Ci sono fatti nella vita che ti
segnano profondamente al punto che ti bloccano l’orologio dell’esistenza come
accade ad un contachilometri quando lo schianto dell’auto contro un ostacolo lo
inchioda all’ultima velocità. Il rapimento di Aldo Moro del 16 marzo 1978 è uno
di quei fatti.
Quella mattina, ero appena uscito
dal Caffè Italia a Taurisano, avevo
messo in moto la mia 126 e mi
accingevo a fare marcia indietro per uscire dal parcheggio quando un amico di
lontano mi fece segni come a volermi parlare. Abbassai il finestrino.
“Il giornale radio ha appena
detto che a Roma è stato rapito Aldo Moro e uccisi gli uomini della sua
scorta”. Rimasi incredulo e istintivamente accesi l’autoradio: tutto vero!
Erano le 10 ed io dovevo andare a scuola, prendevo servizio alla terza ora.
A scuola, Professionale Femminile
di Taurisano, in via Roma, già sapevano tutto. Si sospesero le lezioni. Le
ragazze furono riunite in una stanza grande che fungeva da palestra coperta e
lì, secondo quanto aveva disposto il Preside della sede centrale di Nardò, si
parlò del tragico evento.
Per quanto scioccante, la notizia
era nelle atmosfere tragiche di quegli anni. La sorpresa fu tanta solo perché
riguardava un personaggio così alto e importante. Da almeno dieci anni l’Italia
viveva una situazione incandescente. Dopo il Sessantotto studentesco con tutto
il disordine provocato, ci furono gli scioperi degli operai e poi le stragi, da
quella del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano, alle successive,
e poi ai rapimenti e ai ferimenti di giudici, giornalisti, poliziotti, sindacalisti,
funzionari, in un crescendo di angoscia e di paura.
Le Brigate Rosse avevano
dichiarato guerra allo Stato borghese e imperialista, servo degli americani.
Come sempre accade in situazioni del genere, l’una parte genera quella opposta.
Le sigle di associazioni terroristiche di sinistra e di destra si
moltiplicarono, mentre si percepiva, sia pure confusamente, il ruolo che
avevano i servizi segreti in molte imprese criminali che venivano attribuite
agli anarchici e ai fascisti. Insomma si aveva il sospetto che ci fosse in
Italia il tentativo di impedire una svolta a sinistra, che avrebbe potuto avere
conseguenze internazionali, cambiando i rapporti di forza nell’ambito della
“guerra fredda” fra i due blocchi americano e sovietico, attraverso la
destabilizzazione del potere, apparentemente fatta dalle forze eversive di
sinistra e di destra, in sostanza dal potere politico attraverso i servizi di
sicurezza, che, quando non fu più possibile negare, furono detti “deviati”.
Il rapimento di Moro non fu un
evento-chiodo, nel senso che accadde e finì lì, ma continuò per 55 giorni, fino
al 9 maggio con la restituzione del suo cadavere, chiuso nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani, a Roma, tra la sede del Pci e quella
della Dc, simbolicamente in mezzo. Furono 55 giorni di stillicidio, con le
lettere che Moro scrisse ai più importanti dirigenti del partito per
convincerli a cedere alle Brigate Rosse, usando argomentazioni in forme che
dall’altra parte si ostinavano a considerare come estorte o come frutto di una
mente che ormai non era più compos sui. Fino al tragico epilogo.
Quella mattina il governo
Andreotti doveva ricevere la fiducia alla Camera e per la prima volta i comunisti
l’avrebbero votata, un altro passo, dopo quello della non sfiducia, verso la
loro entrata nel governo. L’incontro Dc-Pci era considerato una sorta di mostro
politico, ideato proprio da Moro, il quale, come già aveva fatto nel 1964,
quando convinse i suoi che era giusto e importante fare il centrosinistra coi
socialisti, ora li aveva convinti che era giusto e importante allargare ai
comunisti. Perplessità e paura da una parte e dall’altra. I democristiani si
erano lasciati convincere ancora una volta dal loro profeta. Ad essere maligni,
che in politica, è del tutto normale, la gran parte dei democristiani cedeva
volentieri alle lusinghe del potere, specialmente quando si paventava una
imminente perdita dello stesso. Moro li convinse che era, questa, una
eventualità non proprio remota, come dimostravano i risultati nelle ultime
elezioni, che avevano ridotto il distacco a soli quattro punti di percentuale.
I comunisti, da parte loro, non si fidavano e già avevano minacciato di non
votare la fiducia in presenza nel governo di ministri dei quali non avevano
stima alcuna.
Ma più di tutti contrari
all’apertura al Pci erano gli Stati Uniti d’America, che già in precedenza, col
loro segretario di stato Henry Kissinger, avevano avuto modo di manifestare la
loro contrarietà. Agli americani Moro non piaceva. Ma anche la Russia sovietica
guardava con sospetto questo avvicinarsi del partito comunista all’area di
governo e lo valutavano come una sorta di tradimento, dal quale sarebbe
derivato loro un danno politico nel confronto con lo storico avversario
americano.
La fine tragica che avrebbe fatto
Moro ha rimosso nei politici e negli osservatori, per una sorta di pietas nei suoi confronti, quello che egli
ha rappresentato realmente nella Dc e nel Paese. Si è molto discusso se
annoverarlo fra gli statisti o considerarlo un politico molto abile nel
condurre la sua parte politica al potere e farla restare il più a lungo
possibile. Distinzioni oziose, probabilmente, visto che gli statisti sono dei
politici; meno oziose, se considerando lo specifico, ci accorgiamo che in lui
il senso dell’individuo e della società ha prevalso sul senso dello Stato.
Va detto tuttavia che quando il
proprio Stato è inserito in un’alleanza all’interno della quale occupa un posto
secondario e la sua politica estera è per la massima parte dettata dalla
potenza leader, nel nostro caso quella americana, si può anche spendere la
propria abilità di politico in contesti più interni. La situazione italiana
presentava delle anomalie, una di queste era proprio Moro, con la sua politica
verso l’inclusione dei comunisti nel governo. I quali da qualche tempo, con
Enrico Berlinguer, l’omologo rosso di Moro, rivendicavano libertà da Mosca. In
Italia si cercava un incontro politico malvisto da entrambe le potenze
antagoniste. Era necessario interrompere il processo.
Una delle affermazioni morotee
più famose era che a succedere alla Dc sarebbe stata la Dc stessa. E questo, a
ben vedere, era possibile solo se si fosse evitato un confronto diretto ad excludendum – o noi o voi – e si
fosse riusciti ad attrarre nell’area del potere l’avversario più forte del
momento: noi e voi. In questa maniera la Dc poteva succedere a se stessa.
A quarant’anni da quel tragico
giorno-evento la situazione dell’Italia, in rapporto con l’esterno, non è
cambiata di molto; è molto cambiata all’interno. Del mondo partitocratico, di
cui Moro era protagonista indiscusso, non c’è più niente. A far parlare ancora di
quel mondo sono proprio i misteri della sua tragica fine.
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