domenica 27 novembre 2016

Renzi e l'insalata postreferendaria


Lo spettacolo offerto da Matteo Renzi nei dibattiti sostenuti per il referendum del 4 dicembre ha dato l’idea di quanto ormai il “trumpetto” fiorentino sia cotto. Non è riuscito una sola volta a scartare il malloppo della sua riforma, quasi avesse paura di far vedere cosa nasconde nel cartoccio. Slogan e slogan, ripetuti come mantra: chi vuole che tutto cambi, voti sì; chi vuole che nulla cambi, voti no. Ha ammesso di aver sbagliato a personalizzare il voto referendario. Il che, se per un verso gli fa onore – è sempre bene ammettere gli errori – per un altro dà ragione a quanti avevano visto in lui un nuovo temerario Fetonte. E, del resto, a trent’anni, cosa poteva aver appreso dalla vita e dai suoi saperi? Tanti ne aveva quando è saltato sul carro del Sole. Ha fatto il presidente della provincia e il sindaco di Firenze – cose non da poco, intendiamoci – ma assurgere a capo di governo, senza passare dall’esperienza elettiva, è un’altra cosa. Lo dimostra nel suo essere rimasto un provincialotto che ancora non crede dove si trova. Spesso “sculetta” con la faccia e si volta indietro per vedere se qualcuno lo guarda, come una ragazza civettuola e stupida. L’altro errore marchiano è aver appoggiato la Clinton alle elezioni americane. Non è stato un errore di valutazione, ma di metodo, tipico di chi non ha esperienza.  
La questione dell’età per un politico non è senza conseguenze. A proposito della riforma, in particolare del Senato e della sua riduzione risarcitoria per politici di serie inferiore, è inevitabile che la questione si ampli. Il Senato – lo dicono la storia e la filologia – è l’assemblea degli anziani o dei saggi, come una volta si diceva, comunque di persone mature che per età ed esperienze possono dare all’azione amministrativa di un paese contributi di saggezza, di prudenza e di equilibrio. Il fatto che per essere eletti, secondo la Costituzione, occorra avere un minimo di quarant’anni ne spiega la ratio che è alla base. Il Senato bilancia la Camera dei deputati, un’assemblea formata da persone più giovani, eleggibili con un minimo di venticinque anni. L’equilibrio sta tutto qui, oltre al rapporto numerico, 315 senatori contro 630 deputati. E lasciamo stare camera alta, una volta di nomina regia, e camera bassa elettiva. In passato l’età era fondamentale per tutto.
Oggi è il trionfo del giovanilismo. Gli anni non compiscono più i panni, ma aggiungono malanni e …danni. Questa sembra essere oggi la nuova valutazione della vita. L’età non solo non conta ma addirittura è un fattore negativo. Si ritiene che l’esperienza, che una volta non poteva venire che dagli anni, oggi sia come un decoder incorporato; non viene dalle prove della vita, ma dalla fabbrica, ovvero dalla nascita. Per cui, o ce l’hai o non ce l’hai. E se ce l’hai, va sempre più scemando man mano che passano gli anni. Insomma: Vae senioribus!  E’ un’autentica rivoluzione: la Camera alta diventa Camera nana e la Camera bassa diventa Camera unica.
Ma – si dice – a che serve un Senato che fa le stesse cose della Camera? Un doppione che quando va bene è inutile e quando va male frena l’azione del governo, anzi ne può provocare la fine, gettando il paese nella precarietà? Oggi le condizioni sono assai diverse da quelle del 1946; anche se ci sarebbe da dire assai sulle cause delle lungaggini italiane. Allora, via il bicameralismo perfetto. Si scopre che perfino i Padri Costituenti erano dello stesso parere e che a questo sistema si piegarono per paura che il Pci vincesse le elezioni a danno della Dc e del paese.
Ora, ci sta pure che il Senato venga addirittura abolito; a questo punto sarebbe anche meglio. Non ci sta che venga mortificato e fatto scadere in non si capisce che ruolo. Basti considerare che poiché i senatori per effetto della riforma vengono nominati tra i consiglieri regionali, per i quali basta avere diciotto anni per essere eletti, potremmo ritrovarci con senatori con un’età addirittura inferiore a quella dei deputati. Sarebbe come se i padri fossero più giovani dei figli; come se i figli nominassero i padri. Ma, quando si capita in mano a ragazzini – dice un noto proverbio dialettale – si finisce “o cacati o pisciati”. E i luminari del diritto costituzionale favorevoli al Sì dove stanno?
La demolizione del Senato si carica perciò di valenze simboliche importanti, che afferiscono una visione della vita assai più complessa. Il Senato poteva rimanere, semmai ridotto di numero, ma con un compito preciso e importante. Si poteva privarlo del voto di fiducia al governo, ma era importante lasciarlo elettivo. Invece si è pensato di invalidare la volontà sovrana del popolo privandolo del diritto di eleggere i senatori che vuole. Essi, in quanto persone di quarant’anni, non devono contare: questo è il punto. E se si osserva che i quarant’anni di oggi sono i trenta di ieri, a maggior ragione la dirigenza politica non va affidata, senza contrappesi, a persone di trent’anni, che corrispondono a chi prima ne aveva venti. Questa mania di azzerare tutto, di uniformare tutto, sta sconvolgendo la società: non ci sono più maschi e femmine, non ci sono più giovani e anziani; tutti sono tutto. E’ un arricchimento o è un impoverimento? Ai posteri – direbbe Manzoni – l’ardua sentenza. Noi, che difficilmente saremo posteri, lo diciamo oggi: è un gravissimo impoverimento. Chi vivrà, vedrà. Di avere torto non si deve aver paura. La società ha bisogno di ritrovare il suo equilibrio di diseguaglianze, di dissimiglianze, di generi, di età, di competenze e di ruoli, su una base di diritti universali, condivisi. Il caos può essere il ritorno all’inizio; ma passa sicuramente dalla fine.

