sabato 27 aprile 2024

Si torna al '68, si torna nelle fogne

C’era una volta un’Italia che celebrava e commemorava i suoi uomini e le sue date in maniera unitaria e orgogliosa. Era l’Italia del Regno, quando gli italiani si riconoscevano nella Marcia reale e insieme nell’Inno di Mameli e nella Leggenda del Piave. Quell’Italia è scomparsa il 2 giugno 1946, quando al Referendum istituzionale il popolo italiano scelse la Repubblica. È seguita un’altra Italia, divisa e rancorosa. Non poteva essere diversamente, uscendo da una guerra civile, lunga e cruenta, in cui il sangue dei vinti non valeva quello dei vincitori. E ancora oggi viene ribadito. Non si è trovato un solo giorno dell’anno per ricordare le migliaia di vittime fasciste nel corso di una guerra durata fino a tutti gli anni Quaranta, come diversi storici hanno raccontato sulla base di ricerche documentali. Per i vinti non c’è pietà: erano dalla parte sbagliata. E se avessero vinto loro – si dice – non avremmo avuto la libertà e la democrazia. Perciò, che restino ignorati, fino al giorno del giudizio. Ogni anno, in occasione del 25 aprile, si recita lo stesso copione. Quest’anno con un motivo nuovo, la guerra israelo-palestinese, l’odio antisemita. Le armate di sinistra dalle solite postazioni, università e centri sociali, già da tempo hanno scatenato la guerriglia. Devono fronteggiarle gli uomini delle forze dell’ordine. Le università sono presidiate dalle novelle guardie rosse. Non si può accedere se non si è di sinistra, una qualunque, non fa differenza. Alt a Capezzone, alt a Parenzo, alt a Molinari. E i tre anzidetti sono solo tre giornalisti. Ma chi è di destra o addirittura ebreo non ha diritto di parola. Va da sé che se degli studenti di destra volessero entrare nell’università anche con la forza perché è un loro diritto, allora si tornerebbe al sangue. Si sta scivolando agli anni Sessanta-Settanta del ‘900. Allora il nemico principale era un generico fascismo, tanto generico che comprendeva tutti quelli che non erano di sinistra. A destra, a livello giovanile, erano quattro gatti, che finirono per essere utilizzati come terroristi al servizio di oscure manovre politiche. Altri dovettero darsi alla macchia ovvero alla fogna, come con un po’ d’ironia pensò Marco Tarchi che fondò “La voce della fogna” e come oggi ripete Tomaso Montanari, il supercomunista rettore dell’Università per stranieri di Siena. “Fascisti, carogne, tornate nelle fogne”, era lo slogan, uno dei tanti, che i giovani di sinistra urlavano contro i giovani di destra, per lo più nascosti, per l’impari confronto. Giovani pronti a uccidere o a farsi uccidere, come capitò a tanti, dell’una e dell’altra parte. Pensavamo di esserci allontanati da quelle atmosfere cupe e invece due eventi, clamorosi e destabilizzanti, sono arrivati, quasi a sorpresa. La vittoria nel 2022, a cento anni dalla presa del potere di Benito Mussolini, di Giorgia Meloni; e la guerra israelo-palestinese. Il primo evento era nell’ordine delle cose, ma non per questo meno traumatizzante. Un partito per vari motivi è cresciuto al punto da essere leader di una coalizione e vincere democraticamente le elezioni. Il secondo era meno scontato. Terroristi palestinesi in preda al delirio ideologico, arricchito da droghe meno riconducibili ad Allah, hanno compiuto una strage di israeliani senza precedenti, uomini, donne, bambini, anziani, macellati nel corso di una notte di ottobre 2023. I nostri giovani di sinistra – ma lo stesso si comportano in tutto il mondo – sono scatenati contro gli israeliani solo perché hanno risposto alla violenza con altra e ben più motivata violenza. Non hanno difficoltà a dire che l’attacco palestinese ad Israele era giusto e che invece la risposta di Israele è un genocidio insopportabile. Non vogliono neppure che ci siano due popoli due stati, come ripete in litania papa Francesco, quasi immemore che questa soluzione, prevista con risoluzione dell’Onu nel 1948, è fallita e ben quattro guerre Israele ha dovuto combattere per ritrovarsi sempre punto e daccapo. A sinistra hanno sempre la soluzione pronta. Vogliamo la pace e se questa passa dalla cessione di territori, come nel caso dell’Ucraina aggredita dalla Russia, si facciano tutte le cessioni necessarie. In fondo c’è la resa come ultima opzione risolutrice. Come si può, di fronte a posizioni simili, pensare di poter celebrare il 25 aprile tutti d’amore e d’accordo? Se pure non ci fossero i soliti motivi che tengono gli uni contro gli altri quelli di destra e quelli di sinistra, ci sono sempre dei pretesti per questi arruolati senza scadenza per tenere il Paese in uno stato di perenne disordine, a cui le donne che si pensava fossero generatrici di pace, danno un tocco di ordinaria isteria.

