sabato 31 marzo 2018

5 stelle. fatti per volare non per camminare




Qualche settimana prima delle elezioni del 4 marzo non c’era benpensante del nostro gotha intellettual-politico disposto a dare un minimo di credito a Luigi Di Maio. Perfino Eugenio Scalfari disse in una puntata di Floris che gli avrebbe preferito Berlusconi. Oggi tutti corrono in “soccorso” di Di Maio. Due pezzi da novanta della politologia di sinistra, ospiti della Gruber su “La 7”, Cacciari e Pasquino, smaniano dal vedere il Pd mettersi d’accordo coi Cinquestelle. Non lo fanno per amore nei confronti dei Cinquestelle ma per odio alla destra.
I politologi hanno uno strano privilegio, quello di non dover mai rispondere delle loro geniali intuizioni, che a volte si risolvono in colossali minchiate. Gli crescesse almeno il naso come a Pinocchio per le bugie o le orecchie d’asino come al re Mida! Al contrario dei politici, i quali se sbagliano pagano di persona.
La situazione postelettorale è oggettivamente difficile. I Cinquestelle, che hanno vinto le elezioni ben oltre il dato quantitativo dei voti, perché interpretano un’aspirazione, si trovano in un momento cruciale della loro brevissima storia. Avendo predicato al mondo di essere i soli puri e bravi del panorama politico italiano e che loro non si sarebbero mai messi con gli altri, in quanto, questi, responsabili del disastro nazionale, oggi, non avendo i numeri per governare da soli, sono obbligati a “sporcarsi” con gli altri; in alternativa tornare al voto, magari con una legge elettorale che preveda un premio di maggioranza.
Obiezioni. Prima, come prenderebbe l’elettorato la loro incapacità politica di risolvere una situazione financo da una posizione di forza? Seconda, veramente i Cinquestelle vogliono governare da soli? E se dovessero fallire, non potendo soddisfare le attese dell’elettorato per ragioni anche importanti e oggettive? Non sarebbe forse il caso di avere un alleato sul quale scaricare i temuti fallimenti? I Cinquestelle si travagliano con questi interrogativi.
Mettiamo che decidano di “sporcarsi”. Con chi? Coi meno sporchi verrebbe di dire. Allora, niente Forza Italia e Berlusconi, neppure da incontrare per una stretta di mano. Sì alla Lega di Salvini, che però, in quanto tale, ossia fuori dall’alleanza di centrodestra, sarebbe indebolita e costretta a subire le scelte dell’alleato più forte. Sarebbe disposta? È improbabile.
L’ipotesi di un accordo dei Cinquestelle col Pd, ritenuto ormai sulla china della sparizione, non è voluto da una larga parte di questo partito. E si capisce perché. Sarebbe una resa incondizionata; una punizione troppo forte per chi pure se la fosse meritata. Lo stesso Renzi dovrebbe rinunciare a qualsiasi ipotesi di ritorno a Palazzo Chigi. E poi, con quali prospettive per i Cinquestelle e con quali per il Pd? No, è un progetto, questo, che non trova fattibilità. Un partito che ha ancora il 18 % dei voti ha ancora il dovere quanto meno della dignità.
Viene di considerare quanto si è sempre detto sul Movimento di Grillo, per quanto oggi cerchi disperatamente di trasformarsi in un partito normale. Disperatamente perché il suo elettorato non è d’accordo. Lo ha dimostrato coi mugugni e con le critiche per quanto accaduto con l’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Niente accordi con Berlusconi, ma intanto hanno votato per eleggere alla seconda carica dello Stato una, l’Alberti Casellati, che è considerata una sua pasdaran, da lui imposta.
I nodi stanno venendo al pettine. Si è sempre detto ed oggi trova conferma che il Movimento 5 Stelle difficilmente può governare perché le stesse ragioni per le quali ha vinto gli impediscono di farlo. Ricorda l’Albatros ferito di Baudelaire, meraviglioso in cielo mentre vola per conto suo, come natura gli consente, ridicolo e impacciato sulla tolda della nave dove quelle stesse imponenti ali ora gli impediscono perfino di camminare.
Di qui la ragione principale di chi spinge il Pd ad appoggiare dall’esterno un monocolore Cinquestelle: è l’assoluta necessità di vedere di che sono capaci questi “marziani”. Il Pd dovrebbe, a questo punto, sacrificarsi e consentire ai Cinquestelle o di dimostrare che sanno fare le cose che gli altri non sono riusciti a fare o bruciarsi fallendo. Molti pensano – se addirittura non sperano – la seconda.