Per tornare a Renzi, che un po’ di simpatia la fa con quell’aria di chi avverte la batosta, si può dire che abbia già perso, perché comunqe il paese dal referendum uscirà spaccato. Non dice cosa farà all’indomani del voto; ma è ormai di tutta evidenza che dovrà recarsi dal Presidente della Repubblica, a prescindere dall’esito, per essere o mandato a casa o reincaricato per fare un nuovo governo. Ecco, questo sì dipenderebbe da chi vince. Ma, a quel punto, ridotto ormai ad una patata lessa, Renzi può esser buono solo per un’altra insalata, alla nazarena.

domenica 20 novembre 2016

Acquarica: quel monumento a Moro fatto saltare


Erano trascorsi esattamente quattro anni da quando il 9 maggio 1978 fu trovato in via Caetani a Roma il cadavere di Aldo Moro nella Renault 4 rossa fra Via delle Botteghe Oscure, sede del Pci, e Piazza del Gesù, sede della Dc. Era stato ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia. 
Moro non era amato dagli italiani e neppure dai democristiani, a parte una minoritaria componente di seguaci che non si era mai formalizzata in corrente, come ce n’erano tante in quel partito. Ma la morte, avvenuta dopo la strage dei suoi cinque uomini di scorta e un lungo processo, detto del popolo, aveva creato intorno a lui un alone quasi di martirio. Altri erano caduti in quegli anni sotto il fuoco del terrorismo rosso e nero; altri ne sarebbero caduti dopo. Il Paese rinnovava dolore e preoccupazione ogni volta che si verificava l’ennesimo attentato, l’ennesima strage. Le vittime, importanti e meno importanti, e addiritture sconosciute, quelle delle stragi, destavano compassione, a prescindere dalla loro appartenenza partitica e dalla fede politica di ciascuno. Nessuno divenne moroteo dopo e per la morte di Moro; semmai qualcuno se ne allontanò. Perfino i più accaniti avversari sospesero giudizi e considerazioni per un sentimento di pietas verso lo scomparso.
Un po’ dappertutto in Puglia, quasi in spirito risarcitorio, allo statista ucciso furono intitolati edifici pubblici, vie e piazze, anche per il prodigarsi dei tanti democristiani che ricoprivano cariche amministrative e rappresentative nelle istituzioni e negli enti locali; i quali, senza essere morotei, promossero iniziative importanti. All’epoca presidente della Regione Puglia era Nicola Quarta e della Provincia di Lecce Pietro Licchetta, entrambi democristiani di altra corrente.
Ad Acquarica del Capo, tranquillo paesino del Capo di Leuca, a Moro, due anni dopo la morte, fu intitolata la villa comunale da poco costruita e al centro della stessa gli fu eretto un monumento, una stele di pietra col suo busto in bronzo, opera dello scultore Franco Filograna, originario di Casarano e residente a Galatina. Nella parte alta della colonna l’iscrizione “ad Aldo Moro / maestro di sapere / e di vita / apostolo di libertà / dal martirio consacrato / alla storia e all’Italia”. L’inaugurazione si tenne il 1° giugno 1980. All’epoca era Sindaco il democristiano Giuseppe Palese, che, a dire il vero, moroteo non era mai stato. L’iniziativa di dedicargli villa comunale e monumento era partita all’indomani della tragedia di via Caetani.
La villa comunale di Acquarica sorge alla periferia del paese poco prima di entrare nell’abitato di Presicce, lungo la via che porta a Santa Maria di Leuca. La sera del 9 maggio 1982 – chiaro l’intento “celebrativo” – intorno alle nove di sera, i residenti della zona sobbalzarono in casa per uno scoppio improvviso che aveva fatto tremare i vetri delle finestre. Si resero conto subito di quanto era accaduto fuori nella villa.  L’esplosione dell’ordigno posto alla base del monumento aveva scaraventato a distanza il busto di Moro. La pietra del basamento, che proveniva dal “manfìo”, una località posta tra Taurisano, Ruffano e Casarano, simbolicamente a rappresentare la salentinità del tributo reso allo statista di Maglie, aveva sostanzialmente retto. Il busto rimase danneggiato, per fortuna non in modo grave, tant’è che non ci fu bisogno di restauro. Anzi, a quel che riportarono le cronache del tempo, non si volle restaurarlo per consegnare alla storia anche le tracce dell’attentato.
