sabato 29 ottobre 2022

Meloni: nuovo giro, nuovo vincitore

Tra le frasi più significative pronunciate da Giorgia Meloni dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, quale Presidente del Consiglio, rigorosamente al maschile, si fa notare quella sul fascismo. “Non ho mai avuto simpatia per i regimi dittatoriali”, aggiungendo “fascismo compreso”. Poteva non dirlo. Poteva fermarsi genericamente ai regimi dittatoriali. Ha voluto esplicitare il pensiero: fascismo compreso. Perché? Per compiacere i suoi avversari che non sanno come attaccarla e ricorrono ai soliti mezzucci? Se così fosse, se cioè avesse ceduto alla tentazione di compiacerli, sarebbe grave per la sua saldezza caratteriale, che finora l’ha contraddistinta. Agli attacchi di fascismo lei non ha mai dato importanza. È incontestabile che in passato di dichiarazioni di simpatia per il fascismo e per Mussolini in particolare ne ha fatte. Più di recente ha detto che il fascismo è materia per storici. Insomma, a dire il vero, un certo imbarazzo la questione glielo provoca. Ma, per negare l’evidenza – e lei lo ha fatto – occorre avere una ragione forte. E, allora, perché la sortita antifascista? Quale la ragione? Per spregiudicatezza, alla Enrico IV di Francia e di Navarra, che disse allegramente “Parigi val bene una messa”, lui che era calvinista? Non pare. A voler essere superstiziosi, non le converrebbe neppure, visto che il re francese finì per essere ucciso da un cattolico fanatico, offeso da tanta “sovrana” spudoratezza. Le ragioni sono due. Una è che si è resa conto che restare optime in certi ambienti è necessaria la forma. Nello specifico, è necessario dire che il fascismo è il male assoluto. Lei non l’ha messa proprio in questi termini, ma si è avvicinata. Di dichiarazioni del genere è probabile che ce ne saranno altre. La seconda ragione, assai più convincente e importante, è politica e non ha nulla a che fare con mancanza di carattere o spregiudicatezza. La Meloni si rende perfettamente conto che un giro della sua vita – ma non solo della sua – si è concluso. Quel partito, dal quale proviene, dopo tante tribolazioni, durate ben settantasei anni, è finalmente giunto al potere per vie assolutamente democratiche, dimostrando che tutte le persecuzioni subite erano pretestuose. Che ciò sia accaduto proprio ad un mese dal Centenario della Marcia su Roma è una di quelle coincidenze-scherzi che fa la storia. Il primo giro la Meloni lo ha concluso vittoriosamente. Il nuovo, quello iniziato dal suo insediamento, è un altro giro, che nulla o quasi ha a che fare col primo. Qui si tratta di governare, di dimostrare veramente che il fascismo è roba da storici e da industriali dell’editoria, che su Mussolini e il fascismo non finiscono di realizzare affari d’oro. Basta considerare tutte le iniziative editoriali, cartacee, televisive e cinematografiche di questi giorni, sorte per la circostanza del Centenario, in gran parte autentiche speculazioni economiche, come fanno i pasticcieri per le evenienze di Pasqua e Natale. Governare, si diceva. Al netto dei problemi da risolvere quotidianamente per la fisiologia dello Stato, della Nazione e della Società, dove pure la qualità e l’efficacia dei provvedimenti sono importanti, il nuovo giro riguarda un progetto politico che si fonda sulla conservazione dei più importanti valori di Dio, di Patria e di Famiglia. Un’impresa, ardua che si è voluto annunciarla con alcune importanti scelte, come a dire che dal mattino si vede il buon giorno. L’elezione dei due presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, “giustamente” è stata definita dagli avversari come fortemente identitaria. Per la verità hanno usato il termine “incendiaria”, ma si può capire, data la non ancora elaborata rabbia per la sconfitta. Anche il cambiamento dei nomi di alcuni ministeri è un avviso, un annuncio, come spesso si dice in politichese, che però è significativo. Altro, poi, quel che seguirà alle promesse. Il primo dato, dunque, che va considerato di questo nuovo giro, non è comprensibilmente di raggiungere determinati obiettivi, fortemente identitari, ma di durare cinque anni, nel corso dei quali avviare – questo è importante! – tutta una serie di inversioni di tendenze in materia dei su riferiti valori. Non si tratta, infatti, di obiettivi facilmente raggiungibili, né nel breve né nel lungo termine. Certi processi durano molti anni. Ma se questo processo non sarà avviato, se non si vedranno certi risultati, che comprovino l’avvenuta inversione di tendenza in leggi e provvedimenti, difficilmente la Meloni potrebbe vincere questo nuovo giro. Salvo che proprio per rimanere in sella non farà che abituarsi all’andazzo tipico del non fare e lasciare che la deriva iniziata dai partiti di sinistra dei precedenti governi continui. In questo caso, per tornare ad Enrico IV, Parigi non varrebbe più una messa ma una cento mille…e Dio sa quante!