sabato 24 marzo 2018

Cinquestelle, benvenuti nel paese normale




La politica è così, à la guerre comme à la guerre. Ma se il modo di dire famoso per significare spregiudicatezza di comportamenti, colpi bassi, scorrettezze e tradimenti, viene applicato al Movimento 5 Stelle che da quasi dieci anni si propone come diverso dalla vecchia politica, allora un commentino bisogna farlo. S’incomincia col prendere atto di ciò che tutti sapevano, tranne loro; o facevano finta di non saperlo. E cioè, che in politica certi passaggi sono obbligati, saranno pure sporchi e puzzolenti, ma sono obbligati.
Il passaggio del “peccato”, in questo caso, quale è? Nel mettersi insieme con un’altra forza politica all’indomani del voto se si vuole copulare qualcosa, ovvero esercitare un minimo di potere e poter realizzare in tutto o in parte il proprio programma. Siamo alla solita rottura delle uova per poter fare la frittata. Le poltrone tanto vituperate dai Cinquestellati – ma a dire il vero essi non hanno mai detto di voler governare in piedi! – sono state anche per loro oggetto di spartizione e trattative varie.
I due presidenti di Camera e Senato sono stati eletti, uno del M5S, Roberto Fico, alla Camera; l’altro di Fi, Maria Elisabetta Alberti Casellati, al Senato. Post nubila Phoebus, verrebbe di dire. Salvini ha ragione di ostentare contentezza, perché è riuscito a far eleggere un parlamentare dello schieramento di centrodestra e per di più prima donna a diventare presidente del Senato. Della serie che non sempre chi sbandiera femminismo dalla mattina alla sera – ah, Boldrini Boldrini! – in concreto poi riesce a produrre qualcosa di femminista. Il centrodestra, bollato molto spesso come antifemminista, zitto zitto e piano piano ha realizzato un colpo storico. Per merito suo la seconda carica dello Stato è donna, che, in circostanze d’emergenza, potrebbe anche ricoprire la carica di Presidente della Repubblica. Del resto era stato il centrodestra, con Berlusconi, a portare in politica il maggior numero di donne. E, a dire il vero, oggi esse lo ripagano con una lealtà non sempre osservata dai suoi collaboratori maschi. La rinuncia alla candidatura alla presidenza del Senato di Anna Maria Bernini, proposta da Salvini, va portata ad esempio di lealtà e di correttezza. Il che non è poco in un mondo in cui mors tua vita mea.  
Ora incomincia la corsa a Palazzo Chigi. Chi del Dimmi e Dammi sarà il nuovo premier? Alla vigilia del voto due erano le ipotesi più gettonate. Premesso che i Cinquestelle sarebbero stati il partito più votato, le due ipotesi erano una l’intesa Forza Italia-Pd, l’altra M5S-Lega.  La prima presupponeva la vittoria di Forza Italia all’interno della coalizione di Centrodestra e una sconfitta meno catastrofica del Pd; la seconda, la vittoria della Lega nel Centrodestra. Si è verificata la seconda, anche per il tonfo del Pd. Salvini ha superato Berlusconi ed è diventato, secondo accordi presi, capo della coalizione; il Pd, non si capisce su quale altro colle romano vuole riparare, se esclude l’Aventino.
Il postelezioni ha confermato la leadership di Salvini, che si è dimostrato tanto spregiudicato quanto conciliante. Come ha saputo giungere alla elezione dei due presidenti del Parlamento lo dimostra. Nel gioco stretto di quei giorni spazio e tempo per concordare mosse e contromosse non ce n’erano. Di qui il suo colpo di mano, che, a fronte del rifiuto del forzista Paolo Romani alla Presidenza del Senato da parte del M5S e addirittura del rifiuto di Di Maio di incontrarsi con Berlusconi, ha sbloccato lo stallo, proponendo motu proprio la Bernini, mandando su tutte le furie Berlusconi che, a caldo, ha detto: basta, la coalizione non esiste più. Poi la ricomposizione di tutto, come di sopra riportato.
Come si svolgerà il corso della storia da lunedì in poi non è dato saperlo né prevederlo. Ma quel che possiamo dire, con un pizzico di soddisfazione, è che il M5S è di fatto arrivato nel paese reale, che è anche quello normale. Non più, almeno per ora, minchiate alla Beppe Grillo o alla Alessandro Di Battista, ma comportamenti ragionati. Sperando, lo diciamo per interesse civico, che poi riserveranno tutto il loro rigore alle scelte operative che sapranno fare se riusciranno ad andare al governo, con Di Maio protagonista o co-protagonista. Il Paese non è stato mai così ansioso di vedere se l’ennesima sfida dei buoni e capaci, degli onesti e dei preparati, sortirà gli esiti sperati.    

