venerdì 16 marzo 2018

16 marzo, quarant'anni dopo




Ci sono fatti nella vita che ti segnano profondamente al punto che ti bloccano l’orologio dell’esistenza come accade ad un contachilometri quando lo schianto dell’auto contro un ostacolo lo inchioda all’ultima velocità. Il rapimento di Aldo Moro del 16 marzo 1978 è uno di quei fatti.
Quella mattina, ero appena uscito dal Caffè Italia a Taurisano, avevo messo in moto la mia 126 e mi accingevo a fare marcia indietro per uscire dal parcheggio quando un amico di lontano mi fece segni come a volermi parlare. Abbassai il finestrino.
“Il giornale radio ha appena detto che a Roma è stato rapito Aldo Moro e uccisi gli uomini della sua scorta”. Rimasi incredulo e istintivamente accesi l’autoradio: tutto vero! Erano le 10 ed io dovevo andare a scuola, prendevo servizio alla terza ora.
A scuola, Professionale Femminile di Taurisano, in via Roma, già sapevano tutto. Si sospesero le lezioni. Le ragazze furono riunite in una stanza grande che fungeva da palestra coperta e lì, secondo quanto aveva disposto il Preside della sede centrale di Nardò, si parlò del tragico evento.
Per quanto scioccante, la notizia era nelle atmosfere tragiche di quegli anni. La sorpresa fu tanta solo perché riguardava un personaggio così alto e importante. Da almeno dieci anni l’Italia viveva una situazione incandescente. Dopo il Sessantotto studentesco con tutto il disordine provocato, ci furono gli scioperi degli operai e poi le stragi, da quella del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano, alle successive, e poi ai rapimenti e ai ferimenti di giudici, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, funzionari, in un crescendo di angoscia e di paura.
Le Brigate Rosse avevano dichiarato guerra allo Stato borghese e imperialista, servo degli americani. Come sempre accade in situazioni del genere, l’una parte genera quella opposta. Le sigle di associazioni terroristiche di sinistra e di destra si moltiplicarono, mentre si percepiva, sia pure confusamente, il ruolo che avevano i servizi segreti in molte imprese criminali che venivano attribuite agli anarchici e ai fascisti. Insomma si aveva il sospetto che ci fosse in Italia il tentativo di impedire una svolta a sinistra, che avrebbe potuto avere conseguenze internazionali, cambiando i rapporti di forza nell’ambito della “guerra fredda” fra i due blocchi americano e sovietico, attraverso la destabilizzazione del potere, apparentemente fatta dalle forze eversive di sinistra e di destra, in sostanza dal potere politico attraverso i servizi di sicurezza, che, quando non fu più possibile negare, furono detti “deviati”.
Il rapimento di Moro non fu un evento-chiodo, nel senso che accadde e finì lì, ma continuò per 55 giorni, fino al 9 maggio con la restituzione del suo cadavere, chiuso nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani, a Roma, tra la sede del Pci e quella della Dc, simbolicamente in mezzo. Furono 55 giorni di stillicidio, con le lettere che Moro scrisse ai più importanti dirigenti del partito per convincerli a cedere alle Brigate Rosse, usando argomentazioni in forme che dall’altra parte si ostinavano a considerare come estorte o come frutto di una mente che ormai non era più compos sui. Fino al tragico epilogo.  
Quella mattina il governo Andreotti doveva ricevere la fiducia alla Camera e per la prima volta i comunisti l’avrebbero votata, un altro passo, dopo quello della non sfiducia, verso la loro entrata nel governo. L’incontro Dc-Pci era considerato una sorta di mostro politico, ideato proprio da Moro, il quale, come già aveva fatto nel 1964, quando convinse i suoi che era giusto e importante fare il centrosinistra coi socialisti, ora li aveva convinti che era giusto e importante allargare ai comunisti. Perplessità e paura da una parte e dall’altra. I democristiani si erano lasciati convincere ancora una volta dal loro profeta. Ad essere maligni, che in politica, è del tutto normale, la gran parte dei democristiani cedeva volentieri alle lusinghe del potere, specialmente quando si paventava una imminente perdita dello stesso. Moro li convinse che era, questa, una eventualità non proprio remota, come dimostravano i risultati nelle ultime elezioni, che avevano ridotto il distacco a soli quattro punti di percentuale. I comunisti, da parte loro, non si fidavano e già avevano minacciato di non votare la fiducia in presenza nel governo di ministri dei quali non avevano stima alcuna.  
Ma più di tutti contrari all’apertura al Pci erano gli Stati Uniti d’America, che già in precedenza, col loro segretario di stato Henry Kissinger, avevano avuto modo di manifestare la loro contrarietà. Agli americani Moro non piaceva. Ma anche la Russia sovietica guardava con sospetto questo avvicinarsi del partito comunista all’area di governo e lo valutavano come una sorta di tradimento, dal quale sarebbe derivato loro un danno politico nel confronto con lo storico avversario americano.
La fine tragica che avrebbe fatto Moro ha rimosso nei politici e negli osservatori, per una sorta di pietas nei suoi confronti, quello che egli ha rappresentato realmente nella Dc e nel Paese. Si è molto discusso se annoverarlo fra gli statisti o considerarlo un politico molto abile nel condurre la sua parte politica al potere e farla restare il più a lungo possibile. Distinzioni oziose, probabilmente, visto che gli statisti sono dei politici; meno oziose, se considerando lo specifico, ci accorgiamo che in lui il senso dell’individuo e della società ha prevalso sul senso dello Stato.
Va detto tuttavia che quando il proprio Stato è inserito in un’alleanza all’interno della quale occupa un posto secondario e la sua politica estera è per la massima parte dettata dalla potenza leader, nel nostro caso quella americana, si può anche spendere la propria abilità di politico in contesti più interni. La situazione italiana presentava delle anomalie, una di queste era proprio Moro, con la sua politica verso l’inclusione dei comunisti nel governo. I quali da qualche tempo, con Enrico Berlinguer, l’omologo rosso di Moro, rivendicavano libertà da Mosca. In Italia si cercava un incontro politico malvisto da entrambe le potenze antagoniste. Era necessario interrompere il processo.
Una delle affermazioni morotee più famose era che a succedere alla Dc sarebbe stata la Dc stessa. E questo, a ben vedere, era possibile solo se si fosse evitato un confronto diretto ad excludendum – o noi o voi – e si fosse riusciti ad attrarre nell’area del potere l’avversario più forte del momento: noi e voi. In questa maniera la Dc poteva succedere a se stessa.
A quarant’anni da quel tragico giorno-evento la situazione dell’Italia, in rapporto con l’esterno, non è cambiata di molto; è molto cambiata all’interno. Del mondo partitocratico, di cui Moro era protagonista indiscusso, non c’è più niente. A far parlare ancora di quel mondo sono proprio i misteri della sua tragica fine.   

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