domenica 27 settembre 2009

Libertà di stampa, sì; ma senza limiti è licenza

Il Rodotà giurista, garante della privacy per anni, uomo di sinistra non sempre adeguatamente valorizzato dai suoi, è in prima linea sul fronte della libertà di stampa, minacciata a suo dire da Berlusconi. Si è fatto promotore di una manifestazione a Roma per il 3 ottobre, per la quale è riuscito a raccogliere ben 400 sottoscrittori.
Superfluo dire che tra i firmatari c’è quanto rimane dell’invincibile armada intellettuale della sinistra italiana ed europea, che per più di quarant’anni ha dettato i nomi, i tempi e le regole di ogni forma di comunicazione massmediatica: premi nobel, pittori, scrittori, poeti, attori, registi e via di seguito. A questa “armata”, assai nota alle cronache nazionali, non mancavano né i mezzi né la vocazione, per spadroneggiare, essendo il suo costante punto di riferimento il comunismo sovietico, particolarmente appetito nei paesi liberi, tiranno e liberticida nella sua patria.
Ora i tanti orfani della splendida ideologia, in parte convertiti e in parte sbandati, sono un po’ dappertutto a stecchetto: il modello si è liquefatto e in Italia sono usciti i “bastardi” della democrazia, che, come una volta accadeva nelle migliori case aristocratiche, dove i bastardi garantivano la successione e la dignità del casato esangue e rammollito, ne sono i più nerboruti rappresentanti.
Altro che rischio per la libertà! Ce n’è tanta che forse sarebbe il caso di ridefinirne i confini, dato che è tralignata in licenza. I comportamenti de “la Repubblica” e de “L’unità”, cui hanno fatto seguito, come in una battaglia navale, le bordate micidiali de “Il Giornale” di Feltri, dimostrano che non è proprio il caso di parlare di libertà di stampa a rischio. E difatti Tarquini, il successore di Boffo alla direzione di “Avvenire”, ha scritto in un editoriale che “In Italia la libertà di stampa è a rischio tanto quanto la credibilità dei giornalisti”.
Nessuno di quei 400 uomini d’onore, come Antonio diceva di Bruto nel “Giulio Cesare” scespiriano, è veramente convinto che la libertà di stampa in Italia corra dei rischi – farabutti sì, per dirla con Berlusconi, non fessi – ma tutti sono antiberlusconiani e la loro ennesima performance serve a gettare ulteriore discredito su Berlusconi, il suo governo e l’Italia. Ma non sarebbe più onesto dire: signori, Berlusconi può aver ragione su mille piccole e grandi cose in sé, una per una considerate, ma c’è la madre di tutte le ragioni che condiziona ogni comportamento nei suoi riguardi ed obbliga ad attaccarlo senza tregua, fino a vederlo ridotto ai minimi termini? Io dico che sarebbe più intellettualmente onesto anziché dover affermare e sostenere meschinamente il falso in ogni momento della giornata politica.
Essere contro Berlusconi è normale, direi normalissimo, purché non si confonda l’avversione viscerale e perciò irrazionale con quella ragione, che, secondo gli illuministi, è ciò che fa incontrare gli uomini e consente loro di mettersi in contatto con quella che i filosofi antichi chiamavano intelligenza universale.
Per tornare alla libertà di stampa, è immorale pretendere che essa sia illimitata e incondizionata, quasi fosse una sorta di dogma, per cui i giornalisti hanno sempre ragione, possono pubblicare quel che vogliono, commettere anche reati nell’esercizio della loro “divina” professione e pretendere di non dover mai rispondere di nulla.
E’ inammissibile oltre che ridicolo auspicare una sorta di Nato, una “santa alleanza” dei giornalisti, come ha proposto Michele Mirabella, per cui quando è attaccato un giornale gli altri senz’altro devono intervenire a far causa comune.
Da operatore dell’informazione (sono un giornalista pubblicista, direttore di un periodico) e soprattutto da educatore (docente di italiano, storia e latino negli istituti superiori e nei licei) mi rifiuto di pensare che in una società democratica e moderna ci possano essere zone franche, dove ognuno può fare quel che vuole. Ritengo che tutti i soggetti operanti nella società sono come pezzi di un puzzle, ognuno dei quali ha un suo specifico spazio e concorre da quel suo ben definito spazio a formare la grande immagine del Paese. Guai se qualche pezzo rivendica di poter occupare spazi che non sono suoi, con la pretesa dell’universalità assurda oltre che illegittima.