venerdì 16 marzo 2018

16 marzo, quarant'anni dopo




Ci sono fatti nella vita che ti segnano profondamente al punto che ti bloccano l’orologio dell’esistenza come accade ad un contachilometri quando lo schianto dell’auto contro un ostacolo lo inchioda all’ultima velocità. Il rapimento di Aldo Moro del 16 marzo 1978 è uno di quei fatti.
Quella mattina, ero appena uscito dal Caffè Italia a Taurisano, avevo messo in moto la mia 126 e mi accingevo a fare marcia indietro per uscire dal parcheggio quando un amico di lontano mi fece segni come a volermi parlare. Abbassai il finestrino.
“Il giornale radio ha appena detto che a Roma è stato rapito Aldo Moro e uccisi gli uomini della sua scorta”. Rimasi incredulo e istintivamente accesi l’autoradio: tutto vero! Erano le 10 ed io dovevo andare a scuola, prendevo servizio alla terza ora.
A scuola, Professionale Femminile di Taurisano, in via Roma, già sapevano tutto. Si sospesero le lezioni. Le ragazze furono riunite in una stanza grande che fungeva da palestra coperta e lì, secondo quanto aveva disposto il Preside della sede centrale di Nardò, si parlò del tragico evento.
Per quanto scioccante, la notizia era nelle atmosfere tragiche di quegli anni. La sorpresa fu tanta solo perché riguardava un personaggio così alto e importante. Da almeno dieci anni l’Italia viveva una situazione incandescente. Dopo il Sessantotto studentesco con tutto il disordine provocato, ci furono gli scioperi degli operai e poi le stragi, da quella del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano, alle successive, e poi ai rapimenti e ai ferimenti di giudici, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, funzionari, in un crescendo di angoscia e di paura.
Le Brigate Rosse avevano dichiarato guerra allo Stato borghese e imperialista, servo degli americani. Come sempre accade in situazioni del genere, l’una parte genera quella opposta. Le sigle di associazioni terroristiche di sinistra e di destra si moltiplicarono, mentre si percepiva, sia pure confusamente, il ruolo che avevano i servizi segreti in molte imprese criminali che venivano attribuite agli anarchici e ai fascisti. Insomma si aveva il sospetto che ci fosse in Italia il tentativo di impedire una svolta a sinistra, che avrebbe potuto avere conseguenze internazionali, cambiando i rapporti di forza nell’ambito della “guerra fredda” fra i due blocchi americano e sovietico, attraverso la destabilizzazione del potere, apparentemente fatta dalle forze eversive di sinistra e di destra, in sostanza dal potere politico attraverso i servizi di sicurezza, che, quando non fu più possibile negare, furono detti “deviati”.
Il rapimento di Moro non fu un evento-chiodo, nel senso che accadde e finì lì, ma continuò per 55 giorni, fino al 9 maggio con la restituzione del suo cadavere, chiuso nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani, a Roma, tra la sede del Pci e quella della Dc, simbolicamente in mezzo. Furono 55 giorni di stillicidio, con le lettere che Moro scrisse ai più importanti dirigenti del partito per convincerli a cedere alle Brigate Rosse, usando argomentazioni in forme che dall’altra parte si ostinavano a considerare come estorte o come frutto di una mente che ormai non era più compos sui. Fino al tragico epilogo.  