sabato 20 aprile 2024

Meloni rifiuti il prezzo dell'onore

Nel corso della mia lunga carriera giornalistica, accompagnata sempre dall’etica scolastica di docente, che mi rende diverso dai giornalisti-giornalisti, sono stato querelato più di una volta come direttore di un periodico locale per diffamazione a mezzo stampa. In tanti anni di esercizio, ben 39, può capitare. Il più delle volte la denuncia era speciosa. Il querelante, che era sempre il partito comunista, per decisione dei suoi dirigenti locali, non era per niente convinto, ma si costituiva parte civile lo stesso. Salvo poi a proporre la remissione di querela davanti al giudice. Accettare voleva dire comunque pagare l’avvocato e le spese processuali, che in lire potevano raggiungere il milione. Perché un simile incomprensibile atteggiamento? Per la semplice ragione che lo scopo dei querelanti era di infliggere al giornale un danno economico, che voleva dire la crisi del giornale e la chiusura. Si dirà, ma che c’entrano simili piccolezze a fronte di una querela, per esempio, della leader di un partito e poi premier nei confronti di un mostro sacro della cultura? Si parva licet… Veniamo al dunque. Giorgia Meloni, quando ancora non era premier, fu definita dal professor Luciano Canfora “neonazista nell’animo”, “poveretta”, “pericolosissima” e “mentecatta”. Qui non c’è niente da dimostrare, né da interpretare. Si tratta di ingiurie, violente, categoriche, giunte alla destinataria come mazzate. Diffamanti? Non lo ha creduto gran parte degli italiani che l’ha voluta Presidente del Consiglio dei Ministri. Alla faccia di Canfora. Meloni non è accusata di aver compiuto qualcosa di disdicevole che lei non ha compiuto, allora sì che ci sarebbe stata diffamazione, è stata solo ingiuriata da un avversario politico, benché di lusso. Buon senso vuole che ognuno si astenga dal suggerire alla Meloni le parole giuste, posto che ne abbia bisogno, per saldare il conto con Canfora sullo stesso piano, occhio per occhio, dente per dente. Che si può fare, allora, di fronte a simili offese? Penalmente, mettere in carcere un vecchio ultraottantenne? Non lo vuole la legge e non lo vuole neppure la Meloni. Civilmente, fargli sborsare 20mila euro? Tanto vale in Italia l’onore del capo del governo in carica? La questione potrebbe essere risolta nel più banale dei modi: Canfora si rende conto di aver sbagliato, chiede scusa e dichiara solennemente che non pensa affatto che la Meloni sia quella da lui sconsideratamente definita; Meloni, da parte sua, ritira la querela e alla fine un bel selfie e applausi da tutti e per tutti. Ma Canfora probabilmente non ci sta, forte del suo rango culturale e di tutta la claque che gli sta attorno, fatta di comunisti mai pentiti ma non più gradassi e spocchiosi. I comunisti vanno capiti. Hanno goduto in Italia di importanti privilegi, tenuti in gran considerazione, grazie al fatto che avevano sconfitto il fascismo e il nazismo. Erano quasi lì lì per mettere le mani sul potere quando sono precipitati giù come il disgraziato Sisifo. Di qui la rabbia che acceca perfino persone di elevato rango culturale come Canfora. Purtroppo c’è poco altro da fare, per non dire che da fare non c’è un bel niente. Questo, come tanti altri similari episodi, ricorda un raccontino del filosofo greco del II sec. d. Cristo Luciano di Samosata. Toh, ha lo stesso nome di Canfora. Narra il filosofo che Menippo di Gadara muore e si presenta davanti al guardiano del regno dei morti. Come di prassi questi gli chiede la monetina per farlo passare dall’altra parte, ma quello non ce l’ha. E, allora, gli risponde agitato il guardiano, senza monetina non ti faccio passare. Ah no? gli replica quello. E allora, benché morto, resto da questa parte coi vivi. Quale il senso di questa storiella? Che ci sono situazioni che la legge stessa impedisce di risolvere. Luciano Canfora-Menippo si rifiuta di pentirsi, tanto non gli si può far nulla. E alla Meloni non resta che lasciar perdere con tutte le ingiurie ricevute. Ma su Luciano Canfora, onorato e colto cittadino, non è finita. Resta da chiedersi perché un paese come l’Italia, che ha tanta bella gente come lui, ha poi una Presidente del Consiglio come Giorgia Meloni. La quale, per fortuna, è ben lontana dall’essere come i Canfora e gli a lui assimilabili la considerano. Se fosse quel democratico che dice di essere, Canfora dovrebbe avere più rispetto per la volontà del popolo espressa come la legge ha voluto. Socrate per coerenza e rispetto della legge preferì bere la cicuta. A Canfora non si chiede di bere neppure un po’ di rosolio se gli resta sullo stomaco, ma di ammettere che certe cose non si dicono, non solo e non tanto perché non sono vere, ma principalmente perché offensive di un intero paese.