La notizia rimbalzò in tutta Italia. Lo sconcerto fu enorme, la condanna unanime; a prescindere da simpatie e antipatie, appartenenze ed avversioni. Oltre tutto Acquarica era stato da sempre un comune tranquillo, dove raramente erano accaduti ed accadevano fatti politici di rilievo. Qualche scontro politico di una certa importanza c’era stato nell’immediato primo dopoguerra, quando si fronteggiarono per qualche tempo ex combattenti e reduci, popolari e socialisti, fascisti e nazionalisti. Ma tanto accadeva in ogni comune. Un attentato così grave ad un monumento era un fatto nuovo; uno sfregio, tanto meno comprensibile perché portato ad un uomo che aveva pagato con la vita il suo impegno pubblico. Legittimo da parte di autorità e politici temere un terrorismo incipiente nel sud più sud d’Italia, che avrebbe potuto annunciare imprese molto più gravi. 
La macchina investigativa si mise subito in moto e non impiegò molto tempo a giungere agli autori dell’attentato; o forse furono gli stessi a costituirsi spinti dalle famiglie per evitare guai peggiori. Erano sei giovani di Presicce, i quali, meno di un mese dopo, furono processati e condannati. La sentenza fu mite, la pena più pesante di un anno e quindici giorni di reclusione, con sospensione della stessa. Per i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce fu una “ragazzata”, l’impresa di ragazzi annoiati dalla vita di paese, monotona e vuota. Ma per difendere quei ragazzi furono scomodati i migliori penalisti del foro leccese, fra cui Aymone, Corleto, Salvi e Vernaleone. Francamente una sproporzione per difendere una “ragazzata”. Lo stesso pubblico ministero, Rosario Colonna, escluse la motivazione terroristica. Insomma, ci fu un concorso di “aiuti” molto importanti nei confronti di quei ragazzi, che, tra ideazione del gesto criminoso ed esecuzione, avevano dimostrato comunque di saperci fare.
Resta l’aspetto politico, che sfugge alle attenuanti processuali. Si volle colpire il simbolo di un uomo politico allo scadere di un anniversario della sua morte; un gesto senza dubbio mirato e di avversione. Troppo poco tempo era passato dalla strage di Via Fani e le polemiche che avevano sempre accompagnato le scelte politiche di Moro avevano lasciato code. Non a caso la legge vuole che passino dieci anni dalla morte prima che si intitoli un edificio o un luogo pubblico allo scomparso, salvo che non si tratti di persona obiettivamente importante e nei confronti della quale si è tutti d’accordo. Ma la condivisione istituzionale, per quanto ampia possa essere e addirittura unanime, non sempre coincide con quella popolare. Quel gesto, esecrabile, contro l’omaggio pubblico ad Aldo Moro, resta un episodio politico non senza significato. Nessuno di quei ragazzi proveniva da famiglia democristiana, socialista o comunista, ma tutti da famiglie notoriamente di destra.
E’ bensì vero che gesti vandalici contro monumenti sono stati compiuti e se ne compiono in tutta Italia. Per restare nel Salento, ad Alessano alcuni anni fa fu messo in testa al monumento di don Tonino Bello un secchio di immondizie dopo averglielo rovesciato addosso; a Taurisano, una statua in marmo di Padre Pio, opera dello scultore Donato Minonni, nemmeno ventiquattr’ore dopo la sua inaugurazione nella Villa Comunale, fu presa a martellate e gravemente danneggiata.  
Quella dei giudici leccesi, pur senza fare dietrologie, fu una sentenza “politica” sicuramente importante. Si volle esorcizzare la paura del terrorismo, e soprattutto, evitando condanne esemplari, scongiurare “vittime” giudiziarie, che avrebbero potuto alimentare l’avversione al sistema, come allora si diceva. Una scelta opportuna, se consideriamo che quell’attentato sarebbe poi rimasto un fatto isolato con grande soddisfazione di tutti. Fu una sentenza di grande saggezza e umanità. Erano ragazzi, che potevano avere pure delle idee politiche, magari ancora acerbe e confuse, ma alla loro età i gesti sono come i pensieri, d’istinto e in libertà. Le autorità investigative accertarono che dietro non c’era nulla di importante; e tanto bastò per chiudere lì la vicenda. 
Ma l’iscrizione in alto sulla stele, con la bella dedica, non è stata ancora ripristinata.  