sabato 22 ottobre 2022

Giorgia Meloni, prima donna d'Italia

Da quando è apparso, prima delle elezioni, molto probabile e poi dopo, sempre più certo, che Giorgia Meloni sarebbe stata la prima donna d’Italia ad essere incaricata di formare il governo del Paese nella storia della Nazione, e perfino dopo aver ricevuto l’incarico e giurato nelle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, politici, giornalisti, osservatori e critici, hanno ripetuto milioni di volte la stessa identica frase: “Meloni prima donna nella storia della Repubblica” a diventare capo del governo. Ma l’Italia non è nata il 2 giugno 1946, prima della Repubblica c’è stato il Regno d’Italia. Fulmine, ce ne fosse stato uno a dirlo! Sembra cosa da niente, un volersi titillare sulle ragnatele del dibattito pubblico. E, invece, no. Perché il lapsus, voluto o involontario, rivela una falsità storica e un’impostura intollerabili. A furia di negare verità storiche conclamate, per pura propaganda politica, quasi è diventata una verità assoluta: prima della Repubblica c’era il fascismo ma prima del fascismo c’era il nulla. Tanta ignoranza è figlia dell’abitudine di usare la storia come conviene, deliberata negazione di termini sui quali per certa cultura politica grava la damnatio nominis, come per Regno o per Nazione. Sta di fatto che certi comportamenti di antifascisti a diciotto carati somigliano tanto a certi insegnamenti di Joseph Goebbels, il ministro della propaganda nazista: ripetuta più volte una menzogna diventa verità. La verità incontrovertibile è che Giorgia Meloni è la prima donna nella storia d’Italia a diventare Capo del governo. Altrettanto incontrovertibile – repetita juvant – è che l’Italia è Stato sovrano e indipendente dal 17 marzo 1861, quando fu proclamato il Regno d’Italia. Chiedo scusa per l’ovvietà. La Meloni è la prima donna d’Italia in altro e più compiuto senso. È la prima Presidente del Consiglio che proviene dalla parte politica maledetta, la destra sovranista e patriottica, da quel Msi che aveva come simbolo quella stessa fiamma che ancora campeggia nel simbolo di Fratelli d’Italia, il partito che lei ha fondato con Guido Crosetto e Ignazio La Russa. Che ciò sia accaduto a cento anni dalla presa del potere da parte del fascismo sembra quasi una nemesi. È riuscita ad imporsi su vecchie abitudini politiche e su vecchi telamoni, che mai avrebbero pensato di essere demoliti da una donna. Le lucide mattane di Silvio Berlusconi alla vigilia dell’incarico a Meloni da parte di Mattarella si sono rivelate autentici attentati al normale scorrere delle cose, un voler portare il Paese in una direzione diversa, un tentativo, per fortuna, andato a monte. Una lezione per tutti, che dimostra che oggi in Italia o in qualsiasi paese che faccia parte dell’Unione Europea, bisogna fare i conti con l’alleanza in cui si è collocati. Se consideriamo che l’Europa è oggi “in guerra” con la Russia, se pure non direttamente guerreggiata, avere rapporti col suo presidente Putin potrebbe passare per una sorta di connivenza col “nemico”. C’è poco da scherzare di fronte alla furia che da otto mesi si è abbattuta sull’Ucraina, di cui l’Europa e la Nato hanno preso le difese, di fronte alla minaccia nucleare. Le sdolcinature in modalità Vodka-Lambrusco di Berlusconi e Putin fanno male a chi sta soffrendo per una guerra ingiusta e devastante. La Meloni ha dimostrato in tutte le fasi del suo successo, campagna elettorale e formazione del governo, di saper imprimere un ritmo sostenuto, di andare diritta al traguardo senza perdersi in rallentamenti e giravolte, trovando sintonia di vedute e di tempi nel Presidente Mattarella. Berlusconi ha tentato invano fino all’ultimo di sgraffignarle delle “limature” alla formazione del governo, invitandola a pranzo, secondo i suoi soliti modi di fare. Il decisionismo dimostrato dalla Ragazza della Garbatella è pari alla sua freddezza di non scomporsi di fronte agli attacchi dei suoi avversari, palesi e occulti. E sì che in politica quelli che non mancano mai sono proprio i nemici, gli avversari, vecchi e nuovi. Molto probabilmente per il governo della Meloni non tutto scorrerà liscio come l’olio. Il suo governo nasce con inevitabili mugugni e rancori. I suoi due alleati, Berlusconi e Salvini, ma non trascurerei neppure i cosiddetti “moderati”, altro non aspettano che farle gli sgambetti, metterla in difficoltà, sabotare o rallentare importanti iniziative. È il solo modo per riprendersi la rivincita, per vendicarsi delle sue decisioni, per ridimensionare quella che oggi sempre più spesso viene indicata come “una donna sola al comando”.