Quella mattina il governo Andreotti doveva ricevere la fiducia alla Camera e per la prima volta i comunisti l’avrebbero votata, un altro passo, dopo quello della non sfiducia, verso la loro entrata nel governo. L’incontro Dc-Pci era considerato una sorta di mostro politico, ideato proprio da Moro, il quale, come già aveva fatto nel 1964, quando convinse i suoi che era giusto e importante fare il centrosinistra coi socialisti, ora li aveva convinti che era giusto e importante allargare ai comunisti. Perplessità e paura da una parte e dall’altra. I democristiani si erano lasciati convincere ancora una volta dal loro profeta. Ad essere maligni, che in politica, è del tutto normale, la gran parte dei democristiani cedeva volentieri alle lusinghe del potere, specialmente quando si paventava una imminente perdita dello stesso. Moro li convinse che era, questa, una eventualità non proprio remota, come dimostravano i risultati nelle ultime elezioni, che avevano ridotto il distacco a soli quattro punti di percentuale. I comunisti, da parte loro, non si fidavano e già avevano minacciato di non votare la fiducia in presenza nel governo di ministri dei quali non avevano stima alcuna.  
Ma più di tutti contrari all’apertura al Pci erano gli Stati Uniti d’America, che già in precedenza, col loro segretario di stato Henry Kissinger, avevano avuto modo di manifestare la loro contrarietà. Agli americani Moro non piaceva. Ma anche la Russia sovietica guardava con sospetto questo avvicinarsi del partito comunista all’area di governo e lo valutavano come una sorta di tradimento, dal quale sarebbe derivato loro un danno politico nel confronto con lo storico avversario americano.
La fine tragica che avrebbe fatto Moro ha rimosso nei politici e negli osservatori, per una sorta di pietas nei suoi confronti, quello che egli ha rappresentato realmente nella Dc e nel Paese. Si è molto discusso se annoverarlo fra gli statisti o considerarlo un politico molto abile nel condurre la sua parte politica al potere e farla restare il più a lungo possibile. Distinzioni oziose, probabilmente, visto che gli statisti sono dei politici; meno oziose, se considerando lo specifico, ci accorgiamo che in lui il senso dell’individuo e della società ha prevalso sul senso dello Stato.
Va detto tuttavia che quando il proprio Stato è inserito in un’alleanza all’interno della quale occupa un posto secondario e la sua politica estera è per la massima parte dettata dalla potenza leader, nel nostro caso quella americana, si può anche spendere la propria abilità di politico in contesti più interni. La situazione italiana presentava delle anomalie, una di queste era proprio Moro, con la sua politica verso l’inclusione dei comunisti nel governo. I quali da qualche tempo, con Enrico Berlinguer, l’omologo rosso di Moro, rivendicavano libertà da Mosca. In Italia si cercava un incontro politico malvisto da entrambe le potenze antagoniste. Era necessario interrompere il processo.
Una delle affermazioni morotee più famose era che a succedere alla Dc sarebbe stata la Dc stessa. E questo, a ben vedere, era possibile solo se si fosse evitato un confronto diretto ad excludendum – o noi o voi – e si fosse riusciti ad attrarre nell’area del potere l’avversario più forte del momento: noi e voi. In questa maniera la Dc poteva succedere a se stessa.
A quarant’anni da quel tragico giorno-evento la situazione dell’Italia, in rapporto con l’esterno, non è cambiata di molto; è molto cambiata all’interno. Del mondo partitocratico, di cui Moro era protagonista indiscusso, non c’è più niente. A far parlare ancora di quel mondo sono proprio i misteri della sua tragica fine.   

sabato 10 marzo 2018

4 marzo 2018: non ha vinto nessuno!