domenica 13 novembre 2016

Trump, l'erba che non vuoi


Ed ora, attacchiamoci tutti al…tramp! Contro tutte le previsioni, contro tutti gli avversari, americani e non, di destra e di sinistra, contro le donne ipermobilitate e le variabili di genere, contro i giornali e le televisioni, contro il Papa, Donald Trump ha vinto. E’ il 45° presidente degli Stati Uniti d’America.
Il giorno dopo i politici di tutto il mondo si sono piegati al politicamente corretto e gli hanno fatto i complimenti, tranne qualcuno. Il Presidente della Commissione Europea Juncker lo ha bocciato, dicendo che non sa nulla del mondo e che ci vorranno due anni per farglielo conoscere. C’è del malanimo in questo giudizio. Non puoi essere un miliardario e vincere le elezioni americane senza conoscere il mondo. E poi, i collaboratori, gli esperti, gli ambasciatori, che ci stanno a fare?
C’è anche chi ha brindato alla sua elezione, come il russo Putin; e – chissà – forse anche il turco Erdogan e qualcun altro della serie. Il mondo sta andando pericolosamente verso forme autoritarie, in puntuale coincidenza di crisi tra due secoli.
Paolo Mieli, ospite di “Otto e Mezzo”, si è detto sconvolto dalla sua elezione. L’ing. De Benedetti, quello del gruppo editoriale “Repubblica-L’Espresso”, ospite pure lui di “Otto e Mezzo”, ha detto che per Trump l’Italia è…Capri, dopo aver affermato che non è poi quel ricco che vuole dare ad intendere e che dà ai beni che possiede il valore dei debiti che ha, che sarebbero assai di più. L’imprenditore Oscar Farinetti, presidente di Eataly, sempre a “Otto e Mezzo”, lo ha chiamato “sessista, razzista, ignorante, megalomane e bugiardo”.
Il politicamente scorretto è in trionfo planetario. Accomuna politici e imprenditori; proprio quelli che dovrebbero essere più attenti alle parole che dicono. Ma è anche vero che il politicamente corretto incomincia a somigliare sempre più alle brioches di Maria Antonietta, quelle che prelusero alla ghigliottina e alle teste mozzate. Attenzione, noi italiani abbiamo in casa più di un Trump.
Obama, per prassi e non per cortesia, lo ha ricevuto alla Casa Bianca e gli ha stretto la mano, dopo un lungo colloquio, nel corso del quale le minacciose espressioni usate nei suoi confronti per tutta la campagna elettorale pesavano come aria dopo un incendio. A vederli, sembravano con gli occhi più volersi evitare che incontrare, all’insegna dell’imbarazzo. Niente foto di gruppo: poteva sembrare un’offesa ai Clinton, i grandi trombati, entrati in conclave cardinali e usciti curati di campagna.
In tutti gli Stati Uniti migliaia di manifestanti hanno protestato contro la sua elezione: centinaia gli arresti. I manifestanti non lo vogliono come Presidente, dicono di non sentirsi rappresentati. E che vogliono? Molti di loro credono ancora di essere nella giungla.
Mai elezione presidenziale in America e credo nel mondo è stata così traumatica. Sono mancati solo i suicidi; per il resto è tragedia nera. La democrazia, intesa anche come eleganza e rispetto, è in gramaglie. E, in verità, non si può dire che non sia accaduto nulla, anche a volersi sforzare.