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domenica 20 settembre 2009

Afghanistan, dolore e verità di Gigi Montonato

Quanto è accaduto a Kabul, con la morte di sei nostri militari, in seguito ad un attacco kamikaze da parte dei talebani, fa prevalere in noi dolore ma anche verità. Dolore per i nostri caduti, verità sulla causa per la quale essi sono caduti; per la quale noi ci siamo impegnati al cospetto della comunità internazionale.
Quanto è accaduto ai nostri paracadutisti della Folgore era nell’ordine delle cose fin da quando il governo italiano ha deliberato di partecipare alla normalizzazione dell’Afghanistan dopo l’abbattimento del regime dei talebani.
Con le sei vittime di giovedì, 17 settembre, sono 21 i nostri caduti in Afghanistan dal 2001. Nella triste classifica noi veniamo dopo Stati Uniti (836), Gran Bretagna (216), Canada (130), Germania (35), Francia (31), Danimarca (25), Spagna (25), Olanda (21). A questi si aggiungono altri 63 morti di altre nazioni per un totale, ad oggi, 18 settembre, di 1.403 vittime di guerra. E purtroppo tutto lascia pensare che questo numero aumenterà, perché si può chiamare come si vuole una campagna armi in pugno, nella realtà si risolve sempre in combattimenti e morte. Poi questi possono avvenire in forme convenute e codificate o fuori da ogni regola e convenzione; non è la forma in guerra ciò che conta, specialmente quando si tratta di guerre asimmetriche, cioè insostenibili da una delle due parti con l’accettazione delle regole concordate.
La causa prioritaria, direi fondamentale, cui l’Italia partecipa insieme con altri Stati, non è di rendere liberi e democratici quei paesi in cui non c’è né libertà né democrazia. Nel mondo ce ne sono tanti altri, oltre all’Afghanistan, coi quali la comunità internazionale mantiene normali rapporti culturali, politici ed economici. Se l’Afghanistan non costituisse una minaccia al nostro mondo, attraverso gli attacchi della sua rete terroristica internazionale, potrebbe stare tranquillo nei suoi confini e partecipare alla vita civile insieme con tutti gli altri paesi del mondo. Ma l’Afghanistan è oggi il paese leader del radicalismo islamista e minaccia il mondo occidentale, abitato da pagani e infedeli, cioè noi in casa nostra.
La causa vera della nostra presenza in quel paese, perciò, è di garantire la nostra sicurezza dopo che Al Qaeda ha esportato il suo terrorismo nel mondo in un crescendo di gravità in questi ultimi anni, fino all’acme dell’11 settembre 2001, quando ha portato il più grave attacco nel cuore del più grande paese democratico del mondo. Noi in Afghanistan combattiamo per difendere noi stessi, attraverso l’eliminazione della minaccia terroristica. Questo è possibile solo attraverso la creazione in quel paese di uno stato di normalità, cui noi prestiamo la nostra organizzazione militare e politica e il nostro modello istituzionale.
Una volta ad un simile obiettivo si giungeva attraverso una guerra totale, definitiva, con la conquista del territorio e l’annientamento della popolazione fino a ridurla nelle condizioni di non poter più nuocere, mettendo a capo di quel paese un Quisling, secondo un modello collaudato dai romani ai nazisti. Ma oggi questo non è più possibile e perciò si sceglie la forma mista, volgarmente riducibile alla formula del bastone e della carota, cioè all’annientamento della componente armata e al convincimento della componente civile, per giungere alla creazione di uno Stato autonomo ma amico. E’ quanto si cerca di fare in Iraq e in Afghanistan. Che questa sia la sola strada percorribile e la più giusta è vero come è vero che è anche la più equivoca, lunga e accidentata.
Oggi si discute fino a quando le forze internazionali resteranno in Afghanistan. Già, fino a quando? Si dice fino a quando in quel paese non ci sarà un governo che sappia far fronte da solo al mantenimento dell’ordine e della legge. Che significa: mai. Perché l’islamismo radicale, che in Afghanistan ha una delle centrali più importanti, non rinuncerà mai alla sua guerra santa.
Questo vuol dire che la condizione transitoria in Afghanistan finirà per trasformarsi in uno stato di ”normale” continua guerriglia, cui i soldati della coalizione internazionale sono “normalmente” continuamente esposti. Italiani o di altri paesi della coalizione, essi rischiano la vita per la sicurezza dei loro paesi, dei loro connazionali in patria. Questo, purtroppo, è il prezzo pagato, da pagare.