martedì 16 aprile 2024

Maternità e valori sovvertiti

A Milano la Commissione del Comune e della Soprintendenza delle Belle Arti ha respinto la proposta di collocare in piazza Duse una statua della scultrice milanese Vera Omodeo, raffigurante una donna a seno scoperto che allatta un bambino. La motivazione è che «rappresenta valori rispettabili ma non universalmente condivisibili». C’è da non credere ai propri occhi ed orecchi. Il titolo dell’opera è «Dal latte materno veniamo». Cioè: in questo paese, a stragrande maggioranza cattolico, non è universalmente condivisibile il fatto che tutti veniamo dal latte materno. Meglio, in verità, sarebbe stato dire: dal seno materno, visto che oggi i bambini, quei pochi che nascono, possono essere allattati con latte diverso. Ma quello che conta non è il significato letterale, bensì quello simbolico, valoriale. La maternità non è più un valore condivisibile. Ciò che la rappresenta, anche un’opera d’arte, venga perciò nascosta, meglio se fatta sparire. Le tante opere d’arte che nel corso dei secoli hanno rappresentato la maternità possono prendere la via degli scantinati dei musei; i loro autori il dimenticatoio. Oggi sono un’offesa. Esporli è una provocazione nei confronti di chi non ne condivide contenuto e significato. Quello che è stato da millenni un valore naturale, sacro e indiscutibile, siamo tutti figli di mamma, oggi non lo è più. Ecco, questo è ciò che oggi vogliono imporre quelli che una volta erano quattro gatti, che chiedevano di essere tollerati, poi accettati, in seguito rispettati, oggi dominanti al punto da far passare gli altri dalla parte dei nuovi discriminati, da tenere sempre più in spazi angusti di sopportazione. Sono quelli che rappresentano la comunità Lgbt, in continua crescita in numero e varietà di specie, in continua crescita di potere, i nuovi discriminatori. È per rispettare il loro indiscusso dominio che oggi si nega a che un’espressione artistica di fine e alto valore venga esposta in pubblico a ingentilire un luogo urbano e a rafforzare un principio di appartenenza. Qualche anno fa i difensori di questa comunità sostenevano che non c’era nulla di male e che nessun danno avrebbe ricevuto la società dei “normali” a rispettarne i singoli membri. Ma, in fondo, a te che fastidio danno i gay, i trans, le coppie omosessuali? Questo chiedevano retoricamente essi e i loro difensori. Che danno? Ecco: il rovesciamento dei valori su cui si fondava la nostra civiltà. Fino a doversi vergognare dei più alti e sacri simboli che hanno accompagnato nei millenni l’umanità. Non è ancora chiaro? Qualcuno ancora ha dei dubbi sull’esito della partita? Il Presidente del Senato Ignazio La Russa, dall’alto del suo laticlavio, ha proposto di “nascondere” la statua in Senato. Se consideriamo chi è stato e chi è Ignazio La Russa, che non difende l’universalità del simbolo della statua, ma gesuiticamente ne elimina la questione, abbiamo chiara la situazione del disastro morale. Un’altra proposta è di “nasconderla” nel giardino della clinica Mangiacalli. Presto qualcun altro proporrà il cimitero monumentale. Forza, gente, forza, proponi altri nascondimenti! L’ipocrisia non è stata mai in svantaggio con la sincerità. Ma se una statua può essere motivo di contestazione e divisività, che accadrebbe se si vedesse in natura una donna allattare in pubblico il suo bambino? Siamo passati da quando le donne tiravano fuori con fierezza le mammelle e allattavano ovunque si trovassero i loro bambini alle donne che si vergognano della maternità, come se avessero commesso un delitto. Siamo passati da quando le donne andavano in giro tirandosi dietro quattro-cinque pargoletti, uno attaccato all’altro e il primo alla gonna della mamma, ad oggi con le donne che provano fastidio a farsi vedere mentre spingono un lussuoso passeggino, adempimento che quasi sempre lasciano ai mariti, i soli che ancora esibiscono con orgoglio i figli. Qui non si tratta più di mode, non è questione di gonna lunga, corta o mini, qui si mettono in discussione le leggi di natura, di civiltà. Oggi si ritiene che la maternità è rispettabile ma non universalmente condivisibile. Se il trend continua finirà che la maternità diventerà esecrabile e punibile, che si darà la caccia alle donne gravide come una volta alle streghe. E quel che è peggio è che a tutto questo si arriverà per il collasso morale e ideologico dei cosiddetti normali, di quelli che dovrebbero battersi per il trionfo dei valori millenari. Anche tu…, disse Cesare a Bruto che si apprestava a pugnalarlo. La storia si ripete sempre, anche se in modi e forme diversi.