sabato 15 ottobre 2022

Il sovvertimento certificato

Giovedì, 13 ottobre 2022, è un giorno speciale per l’Italia. A cento anni dalla Marcia su Roma, dalla presa del potere del fascismo, al Senato della Repubblica il sovvertimento delle elezioni del 25 settembre è certificato. Il “fascista” Ignazio La Russa è stato eletto Presidente del Senato, seconda carica dello Stato. Dopo il discorso di Liliana Segre, chiamata a presiedere l’assemblea della prima riunione della XIX legislatura, un discorso tutto antifascista, come era normale che fosse, ecco il discorso di insediamento di La Russa, un “fascista” mai rinnegante, mai pentito, benché, come era opportuno che fosse, defascistizzato per la circostanza. Il Senato, lo si leggeva nei volti degli antifascisti, era una camera ardente. Il morto era nei musi lunghi, nelle espressioni incredule, nel rammarico e nei ghigni di circostanza dei tanti antifascisti, che sull’antifascismo hanno creato le loro fortune politiche per ben 76 anni di Repubblica, loro, i loro padri e i loro nonni. Il morto non era però l’antifascismo, come verrebbe di dire per stare nella metafora, ma il potere politico che di antifascismo si è nutrito in tutti questi anni. A conferma della morte dell’antifascismo è arrivato il voto in favore di La Russa di una ventina di convenzionali antifascisti. Il fascismo e l’antifascismo restano due categorie politiche importanti, che hanno ed avranno sempre un senso, ma come strumenti di lotta politica sono due cadaveri eccellenti. Lo hanno capito prima i fascisti, fin dalla nascita della Repubblica, quando per loro non c’era orizzonte ed era chiaro che essere fascisti voleva dire soltanto conservare un minimo di dignità come uomini di fronte al dilagare spudorato e vergognoso dell’antifascismo. Non che non ci fossero antifascisti autentici, c’erano, e come! Ma erano una minoranza ed erano in gran parte gli stessi che avevano fatto dell’antifascismo durante il regime e per questo erano stati emarginati e perseguitati; c’erano antifascisti autentici ed erano i convertiti e i pentiti sinceri. Ma la stragrande maggioranza era costituita dai soliti che in genere si riconoscono nel pensiero dominante per aver più e migliori opportunità di affermazione e scalata sociale nei più vari settori della vita. Non c’erano più i fascisti veri. Lo hanno capito invece con ritardo e con difficoltà che fascismo e antifascismo sono morti gli antifascisti, perché non è facile rinunciare ad uno strumento politico che tanto latte ha munto. Lo si è visto durante la campagna elettorale che ha arriso a Giorgia Meloni, che gli antifascisti non hanno avuto il coraggio di accusare esplicitamente di fascismo, anzi hanno più volte detto che era controproducente darle del fascista, dal momento che in Italia, stando ai sondaggi della vigilia, aveva il 25% degli elettori dalla sua parte. Ci voleva del coraggio ad accusare di fascismo tanta gente. Qualche avveduto antifascista ha messo in guardia l’ambiente: se poi vince la Meloni non si può dare al mondo l’immagine dell’Italia come di un paese fascista. Ma era un calcolo che non hanno saputo gestire. In realtà la Meloni veniva continuamente bersagliata dagli antifascisti irriducibili per le sue performance comiziesche e le rimproveravano di essere doppia, di esibire un volto bonario e rassicurante nelle vesti istituzionali, e un altro, violento e aggressivo, in quelle di partito. Per non parlare di tutte le ingiurie rivoltegli dagli antifascisti scatenati dei centri sociali durante i suoi comizi, i quali cercavano l’incidente per passarlo poi di competenza ai loro “maggiori” per la solita speculazione. Il popolo italiano, il 13 ottobre, ha avuto modo di toccare con mano l’avvenuto sovvertimento nei due discorsi, della Segre prima e di La Russa poi. La Segre ha fatto un discorso tutto incentrato sulla sua condizione di ebrea deportata, sulla bellezza e la forza dell’antifascismo, sulla centralità del Parlamento, su quel sistema di libertà che le aveva consentito di arrivare un giorno ad essere seduta sullo scanno più alto del Senato della Repubblica. La Russa non ha rinnegato niente del suo passato ed accettato tutto del presente, che ha recepito dalle parole della Segre, ed entrando nello specifico ribadiva che le date storiche dell’antifascismo, del 25 aprile, del 1° maggio e del 2 giugno, sarebbero rimaste fondative della Repubblica a garantire la continuità di certi valori. Poteva dire e fare diversamente? La sua proposta di aggiungere anche tra le feste nazionali anche il 17 marzo 1861, data della proclamazione del Regno d’Italia, era solo una nota identitaria che nulla aveva a che fare col fascismo e con l’antifascismo, un omaggio al sovranismo, di cui il suo partito si fregia e si pregia. Un passaggio, questo, che è stato sottovalutato dagli osservatori, specialmente interessati dei partiti avversi. Invece è importante, perché l’Italia esiste come Stato sovrano dal 1861 non già dal 1945.

