sia preferibile una cattiva legge alla mancanza di legge.
Sono anni che giochiamo assurdamente al latinorum. Si partì col mattarellum, si continuò col tatarellum, col porcellum, con l’italicum, col consultellum, col rosatellum, col tedeschellum e penso proprio di non ricordarne qualcun altro; ma sempre alla ricerca del fottutellum.
Giochiamo noi italiani con la cosa più importante di una democrazia: la legge elettorale. Ci sono paesi in Europa che votano con una legge elettorale in vigore da centinaia di anni. Noi ne facciamo una ogni due-tre anni e non riusciamo neppure, perché nessuno pensa al bene del paese e della democrazia ma al proprio tornaconto partitico. Magari parte bene, poi, strada facendo viene ridotta ad una porcata, come disse Calderoli per la sua legge, detta poi porcellum.
La soglia di sbarramento al 5 % non può piacere a chi non raggiunge neppure il 2-3 %. Cosa conta la governabilità a fronte della rappresentatività? Cosa conta il fare a fronte del chiacchierare, del brigare, dell’inciuciare continuo?
Ma rappresentano chi questi iperrappresentativisti? Sono quattro gatti che di stare insieme con altri non vogliono. Ci sono quattro o cinque frasche di sinistra, quattro o cinque frasche di destra, che impediscono che si faccia una legge da cristiani. Quel che manca in Italia è uno che faccia veramente politica. Ce ne sono troppi che chiacchierano dalla mattina alla sera senza costrutto alcuno, anzi pronti a buttar giù tutto quello che si cerca di costruire.
Si sono infuriati contro l’accordo i nanerottoli, temevano di perdere l’osso. Vogliono le preferenze, non vogliono le liste bloccate. Vogliono la rappresentanza al doppio zero come la farina. Vogliono…vogliono…vogliono… e intanto passa il tempo e scoprono che poi dopotutto Gentiloni governa bene. Sì, ma che fa e chi lo ha votato? E’ il terzo governo uscito dal cilindro: Letta, Renzi, Gentiloni. Il potere politico in Italia è come il marchese del grillo: io so’ io – dice agli italiani – e voi nun siete un cazzo.
Le democrazie muoiono anche di democratite acuta quando diventa cronica e non consente più di governare. Oggi rischi del genere non se ne corrono, non già perché ce lo impedirebbe lo stare nell’Europa, ma perché gli italiani si sono rincoglioniti. Tutto quello che hanno saputo esprimere è Beppe Grillo, un comico che sa solo fare spettacolo a suon di volgarità, di insulti e di minacce; che non riesce ad intraprendere una via per paura di sbagliare, anzi convinto di sbagliare. La politica, infatti, non è mai quello che era il giorno prima. Grillo sa che la tomba del grillismo è diventare partito, diventare cioè come tutti gli altri. Lo sa a tal punto che smatassa oggi quel che ha filato ieri. E ci sono osservatori politici e politici medesimi che inneggiano a Grillo per essere riuscito ad assorbire la protesta populistica strappandola a pericolosi populisti e incanalandola nelle forme costituzionali. Il che significa che la giusta protesta populista è stata svuotata e resa un gioco di confusa e inutile rappresentanza.
In realtà le cose stanno diversamente: i grillini sono figli di una cultura snervata, di una malintesa politica, di un’ignoranza della storia e della cultura italiana. I grillini sono l’espressione più mortificante dell’ignoranza coltivata dalla scuola italiana, che da trent’anni a questa parte ha smesso di formare le generazioni sulla base della storia e di ogni altro sapere. A vederli i grillini appaiono in tutta la loro contraddittorietà: sono arrabbiati contro qualcuno e qualcosa ma mai sereni verso qualcuno o qualcosa. Di qui le difficoltà che incontrano, quando giungono al potere, di governare le realtà comunali e cittadine.