sabato 6 aprile 2024

Sul caso Ilaria Salis...i soliti italiani

Ilaria Salis è un’insegnante di Monza, comunista di trentanove anni. Amava passare i weekend andando in giro per l’Italia e l’Europa a menar le mani dove c’erano fascisti o nazisti da pestare. Lo faceva in maniera professionale, con un manganello retrattile che teneva nello zainetto e con l’equipaggiamento dei picchiatori nomadi. Era già finita nelle attenzioni della polizia italiana ed era stata già condannata per quei reati tipici degli scontri di piazza, resistenza a pubblico ufficiale et similia. L’anno scorso, con altri comunisti italiani, arrivò fino a Budapest, in Ungheria, dove ogni anno si svolge una manifestazione patriottica, il «Giorno dell’Onore», per ricordare la fermata dell’Armata Rossa da parte di alcuni reparti nazisti nel corso dell’ultima guerra mondiale. L’Ilaria fece quel ch’era andata a fare. Aggredì il corteo dei neonazisti e si azzuffò con loro. Fu arrestata dalla polizia intervenuta per riportare l’ordine pubblico. Da allora è in carcere. Quando va in udienza, una poliziotta la tiene al guinzaglio, mani e piedi incatenati. Lei guarda di qua e di là come incredula e smarrita; a tratti accenna un sorriso, con l’aria non di una sofferente ma di una compiaciuta per trovarsi al centro di tanta attenzione. La popolarità, si sa, piace e si comprende benissimo che possa piacere anche a lei, a cui lo starsene quieta quieta in casa, con tutto quello che c’è da fare, compresa la preparazione delle lezioni se, come si dice, è un’insegnante, non piace proprio. Ma, fatti suoi! Ognuno cura i suoi hobby. Di fronte al caso l’Italia si è divisa tra salisiani (attenzione alla i) e antisalisiani. I primi in gran parte li trovi negli studi televisivi, indignati d’ordinanza, a disquisire sui diritti umani; i secondi nei bar a sparare, tra un caffè e uno spritz, bordate contro la Salis, che se l’è andata a cercare. I primi sono incazzati perché il governo non fa niente per liberarla e ricondurla trionfalmente a casa, onusta di gloria; i secondi sono indifferenti ed anzi non disdegnano l’idea che se la possano tenere in carcere fino alla condanna e alla pena. Ça va sans dire, i primi sono di sinistra, i secondi di destra. Poi c’è un padre, che sembra una gran bella persona, dicono, di idee diverse da quelle della figlia, tanto per stare nella forbice. È disperato perché le autorità ungheresi non ne vogliono sapere