domenica 9 ottobre 2022

Cari camerati del M5S

Gran parte di voi molto probabilmente non sa la storia dell’Italia del secondo dopoguerra; e questo non è né un reato né un peccato. Diventa una cosa e l’altra, però, quando non si vuole saperla mentre si pretende di imporsi come forza politica nuova priva di pregresse geniture. Che si può anche capire, non volendo avere responsabilità alcuna su quanto è accaduto ieri e ieri l’altro, che in politica conta moltissimo. Quando il Movimento 5 Stelle si propose nell’agone politico italiano nei primi anni Dieci e partecipò alle elezioni del 2013 sull’onda degli spettacoli sguaiati del comico Beppe Grillo, tutti concludentisi col famoso Vaffa, rimasi sconcertato dal fatto che moltissime persone serie, non tutte giovanissime, che per anni erano state missine ora si dicevano orgogliosamente e convintamente dei Cinquestelle. Persone che alla politica avevano voluto bene per anni in maniera disinteressata anche se non ricambiate e anzi “democraticamente” maltrattate. Chi erano queste persone e da dove venivano? Prima del M5S in Italia c’era stato un altro movimento, il Movimento Sociale Italiano, fondato nel 1946 dai reduci della Repubblica Sociale Italiana. E prima ancora c’era stato il Fronte dell’Uomo Qualunque, fondato nel 1946 da Guglielmo Giannini, direttore dell’omonimo giornale satirico, che lo stesso aveva fondato a Roma nel 1944. Fra queste due esperienze politiche intercorrevano evidenti parentele, l’una e l’altra si riconoscevano nell’antipartitismo e nell’anticomunismo e si esprimevano l’una con la gravità del serio (Msi), l’altra con la satira del faceto (Uomo Qualunque). L’una e l’altra furono accomunate dal sistema politico dei partiti nell’emarginazione quando non nella persecuzione, vedendo in essi, quel sistema, tracce di fascismo e di antipolitica. Il Fronte dell’Uomo Qualunque ebbe vita breve. Non così per il Msi, che continuò per diversi decenni, fino al 1994-95, quando cambiò nome e divenne Alleanza Nazionale, conservando la Fiamma. Fino agli inizi degli anni Novanta, prima del cosiddetto sdoganamento di Berlusconi, il Msi era stato sempre escluso dal sistema partitico italiano a causa delle sue ascendenze fasciste nonostante i tentativi, numerosi, fatti per inserirsi nel gioco democratico. Ma la democrazia italiana non è stata mai perfetta, non è stata mai una retta ma un segmento, è stata una democrazia di parte, detta dell’Arco costituzionale, chiusa a quei partiti che non avevano avuto parte alcuna nella scrittura della Costituzione italiana, come era accaduto al Msi. A questo sistema cosiddetto democratico, ma partitico, il Msi serviva come presenza e costante minaccia fascista nella formula degli opposti estremismi, salvo che l’altro estremismo era il Pci, che non era nel governo ma era nell’Arco, con tutti i privilegi e gli onori connessi, compreso quello di essere sempre più attratto e accolto nel governo. I missini, invece, venivano