Qualcosa di molto grave è accaduto. Poi, se in bene o in male, è un altro discorso. Atteniamoci ai fatti: un uomo, che mai prima aveva occupato cariche pubbliche, assolutamente fuori dalla politica, un uomo d’affari e basta, neppure tanto avveduto, essendo passato da periodi buoni a periodi di quasi fallimento, fino a salvarsi beneficiando di una legge che lo esentava dalle tasse, è diventato Presidente degli Stati Uniti d’America. Un uomo dipinto come arrogante, volgare, che si atteggia a bullo, è il capo della più potente nazione del mondo. Si parla di sondaggi sbagliati, di un altro golpe dei social; ma questi sono dati tecnici, che pure contano ma non spiegano la grande “rivoluzione”. E' la democrazia ad essere in preda a crampi e a sconvolgimenti intestinali, pur manifestando tutta la sua fantasmagorica fenomenologia. Obiettivamente c’è da preoccuparsi.
E’ altrettanto preoccupante che a sfidare Trump sia stata una donna che non gode di simpatie nemmeno di genere, per lo meno non sufficienti a vincere le elezioni. Non averle vinte contro un candidato come lui vuol dire che era la meno adeguata a rappresentare un grande partito come quello democratico e soprattutto i bisogni e le istanze di enormi fasce sociali; vuol dire che gli ultimi otto anni di presidenza “democratica”, in mano ad un afroamericano, hanno creato una condizione di disagio così diffuso in tutto il paese che gli americani avrebbero portato alla Casa Bianca perfino un orangotango.
Chi è di destra dovrebbe essere contento di Trump. A pelle si avverte un uomo del quale il meglio che si può fare è essere prudenti. In tanti dicono che ora da presidente sarà diverso dal candidato. Probabilmente è così. Ma intanto le sue parole stanno creando negli Stati Uniti una divisione molto pericolosa. Vada per le accuse di sessismo. Chi in tutta la sua vita non ha detto o fatto qualcosa di disdicevole in proposito? Ma continuare ad ostentare perfino in campagna elettorale parole e frasi offensive nei confronti delle donne è prova di insopprimibile, compulsiva indole volgare e stupida. Trump dà l’idea di un trattore agricolo più che di uno spyder sportivo. Certo, da presidente degli Stati Uniti, ha accanto uomini di grande responsabilità, che sapranno educarlo, fermarlo negli spropositi, guidarlo verso scelte importanti per il loro paese e per il resto del mondo. Nel migliore dei casi la sua azione politica può sortire effetti benefici – è una scommessa – ma resta il fatto grave che il modo come ha condotto la campagna elettorale, in presenza di attacchi che gli arrivavano da tutte le parti, rende la democrazia non un confronto di idee, di posizioni, di prospettive, ma una rissa fra marinai in un malfamato angiporto.
In questi giorni i confronti con qualche nostro politico degli ultimi tempi si sono sprecati. In verità Trump sintetizza gli ultimi politici italiani che hanno fatto successo come lui: Bossi prima maniera, col suo celodurismo; Berlusconi, coi suoi denari e col suo vizio delle donne; Grillo per la volgarità quale arma di propaganda politica, e sotto sotto – ma neppure tanto – Renzi con la sua rottamazione. Non a caso chi si è subito schierato dalla sua parte sono stati, prima dell’esito elettorale, Salvini, e dopo Grillo; mentre la destra più educata, da Forza Italia a Fratelli d’Italia, pur soddisfatta, si è ben guardata dal fare salti di gioia. 