di concedere all’Ilaria gli arresti domiciliari. Si è rivolto al governo, presieduto da Giorgia Meloni, che è in gran simpatia col suo omologo ungherese Orban, convinto che se la premier italiana gli chiede un favore quello glielo fa, come se si trattasse di una questione tra due capetti della Magliana. Il governo ha fatto i suoi passi nell’assoluta correttezza. I salisiani lo rimproverano di stare più con quelli del bar che con quelli della televisione e di non fare nulla di concreto per liberare l’Ilaria. Il padre si è poi rivolto al Presidente della Repubblica, il quale ha promesso di interessarsene ma sempre attraverso il governo. La situazione non sembra smuoversi, almeno per ora. Tutto quello che si è riusciti ad ottenere sono migliori condizioni igieniche del luogo di detenzione e la possibilità di telefonare a chiunque. Questi, più o meno i fatti. Li conoscono tutti, si dirà, ma repetita juvant. Quel che dovrebbe mettere tutti d’accordo in Italia non è tanto la liberazione di una connazionale detenuta in Ungheria ma il rispetto delle norme europee in materia di detenzione dal momento che all’Ungheria fu concesso l’ingresso in Europa previa conformazione alle sue norme anche in materia di diritti civili. Non è per questo che la Turchia è tenuta fuori? Ci può pure stare che per un tafferuglio metti in prigione una persona, non è ammissibile che quel detenuto venga trattato come un animale, lo esibisci in catene e dopo un anno di detenzione gli neghi gli arresti domiciliari per un reato, la scazzotatura, che in Italia non viene nemmeno rubricato. In un qualsiasi altro paese europeo la Salis sarebbe stata espulsa il giorno dopo e nel frattempo avrebbe organizzato qualche altra spedizione, sempre a pestare fascisti e nazisti. In compenso nel Pd si parla di candidare la Salis e di farla eleggere al Parlamento Europeo. La Schlein per ora dice che la cosa non è in campo. E se mantiene il punto fa bene. Un partito come il Pd non può puntare su candidati improvvisati, come faceva il Partito radicale di Pannella. Già ha perso la tramontana. Se continua sulla strada del candidato alla “Cucchi” dà al suo elettorato un messaggio negativo. I suoi elettori, salisiani o meno, non gradirebbero e sarebbe per il Pd l’ennesimo errore di valutazione della natura degli italiani. Quale dote porterebbe la promessa sposa Ilaria Salis? Il manganello nello zaino. Ma il manganello non era di destra?