Non si capisce davvero perché i media e gli stessi politici, presunti vincitori (M5S e Lega) e sicuramente sconfitti (Pd e sinistre varie), insistono a parlare di vincitori, ai quali spetterebbe il compito di fare un governo. Il Pd, partito sicuramente sconfitto, ha assunto un comportamento da grande offeso ed è profondamente dispiaciuto come chi si è finalmente reso conto di non essere stato capito e ingiustamente punito. Di qui il suo broncio e il tirarsi fuori: avete vinto voi, fatelo voi il governo, noi stiamo all’opposizione. Atteggiamento solo in parte condivisibile, perché tutti sanno, compresi gli stessi uomini del Pd, che gli altri non hanno vinto, hanno solamento aumentato il voto degli elettori e ingrossato la loro rappresentanza in Parlamento ma non sono in grado di fare un governo. E chi non è in grado di raccogliere il frutto di una vittoria non si può dire che abbia vinto. Non si può dire neppure che sia una vittoria di Pirro; semplicemente è una non vittoria.
Insistere da parte del Pd nel dire a M5S e Lega: unitevi, dato che avete dei punti in comune, è solo una trovata propagandistica, un po’ cinica, che dai partiti si estende al Paese. E’ di tutta evidenza che tra i due partiti, entrambi populistici, ci sono notevoli differenze ideologiche e programmatiche e si trovano in situazioni diverse. Il M5S è il solo responsabile di se stesso, la Lega è in una coalizione dalla quale non può prescindere.
Il Presidente Mattarella si trova a risolvere un bel busillis, senza avere la determinazione di alcuni suoi predecessori, tipo Scalfaro o Napolitano, i quali al momento debito seppero tirare fuori le doti necessarie. Così almeno si dice; io aspetterei prima di trarre conclusioni affrettate. Ammonisce Guicciardini che “quando sei in partiti difficili [in difficoltà di scelta] o in cose che ti sono moleste, allunga e aspetta quanto puoi, perché quello spesso ti illumina o ti libera”. Or si vedrà la nobilitate sua! Il momento è, infatti, molto delicato e difficile.
Quel che stupisce in questo paese è l’insistenza su certi errori. Un errore imperdonabile, che ancora si coltiva, è il considerare il M5S con benevola tolleranza, quale hanno certi genitori nei confronti del figlio piccolo un po’ discolo. Taluni suoi comportamenti se fossero compiuti da altri verrebbero censurati dalla mattina alla sera come inqualificabili gesti di antidemocrazia e riempirebbero le piazze di cortei antifascisti.
L’ultima trovata grillina è di mettere la museruola ai suoi nuovi parlamentari, i quali potranno parlare solo dopo essere stati “istruiti”. Pare, questo, un comportamento di forza politica libera e democratica? E dove stiamo? Non faccio paragoni sudamericani per non offendere quella gente, che ha un’altra storia e un’altra educazione politica. In Italia o si è liberi o si è schiavi.
Fin dal suo esordio, a suon di vaffanculo – già all’epoca doveva essere fermato – questo partito ha dimostrato di essere un’anomalia politica. Averlo tollerato è indice di impotenza oggettiva o di cattiva coscienza politica da parte dell’establishment, che si rende conto di aver procurato danni al paese e non ha la forza per reagire con fermezza. Se pure questa è la ragione della eccessiva tolleranza nei confronti di questo partito, ora che ha una dimensione preoccupante e una forza epidemica – la gente lo vota alla cieca – è giunto il momento di mettere le cose politiche in chiaro. O si adegua alla Costituzione o va combattuto con determinazione in ogni modo e in tutti i settori del confronto politico.  Se poi c’è gente in questo paese che si dice antifascista un minuto sì e un minuto no e poi nei fatti condivide e accetta la coazione etica e politica, le conseguenze potrebbero essere ancora più gravi.
Ho l’impressione, tuttavia, che il M5S non abbia alcuna voglia di governare il Paese; neppure questa volta. Probabile che, propaganda a parte, non si sentano ancora preparati. Oggi non trova sponde. Ma c’era bisogno di molta intelligenza per capire che senza le sponde politiche non si va da nessuna parte? Il M5S paga per la sua stessa natura; quella natura che gli ha consentito di diventare il primo partito d’Italia. Che è come dire che la sua forza elettorale è la sua debolezza politica. Di Maio ha detto che se faranno un governo senza di loro, è un insulto alla democrazia e comunque tanto di guadagnato, perché aumenterebbero il consenso. Forse! Tanto accadrebbe se l’epidemia continuasse; ma la storia qualche volta insegna che anche le pestilenze più diffuse e longeve prima o poi si esauriscono e torna la salute.  
Azzardiamo anche noi una soluzione, sia pure provvisoria. Questo solo oggi è possibile, ciò che è destinato a scadere domani o dopodomani. Se il Presidente Mattarella non dovesse trovare la soluzione con una delle due forze politiche presunte vincitrici, allora potrebbe “commissariare” il governo, dare l’incarico ad un uomo da lui ritenuto all’altezza del compito per l’ordinaria amministrazione e nel frattempo fare una nuova legge elettorale, questa volta ad hoc, non per non far vincere nessuno, come il Rosatellum, ma per far vincere qualcuno.     