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mercoledì 16 settembre 2009

Fini, stop e ripartenza di Gigi Montonato

Da più di un anno e mezzo Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati, ha assunto un atteggiamento contrario a gran parte delle prese di posizione del governo, qualche volta usando toni offensivi nei confronti di alcuni importanti esponenti della maggioranza o ad essa vicini. Diede dell’irresponsabile a Gasparri, capogruppo del PdL al Senato, nella circostanza della vicenda Englaro; ha definito killeraggio il modo di informare di Feltri, direttore del quotidiano della famiglia Berlusconi, in occasione della questione Boffo. Ha preso le distanze dalla maggioranza sui temi etici (procreazione assistita e testamento biologico), ha chiesto che il governo conceda agli immigrati il diritto di voto. Ha perfino confessato, alla veneranda età di quasi sessant’anni, di non essere certo di credere in Dio, quando di solito, a quell’età, uno incomincia ad avvicinarsi.
Senza entrare nel merito di ciascun episodio, in cui Fini può avere ragione o torto, è questa la partita, per citare gli episodi più rilevanti, a cui tutti pensavamo di aver assistito. Giustamente alcuni commentatori, molto meno killer di Feltri, ed altri, addirittura titillanti, dello schieramento opposto, hanno osservato che Fini si riconosce più nella sensibilità della sinistra che non in quella della destra. Qualcuno, pietosamente, nel tentativo di tenerlo nel seminato, ha avuto la stravagante idea di aggiungere a destra l’aggettivo “moderna”.
Quando la rottura sembrava ad un punto di non ritorno, ecco che il Fini dissenziente su specifici e importanti problemi è scomparso. In campo ci sarebbe un altro Fini, il quale non sarebbe d’accordo con Berlusconi ma solo sul modo di intendere il partito. Fraintendimenti, insomma, superabili. Chiederebbe, per esempio, più dibattito e confronto interni. Vorrebbe che, in quanto cofondatore del PdL, si incontrasse sistematicamente con Berlusconi per decidere insieme.
Ma, se non si vuole solo prendere o lasciare certi prodotti mediatici e propagandistici e si vuole, invece, anche e soprattutto capire, occorre fare qualche punto.
Primo. An è ben rappresentata ai vertici del PdL da Ignazio La Russa. O il Ministro della Difesa è un incapace, che si lascia abbindolare da Berlusconi?
Secondo. Si vorrebbe che Fini tornasse a fare il capo di partito; ma questo – lo capisce perfino uno studentello delle medie – non è compatibile col ruolo istituzionale che ricopre.
Terzo. Il progetto PdL in pendant col Pd, nella logica bipartitica, si sta rivelando un fallimento. Si pensa sempre più “ad alta voce” negli ambienti più vicini a Fini che forse è meglio che An torni ad An, per contare di più; che, fuor di politichese, vuol dire avere più potere di ricatto.
Rebus sic stantibus, però, Fini vorrebbe essere ubiquo, un po’ come Dante che alla minaccia di Bonifacio VIII di far intervenire Carlo di Valois a Firenze, indeciso se andare a Roma o rimanere a Firenze, diceva: se non vado io a Roma a scongiurare il Papa, chi va? E se non resto io a proteggere Firenze, chi resta?
La verità è che Fini persegue, come ha sempre fatto, un disegno personale, che è di succedere a Berlusconi o alla guida del centrodestra o a probabile inquilino del Quirinale. Questa sua strategia, autoritariamente perseguita – ricordo l’azzeramento dei vertici di An quando alcuni dei suoi colonnelli in un bar furono “intercettati” ad esprimere dei dubbi sulla sua per così dire adeguatezza – oggi non è più tanto facile perseguirla, perché non c’è più il partito. Lo dimostra il fatto che la famosa lettera dei “cinquanta”, agitata come uno spauracchio per Berlusconi dal “suo” Bocchino, si è rivelata un’impresa farla firmare, con un “per questa volta!” da parte di alcuni importanti colonnelli, come La Russa e Alemanno. I quali hanno capito che se vogliono continuare a contare, oggi devono stare dietro a Berlusconi; come ieri dovevano stare dietro a Fini.
La bacchettata di Feltri, tuttavia, “che tanto reo tempo volse”, non è avvenuta invano. Fini è stato avvertito: basta sparate contro le iniziative del governo, che ha un programma e lo sta portando a compimento. Nessun problema per lui, che non dovrebbe avere difficoltà ora a dubitare della modernità della sua destra. E’ uomo di infinite capacità di adattamento, favorito dal non essere costituito di solidità alcuna; ma sbaglia chi crede ch’egli rinunci definitivamente alla sua strategia.