In una simile desertificazione culturale e politica basta che un “vecchierel canuto e bianco”, per dirla con un poeta dimenticato come il Petrarca, si agiti poco poco e l’ira funesta dei cacchielli del Pd e del M5S si ritirino in buon ordine con la coda fra le gambe.    

martedì 6 giugno 2017

Juventus: maledizione e stile


Ancora una volta la Juventus in finale della Champions League, una volta Coppa dei Campioni, ha naufragato, smentendo tutto il bello e il buono che aveva fatto per giungere all’appuntamento finale. Poiché la Juve porta con sé molti caratteri del popolo italiano e milioni sono i tifosi, in Italia soprattutto, per spiegare la sua ennesima débâcle sono stati scomodati molti ragionamenti, quasi sempre dettati o dalla frustrazione, se fatti da juventini, o dall’odio viscerale se fatti dagli antijuventini. Non è un caso che una delle spaccature antropologiche del popolo italiano è tra juventini e antijuventini, comprendendo questi ultimi la rimanente parte dell’universo tifo.
C’è chi è convinto che grava su di lei una maledizione, dato che la Juve in finale perde sempre, anche quando la squadra avversaria è modesta e di gran lunga a lei inferiore. La Juve, insomma, come Montezuma o Tutankhamon.
Più semplicemente la Juve, quando arriva a giocarsi la finale ha già vinto il Campionato e qualche volta anche la Coppa Italia, come quest’anno; arriva perciò stanca e paga. Affronta l’importantissimo appuntamento non come qualcosa da vincere sul campo imponendosi all’avversario fino allo spasimo, ma quasi come un epilogo scontato, una formalità, o col favore del calcolo delle probabilità: fusse ca fusse è la volta bbona. Ricordo ai tempi dell’Università che c’erano studenti che invece di pensare all’esame pensavano al giorno dopo, rimuovendo l’oggetto che doveva essere del massimo impegno. Così ha fatto ancora una volta la Juve, più che pensare alla partita, ha pensato al triplete, come ad un obiettivo raggiunto.
Chi ha ascoltato Allegri in conferenza stampa prima della partita ha capito che il tecnico juventino era fortemente preoccupato e cercava di esorcizzare un risultato, che sapeva perfettamente essere, quanto meno, in bilico. Sapeva anche di avere due uomini chiave del suo gioco, Dybala e Higuain, fuori forma. Nelle ultime partite di Campionato lo avevano dimostrato chiaramente. Allegri avrebbe dovuto coraggiosamente tenerli in panchina e farli entrare caso mai a partita avviata, per far loro sprigionare quella rabbia che in genere contraddistingue i calciatori bravi ma momentaneamente non in forma. Invece li ha portati in campo, con il risultato che conosciamo.
Per intenderci, le finali di quel livello i calciatori, tutti, dovrebbero affrontarle con lo spirito e l’agonismo di un Mandzukich. Non perché il croato abbia firmato un bellissimo gol, ma perché si batteva alla pari con gli avversari; come aveva fatto, in un crescendo verso la fine della stagione, in Campionato e in Coppa Italia.
Maledizione? Forse, ma si tratta di qualcosa di razionale, perché, a disamina della partita, ci si accorge degli errori pacchiani compiuti. La Juve a Cardiff ha perso perché è arrivata con dei giocatori importanti fuori forma – e questa è sfortuna – e con un tecnico che non ha avuto il coraggio di scelte diverse – e questa non è sfortuna, ma mancanza di capacità di affrontare i problemi come le circostanze vogliono. I tecnici stranieri ma perfino i nostri, quando allenano all’estero, riescono a tentare soluzioni che qui in Italia neppure si sognano di adottare. In Italia tutto è fatale, nessuno sfida il destino, che poi nessuno conosce quale sia.

Si potrà insistere con la maledizione. In fondo si è tifosi anche per il bello dell’irrazionale. E sia, allora gli juventini accettino questa loro condizione come componente ineliminabile del loro essere, del loro vincere e del loro perdere, del loro stile, come orgogliosamente chiamano un vero o presunto modo di approcciarsi al tifo che li rende unici. La Coppa dei Campioni ieri, la Champions League oggi, è diventata un traguardo troppo atteso, troppe volte sfuggito, perché possa arrivare facile facile, come è capitato anche a squadre italiane. La maledizione del risultato si è intrecciata a volte con gli eventi tragici che hanno accompagnato l’evento. Ricordiamo la finale di Bruxelles e la tragedia sfiorata di Piazza San Carlo quest’anno. Il tifo per la Juve è fatale. Facciamocene una ragione.