Non v’è dubbio che la vittoria di Trump fa entrare il populismo in una fase nuova, più degenerata. Il cattivo esempio ormai non viene più dal popolo, come il termine vorrebbe che fosse, ma da chi lo rappresenta o vorrebbe rappresentarlo. In questo, noi italiani, abbiamo fatto scuola.

domenica 6 novembre 2016

Laici e cattolici: resa incondizionata all'Islam


Gli intellettuali dovrebbero essere come le donne pudiche e timorate di Dio, non dovrebbero fare certi favori. Ma gli intellettuali i favori li fanno; e sono favori che in genere puzzano.
Di che sa il corsivo pubblicato da Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” di lunedì, 31 ottobre, dal titolo “Dobbiamo incoraggiare i dibattiti aspri ma aperti che fanno bene all’Islam”? Sembra un intervento richiesto. Dietro Galli della Loggia e la sua sortita potrebbe esserci la direzione del «Corriere della Sera» e dietro ancora quella dell’«Osservatore Romano», il quotidiano della Santa Sede. Questo, da qualche tempo, pubblica articoli di un certo Zouhir Louassini, un giornalista marocchino, di fede musulmana, da tempo residente in Italia. La presenza anomala di un musulmano sul giornale cattolico per eccellenza e per istituzione ha un ruolo fondamentale nella visione francescana di papa Bergoglio, quello di coltivare l’incontro tra diversi. Peccato che non ci sia ancora il contrario: un giornalista cattolico di casa in un quotidiano islamico.
Per Galli della Loggia Louassini è «un valente giornalista». Costui, in un suo articolo apparso sull’«Osservatore Romano» di sabato 29 ottobre, riporta alcuni episodi di aperture islamiche: lo sceicco al Tayyb dell’università cairota al-Azhar avrebbe detto in un’intervista che il Cristianesimo «è una religione di amore e di pace»; un video in cui c’è un siriano convertito al cristianesimo mentre riceve il battesimo, circolato in rete, è stato commentato da una marea di spettatori con toni aspri ma anche con comprensione; un giornale on-line marocchino ha aperto un dibattito sul fenomeno della conversione con commenti aspri ma anche comprensivi. Questi tre episodi hanno fatto prendere carta e penna – si fa per dire – a Galli della Loggia per gridare all’Eureka: «nel mondo arabo-islamico mutamenti importanti sembrano delinearsi». Francamente si resta perplessi, soprattutto in considerazione di un così grande autore a fronte di un così piccolo fatto. Come può prendere lucciole per lanterne?
Si dà il caso che quel Louassini io l’ho conosciuto l’anno scorso a Otranto, ai seminari per la formazione dei giornalisti, svoltisi nel Castello Aragonese dall’8 all’11 settembre 2015, organizzati dall’Ordine dei Giornalisti. Venerdì, 11, il tema era «Mass Media e l’Islam: giornalisti a confronto», relatori Giovanni Maria Vian (direttore «Osservatore Romano»), Amedeo Ricucci, Alfredo Macchi, Michele Sasso e Zouhir Louassini. Era presente anche il vicepresidente della commissione disciplinare dell’Ordine dei Giornalisti Elio Donno. Quando toccò ai partecipanti di prendere la parola, rifacendomi a quanto aveva detto nel suo intervento Ricucci che non bisogna cedere al mercato della paura, osservai che non bisognava neppure cedere al festival delle banalità, in quanto il Louassini aveva banalizzato le orrende morti di alcuni prigionieri dell’Isis facendo satira con un video sui