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mercoledì 9 settembre 2009

Santa Maria delle Battaglie Raffaele Nigro e l'epos dei disperanti

Per certi aspetti il prosimetro di Raffaele Nigro, Santa Maria delle Battaglie (Rizzoli, 2009), s’inscrive nella tradizione del romanzo realistico greco, col viaggio in mare sostituito dal viaggio nel tempo. Lo sfondo è storico. Egli compie un’operazione di rovesciamento narrativo: la materia da narrare diventa soggetto narrante attraverso una statua lignea intagliata agli inizi del ‘500 da un falegname di Perugia raffigurante una madonna, Santa Maria delle Battaglie o delle…disgrazie. L’autore “riserva” a sé la cornice, coi brevi raccordi introduttivi e il finale infelice. La statua è la metafora della condizione popolare, spopolata di angeli e madonne. Nella sua staticità essa esprime già in partenza l’incapacità di determinare alcunché dall’esterno in un mondo che pure crede in lei ma va avanti senza fine alcuno, fatto dopo fatto, seguendo istinti e bisogni. L’uomo è solo. Tutto accade per meccanismi, cui nessuna forza provvidenziale può nulla. Nessuno è felice e contento.
«Noi siamo liberi di fare o non fare – dice Isengrino da Montemagno, un francescano che per amore della stessa suora uccide un confratello in convento – tuttavia ognuno deve sapere che se incontra un uomo armato deve sparare per primo, se cade la neve deve cercarsi una grotta, se vuole qualcosa se la deve pigliare con le unghie. E’ la legge delle volpi e delle faine, non solo dei gigli e degli uccelli. E’ una legge che non concede rimorsi ma neppure rimpianti». E’ il tempo di Machiavelli.
Si parte da un fatto di cronaca attuale, la cornice, appunto. Una ragazza, Federica Cacciante, erede di una famiglia della nobiltà feudale pugliese, in seguito ad un incidente stradale, è in coma. La statua, posta nella sua stanza, di fronte, sul ripiano di uno scaffale, cerca di risvegliarla narrandole la storia di alcuni suoi antenati, che rimanda alla fine del ‘400, discesa in Italia di Carlo VIII di Francia, e avventura dopo avventura, si dipana per quattro generazioni, attraversando eventi, la guerra tra francesi e spagnoli, la peste, la guerra tra cristiani e musulmani, e personaggi del mondo politico e culturale, Carlo V, il Soldano, Pomponazzi, Nifo, Lutero, Marsilio Ficino, Vittoria Colonna, Savonarola e molti altri, facendo nuotare il lettore nel mare magnum delle credenze popolari. Ma un pezzo di legno non parla neppure se rappresenta la Madonna; e chi è in coma non sente. Simboli tragici di un’umanità abbandonata, disperante.
Il racconto della statua s’intreccia con le ottave di tale Colantonio Occhiostracciato, un cantastorie tanto simile ad Omero da far pensare ad una sorta di parodia. Come nel poeta greco gli dei si occupavano delle faccende umane e nei loro conviti ne chiacchieravano, così nel romanzo di Nigro: angeli e santi intrecciano i loro pensieri con quelli degli uomini; e come nulla potevano gli dei per cambiare le vicende umane, sottoposte al fato, così in Nigro nulla possono santi e madonne, perché tutto è sottoposto alla scienza; o piuttosto, alla storia definalizzata. I miracoli non esistono.
E il Padreterno? Al termine di un convegno si apparta con San Pietro e gli confessa di non sentirsi bene, di essere stanco e non più capace di fare miracoli; decide di ritirarsi in un eremo nei Balcani, dove si pensava ci fosse il paradiso. Differenza: gli dei omerici somigliavano agli uomini nella forza, quelli di Nigro nella debolezza.
Un pessimismo di fondo invita a vivere la vita come viene e come va, senza regole e senza aspettarsi niente da nessuno. Maria Trafitta Cantarella vuole diventare medico e concepisce un figlio con lo zio. Il figlio di costei Braccio Cacciante, che ne vien fuori, stupra dove gli capita e uccide dove occorre, da brigante diventa capitano dei cristiani e addirittura da morto vien fatto beato. Il padre-zio Laviero Plantamura fa il pomponazziano e il libertino: «solo gli occhi malevoli del mondo fanno di un avvenimento uno scandalo». Il padre di Federica pensa che «se Federica dovesse rimanere com’è, forse potrebbe rivelarsi un bene per lei».
Ma se sul piano estetico il romanzo di Nigro affascina e suggestiona, incanta e rapisce, informa e diverte, come una volta i cunti intorno alla lanterna nelle notti d’estate sull’aia, che sembravano non finire mai, come in fondo non finisce mai la vita, sul piano etico fa riflettere.
Dobbiamo prendere atto che è toccato e tocca sempre a noi uomini di vedercela da soli con la vita? Sembrerebbe di sì. “Il vero miracolo al mondo – dice alla fine Omero-Occhiostracciato – era poter affidare alle parole la memoria delle cose che erano state”. Nigro è un taumaturgo.