sabato 3 marzo 2018

L'antifascismo c'è, il fascismo potrebbe




Le tante manifestazioni antifasciste che hanno caratterizzato la campagna elettorale hanno avuto più un carattere di isterismo che di sincero impegno politico. L’isterismo – si sa – nasce in presenza di una realtà non gradita e contro cui non si sa che fare; è figlio dell’impotenza, ovvero è l’esito di una lotta interiore quando si sa di aver prodotto un male che si dice di aver sempre combattuto.
Non c’è dubbio che il fascismo, comunque declinato, politico o sociale, è nemico della democrazia; ma quando essa si accorge di averlo lei stessa prodotto, con le sue politiche sbagliate e produttive di insicurezza e malessere sociali, dà in escandescenze e quasi per esorcizzarne la causa se la prende con l’effetto. Poi, per allontanare da sé la responsabilità, s’inventa la crociata antifascista, facendo passare il fascismo per un invasore, giunto da chissà dove e per colpa di chissà chi, secondo la crociana metafora del popolo degli Hyksos. (Per necessità di comunicazione si adopera un lessico politico convenzionale, non necessariamente condiviso o condivisibile).
Non pare che si possa giudicare diversamente l’allarmatissimo ritorno di antifascismo diffuso, che, dalle suburre dei centri sociali fino ai colli fatali più alti, ha invaso il Paese.
Ma la percezione di un nuovo fascismo si avverte in Italia. Negarlo non serve, anche se serve di meno enfatizzarlo e ingigantirlo. Serve capirlo nella sua specificità e soprattutto evitarlo.
Esso consiste in un fascismo che, forme esteriori a parte, non ha i caratteri né di quello storico (Pnf) né di quello nostalgico (Msi). Il primo nacque nelle trincee della Grande Guerra e nel disordine politico creato nel dopoguerra dalla minaccia bolscevica. A Roma come a Mosca era il grido di chi occupava le fabbriche di Torino e di Milano e le campagne della pianura padana. Il secondo fu una consegna morale, prima ancora che politica, solo per lealtà e onore, nei confronti di chi aveva scelto di combattere pur sapendo di perdere. Dunque, testimonianza forte sul piano morale, sterile su quello politico.
Il fascismo, contro cui oggi il sistema si sta producendo col chiasso delle piazze, è frutto di una realtà politica e sociale che ha radici nella democrazia, nei suoi fallimenti e nelle sue contraddizioni oltreché nelle sue malefatte spicciole e quotidiane, che tanto hanno gonfiato il movimento di Grillo, che pure fascismo appare, ancorché inconsapevole e buffo.
Il modo come la democrazia italiana ha gestito finora i rapporti dell’Italia con l’Europa, il modo in cui amministra la ricchezza degli italiani e soprattutto l’immigrazione investono non tanto le scelte, che possono essere sempre giuste o sbagliate, comunque correggibili, ma la stessa natura del sistema democratico che si trova di fronte o a privilegiare il proprio popolo, garantendogli sicurezza e benessere, a danno però dei propri valori di accoglienza, di solidarietà e di apertura, o a privilegiare questi valori, ritenendoli irrinunciabili, e penalizzare il proprio popolo. Questo, nel momento in cui si vede trascurato o abbandonato nel malessere e nel disordine, reagisce e crea problemi per così dire di natura fascista o eversiva.