sistematicamente esclusi dalla vita politica del Paese e questo alimentava in essi rancore e ribellismo. Inquieti e ribelli, insomma, perché troppo avevano sopportato e troppo a lungo. Il missino-missino era diventato rancoroso e ribelle, con accarezzamenti anche dilettantescamente eversivi, che invano i dirigenti del partito condannavano. Uno dei più colti intellettuali dell’area esclusa, lo storico e musicologo Piero Buscaroli, ripeteva spesso di sentirsi nell’Italia dell’Arco costituzionale un sopravvissuto in territorio nemico. E come lui, evidentemente, tantissimi altri missini. Tutta questa premessa, cari camerati Cinquestelle, per dire che rancoroso e ribelle è stato anche il Movimento fondato da Beppe Grillo. Con la differenza che mentre per i missini nulla ha mai fatto il sistema arcostituzionale per recuperarli alla democrazia, anzi li ha respinti, per i grillini non c’è stato nessun problema di inserimento. A Grillo è stato concesso di entrare e di uscire dal codice penale a suo piacimento quando nelle piazze insultava e diffamava a dritta e a manca. Le condizioni politiche erano cambiate fin dal 1989 con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Urss e del comunismo, mentre l’Arco costituzionale si poteva dire crollato sotto i colpi di Tangentopoli. Fu un’impressione la mia che molti grillini, come dicevo in apertura, erano stati del Msi e i più giovani di essi cresciuti in famiglie di missini sfegatati e rabbiosi. Alcuni erano transitati dal movimento di Mani Pulite e dal partito di Antonio Di Pietro l’ “Italia dei Valori”. Molti di essi li conoscevo personalmente. Il che faceva aumentare il mio sconcerto. La mia impressione divenne certezza quando seppi che alcune famiglie di importanti esponenti grillini erano state tradizionalmente missine, come quelle di Alessandro Di Battista e di Luigi Di Maio, e che addirittura il papà di Di Battista teneva a dire che lui non era missino ma fascista, come molti altri che per rabbia dicevano la stessa cosa. Non v’è dubbio che molto è cambiato in Italia, in Europa e nel mondo dagli anni della partitocrazia della cosiddetta Prima Repubblica e dunque si capiscono benissimo i cambiamenti anche personali. Nulla da dire sui tanti Cinquestelle che oggi legittimamente cercano di darsi una identità politica fuori dal generico populismo grillino. Si osserva tuttavia che il tentativo di Giuseppe Conte, leader oggi del partito, di dare al Movimento un’etichetta di sinistra va a sbattere contro una realtà che la storia registra come diversa da quella che essi s’immaginano. Una storia non remota, ma appena di quattro-cinque anni fa, quando lo stesso Conte, uno dei tanti che valeva uno, era a capo di governi in successione diametralmente opposti. Non bastano reddito di cittadinanza e bonus vari per legittimarsi di sinistra. Ancora oggi io vedo in molti Cinquestelle l’antica Fiamma del Msi e il Torchio dell’Uomo Qualunque. Il discorso vale la pena di approfondirlo.