tagliagole e aveva detto che molte informazioni su di essi erano false, come a mettere in dubbio che quelle uccisioni fossero mai accadute, allo scopo evidente di accreditare un Islam buono. Fui letteralmente aggredito con violenza verbale inaudita dal Louassini, che mi disse che ero stato mandato apposta a fare il provocatore e che ero sicuramente un amico di Magdi Allam. Mancò poco che non tirasse fuori la scimitarra e facesse l’801° martire di Otranto, tanto era furioso. La mia replica fu interrotta dal moderatore per invitare tutti a trasferirci in un’altra sala del Castello per assistere ad una cerimonia. La questione si chiuse lì. 
Una mia raccomandata di protesta all’Ordine non ha mai avuto una risposta. Ora, a distanza da più di un anno, torna il Louassini sponsorizzato addirittura da Ernesto Galli della Loggia. Il che significa che in Italia c’è uno sciagurato disegno: l’invasione di popolazioni straniere in gran parte di fede musulmana. Il fenomeno è considerato non solo e non tanto inevitabile, a causa della nostra esposizione geografica, ma anche positivo. Prima o poi lo si farà passare come provvidenziale. E’ il tipico modo di pensare e di fare di chi, non volendo mostrare la sua pusillanimità, dice che accetta e gradisce quello che gli viene imposto e che lui subisce. 
Neppure nella circostanza da me riferita, che mi vide purtroppo protagonista di un’autentica e gratuita aggressione verbale, nessuno dei presenti – ed era piena la sala – seppe dire niente. Come nessuno si sentì offeso dall’indecente proiezione di una scena in cui un tagliagola dell’Isis faceva della satira con un ostaggio, facendo solo finta di tagliargli la gola. Che un simile affronto accadesse proprio a Otranto, dove ben ottocento cristiani furono martirizzati nel 1480 dai turchi, non fu ritenuto motivo sufficiente per una protesta. Siamo ormai come narcotizzati, incapaci perfino di pensare ad una ribellione contro uno degli scempi più gravi che l’Europa, il mondo cristiano, sta subendo. Verrebbe di pensare ad una sorta di nemesi storica; di un contrappasso storico dopo le imprese, ahimè non sempre edificanti, degli europei fino alla metà del Novecento. Essi per un verso sono sadicamente inclini ad accettare la punizione. I nostri padri hanno fatto quello che hanno fatto ad africani e ad asiatici, ora è giusto che questi lo facciano a noi. Altri, intontiti dalle ideologie umanitarie e neoilluministiche in salsa bergogliana, neppure si rendono conto di assistere al loro annientamento.

Invece di allarmarsi per certe operazioni di connivenza, come quella del direttore dell’«Osservatore Romano» che ospita sul suo giornale un musulmano finto buono, Ernesto Galli della Loggia gli fa da sponda e conclude il suo corsivo rispondendo a Louassini, che lamentava che il dibattito tra islamici non interessa ai media occidentali, «Ecco una risposta: come si vede a questo giornale interessa». Questo giornale è il «Corriere della Sera», il che convince ancora di più che il suo intervento è frutto di una committenza «Osservatore-Corriere». Un’accoppiata che la dice lunga su certe alleanze ai danni dell’Europa cristiana e dell’Italia, porta spalancata ormai di ogni minaccia.
E l'Ordine dei Giornalisti? Non ha nulla da dire sull'aggressione subita da un suo iscritto, purtroppo non sponsorizzato.