La domanda è: può la democrazia assicurare al suo popolo sicurezza e benessere nel rispetto dei propri valori?  
Una simile domanda non sembra aver tormentato le forze democratiche di governo di questi ultimi anni. Nei confronti dell’Europa i governi italiani hanno dimostrato di avere un complesso di soggezione, di cui la perdita della sede dell’Agenzia del Farmaco, è una delle tante prove. Nei confronti delle attività produttive hanno innalzato la soglia fiscale fino a farla diventare impossibile; ne è scaturito per un verso l’indebolimento delle aziende che versano le tasse e per un altro l’evasione di chi le tasse o non vuole o non può pagarle.
Con i migranti le cose sono andate anche peggio. Per un verso i governi che si sono succeduti hanno accolto i migranti, per essi hanno speso miliardi, senza assicurare loro un bel nulla, lasciandoli infestare le nostre città e rafforzare le associazioni criminali già esistenti, facendo finta di non sapere che queste persone devono mangiare, bere, dormire ed esercitare tutte le funzioni fisiologiche di un essere umano. Con chi vuole il governo che la gente se la pigli quando vede le nostre piazze, le nostre strade, le nostre periferie piene di queste persone, che fanno tutte le sopraddette necessità all’aperto, che rendono sporco e insicuro il Paese? E, ad un altro livello culturale, chi non si rende conto che lasciare tante persone all’avventura, ad arrangiarsi alla meno peggio, non è accoglienza, ma è solo irresponsabilità, ipocrita generosità per un verso e cinica strafottenza per un altro? C’è da meravigliarsi se, dopo tanta attesa, la gente perde la pazienza e diventa per così dire fascista?
Occorre un apologo. Conoscevo un professionista, molto bravo, che si era ammalato di fegato perché beveva in maniera smodata ed eccessiva. Si fece fare il trapianto, che peraltro non è cosa facile. Riuscì benissimo. Il fegato malvagio, fascista – mi si consenta la metafora paragonante – fu asportato e sostituito con un fegato buono, democratico. Ma quell’amico riprese a bere e ammalò il nuovo fegato, che ancora una volta da buono e democratico divenne malvagio e fascista; finì per andarsene dal creatore che lo aspettava per dirgli quanto era stato imprevidente e incontinente. Avere una concezione naturalistica della politica e della società significa imparare a comportarsi dalla natura. Machiavelli lo insegnava. E tuttavia in Italia sembra che si siano persi il buonsenso e i sani suggerimenti dei maestri del pensiero e della storia che si apprendevano a scuola.
Si è parlato nei tumultuosi giorni della campagna elettorale di sciogliere tutti quei movimenti che si rifanno in maniera diversa al fascismo (Casa Pound, Forza Nuova). E dall’altra parte, da Fratelli d’Italia, si è suggerito di sciogliere i centri sociali. Bene, sciogliamoli pure, gli uni e gli altri. E dopo? Se si continuerà a produrre malessero politico, disagio sociale, disservizio diffuso, piragnismo fiscale, gli stessi fenomeni sono pronti a riproporsi in forme più esasperate e pericolose, da una parte e dall’altra. E l’antifascismo continua ad essere rendita elettorale.