domenica 2 ottobre 2022

Destra: finito un percorso se ne avvia un altro

Fuor da ogni intento propagandistico, che sia a favore o contro Fratelli d’Italia, il successo elettorale del 25 settembre del partito di Giorgia Meloni rappresenta l’ultimo tratto del postfascismo missino, essendo innegabile la derivazione genetica dal partito fondato il 26 dicembre 1946 da Almirante e camerati. Fu quella una scelta di testimonianza, non più disperata come era stata quella fascista di Salò, ma con una prospettiva, di avanzare in democrazia senza rinnegarsi. Questo voleva dire la Fiamma Tricolore con la scritta MSI: una speranza. Il tempo avrebbe fatto il resto. Da allora il partito ha conosciuto diversi tentativi di sopravvivenza, in ognuno dei quali come costante c’era il perseguimento della legittimazione per una partecipazione democratica al dibattito politico del Paese e ove fosse stato possibile al governo. Dopo il drammatico tentativo di inserimento democratico col governo Tambroni nel luglio del 1960, conclusosi coi moti di piazza della sinistra, importanti furono i tentativi di Arturo Michelini di fondare la Grande Destra coi liberali di Giovanni Malagodi e i monarchici di Alfredo Covelli alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, fallito per l’indisponibilità del segretario liberale; l’iniziativa di Giorgio Almirante della Destra Nazionale – Costituente di Destra per la Libertà nella prima metà degli anni Settanta; la nascita di Alleanza Nazionale con Gianfranco Fini nel 1995 (svolta di Fiuggi) dopo un periodo di incertezze e la segreteria di Pino Rauti col tentativo di quest’ultimo di spostare a sinistra il partito; e infine, nel 2012, la fondazione di Fratelli d’Italia per opera di Ignazio La Russa, Guido Crosetto e Giorgia Meloni. Dal 1946 ad oggi quel che c’era da non rinnegare è andato sempre più scolorendosi anche per la scomparsa dei protagonisti di quell’avventura e dei loro sostenitori. Sarebbe tuttavia intellettualmente disonesto non riconoscere che, pur ammettendo sinceramente i molti e gravi errori fatti dal fascismo storico, primo fra tutti le leggi razziali, gli italiani di oggi che si riconoscono come di destra hanno coltivato una certa cultura di derivazione vagamente fascista sempre più fortemente innestata sul tronco della democrazia. Sono i valori fondanti di Fratelli d’Italia che il 25 settembre hanno avuto un formale riconoscimento da parte degli elettori. Ecco, la legittimazione a cui fin dal 1946 mirava il postfascismo è un dato acquisito. E ciò per una curiosa coincidenza è accaduto ad un secolo esatto dalla Marcia su Roma ovvero dalla presa del potere da parte del fascismo. Ma questo di Fratelli d’Italia non è un ritorno. È altra cosa: il 25 settembre 2022 non è il 28 ottobre 1922. Se a caratterizzare il fascismo è la violenza e se a caratterizzare la democrazia è il pacifico e libero concorso di forze politiche diverse, la vittoria elettorale di Giorgia Meloni è democrazia. Come sarà il nuovo corso? Il fatto che la Meloni formerà e guiderà il nuovo governo pone una serie di riflessioni su come declinare i valori della destra, che negli anni dell’opposizione sono stati in fiero contrasto con tutta una visione della vita della sinistra. Dico della sinistra e non democratica perché la sinistra non esaurisce la democrazia, né questa è di sinistra o non è. La prima riflessione è che operando in un contesto democratico, di cui si è convintamente sostenitori, suggerisce di rispettare la libertà e i diritti di tutti. Il che significa che sul piano dei diritti acquisiti ma dalla destra non condivisi non ci può essere alcuna marcia indietro, come da parte avversa si è sostenuto in campagna elettorale e ancora si sostiene senza nessun fondamento. Una politica di destra oggi non può che mirare al recupero di certi valori senza forzature. Secondo quanto ha detto la Meloni in campagna elettorale occorre mettere in essere politiche che impediscano ai giovani di scivolare o precipitare nelle devianze. Queste non possono essere considerate dallo Stato come normalità da amministrare con criteri assistenzialistici e ipocritamente pietistici, come fa la sinistra, ma mali da prevenire, da evitare. Una politica di destra non può non mirare alla diminuzione di aborti, di tossicodipendenze e di tante altre sconvenienze, quando non patologie, sociali. Il problema del calo delle nascite, per esempio, non può prescindere dall’aborto, dalle unioni civili e dalle tante forme di “famiglia” che non producono figli. La questione della migrazione clandestina, altro esempio, va affrontata sì nel contesto delle leggi internazionali e dell’Europa ma senza perdere di vista gli interessi nazionali immediati e di prospettiva. La cultura scolastica deve aprirsi ad una vera pluralità di posizioni, prima fra tutte la tradizione italiana col recupero della centralità della lingua, della letteratura e della storia. L’approccio metodologico in tutti i settori non può essere reprimere, ma scoraggiare per un verso e incoraggiare per un altro, mettendo in essere opportune politiche di valorizzazione e di perseguimento. A fronte della diversa prospettiva finora avuta la destra di governo non può che ritenere concluso il lungo percorso affrontato in ben 76 anni di storia. Da qui in avanti si torna sì all’avanzare senza rinnegarsi ma calato in un contesto diverso, non più ricerca di riconoscimento e di legittimazione, che in una democrazia dovrebbero essere scontate, ma esercizio di governo. Dovrebbe iniziare per la destra la fase construens. Se la Meloni saprà declinare i valori della destra che rappresenta con le metodiche democratiche e sortirà risultati positivi, il suo governo sarà la dimostrazione che davvero un lungo percorso si è concluso e che uno nuovo è stato iniziato, non solo per la destra ma per la democrazia in Italia.