sabato 28 ottobre 2023

I due fronti di Giorgia

Lo dicevano all’indomani dell’ascesa al governo di Giorgia Meloni quelli del “Bar Italia”, tanto “corteggiati” da Pierluigi Bersani. Ora vedrete – dicevano – che cosa le combineranno. Qualche volta anche i clienti del “Bar Italia” vedono bene. Bisogna stare attenti a quello che dicono. Una volta si diceva vox populi vox dei. Poi è arrivato il populismo, ma in Dio non crede più nessuno. Giorgia Meloni non deve avere scampo. Lo vuole la sinistra ed ora ha incominciato a volerlo anche certa destra. Finora i suoi nemici hanno fatto percorsi obliqui, lo stesso i suoi amici-hostes. La sinistra ha tentato col padre per faccende di droga, poi con la madre per vecchi affari opachi; poi con la sorella, intrigandola in storie d’infedeltà coniugale. Ora, il bersaglio diretto. Non si sono certamente sporcati i frequentatori del “Salotto radical chic”. Lo hanno fatto i loro giornali, da “la Repubblica” a “Domani” dell’irriducibile ingegnere De Benedetti. Ora i fronti di Giorgia Meloni sono due. Un compagno, che avrebbe dovuto fare il Lancillotto del Lago per la sua regina, si è rivelato del tutto inadeguato. Ma non conta chi, come e perché è avvenuto; conta che lei sia stata colpita. La sua legittimazione democratica continua ad essere sotto i raggi X. I Fratelli d’Italia restano sospettati, spiati in ogni loro iniziativa. I loro comportamenti – mette in guardia il prof. Luciano Canfora – sono gli stessi dei loro nonni fascisti. “Non fu fascismo unicamente quello «totalitario»” ma anche quello anticapitalista con pulsioni nazionalistiche, quello del salario minimo, quello dell’assicurazione su invalidità e vecchiaia, quello della gestione proletaria delle aziende, quello condiviso dalle forze conservatrici e popolari, tutte cose che “possono riproporsi sia pure coi necessari aggiustamenti che discendono dal mutare del costume e del linguaggio” (Il fascismo multiforme, Corsera del 23 ottobre). Se così stanno le cose i signori sconfitti, dal Pd al M5S ed appendici varie, hanno incominciato da un anno la resistenza, per ora con la lettera minuscola. Alla nuova guerra di “liberazione” ora si è aggiunta una parte della stessa destra, la più spregiudicata, quella delle banche e del capitale, che dispone di potenti mezzi di comunicazione di massa. La vicenda che ha portato Giorgia Meloni a prendere tempestivamente una decisione drastica nei confronti del “compagno” è solo l’apparente gossip di cui si titillano i Ricci, ma dietro c’è ben altro. C’è che i Berlusconi, che ufficialmente dicono che non hanno nessuna voglia di entrare in politica, di fatto si stanno muovendo per far esplodere all’interno del centrodestra vecchi contrasti e rancori, al termine dei quali la componente oggi leader, Fratelli d’Italia, perda il suo ruolo a favore di Forza Italia, il partito che ha servito Berlusconi e che ora si vuole che riprenda a servire i suoi eredi. Davvero si vuol far credere che “Striscia la notizia” è l’evento naturale non prevedibile e non evitabile? Un castigo di Dio? Si dipinge Ricci come il fato, nei confronti del quale neppure Giove padre degli dei poteva far niente. In realtà dietro di lui c’è la mano di chi ha avuto l’interesse di lanciare un messaggio. Che poi ha tenuto a farlo sapere. Perché se no che gusto c’è? L’excusatio non petita di Marina Berlusconi ha solo confermato l’accusatio manifesta. Banche e capitali in Italia hanno fatto sempre affari con la sinistra. Questa destra non è altrettanto affidabile. Ogni tanto c’è qualche colpo di testa, come tassare le banche per gli extraprofitti, come far accedere l’Agenzia delle Entrate ai conti correnti dei cittadini debitori. Poi ci sono le retromarce, d’accordo, ma intanto i colpi di freddo lasciano il segno. E allora meglio destabilizzarla. Oggi agiscono al suo interno più forze centrifughe che centripete. La Lega vuole recuperare il vantaggio che aveva su Fratelli d’Italia. Forza Italia vuole “vendicare” Berlusconi, per interposti soggetti, infliggendo alla Meloni mortificazioni che non dovrebbero mai riguardare la sfera privata. Non aveva detto che lei non era ricattabile? Eccola servita. Per ora Fratelli d’Italia sta rispondendo senza denunciare particolari cedimenti. Ma la partita è solo entrata da poco nel vivo. I giornali continuano a dedicare ogni giorno pagine e pagine al caso “Giambruno”; i talk continuano a parlarne lasciando credere che la storia continua come nei vecchi feulleiton. Se i Fratelli d’Italia si lasciano prendere da spirito di vendetta la crisi potrebbe raggiungere il punto di non ritorno. E allora, altro che questione israelo-palestinese.

martedì 24 ottobre 2023

Don Renato Attanasio, un prete che declinò il sacerdozio con la cittadinanza

Don Renato Attanasio è morto il 13 ottobre 2023, all’età di 81 anni. È tornato nella sua Ruffano il pomeriggio di sabato, 14 ottobre, mestamente accompagnato dal sindaco di Taurisano Luigi Guidano in rappresentanza e da altri suoi amici e parrocchiani. Un viaggio che forse non avrebbe voluto fare, sentendosi ormai taurisanese anche dopo la morte. Forse Taurisano non ha saputo riservargli una giusta e completa cittadinanza. È stato a Taurisano più di cinquant’anni, gran parte dei quali da arciprete. Arrivò nella sua nuova destinazione venticinquenne. Era il 1967. All’epoca c’era una sola parrocchia, quella della Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo, con la chiesa madre in Piazza Castello, al centro del paese. Era arciprete don Ugo Schimera, un sacerdote colto e molto partecipe alla vita culturale, un modello di prete che perpetuava la figura della massima autorità religiosa con una chiara e consapevole funzione sociale. Chi lo aveva preceduto, don Antonio De Vitis, non era stato da meno, chiamato alla Curia per incarichi importanti fino al vicariato generale sotto tre vescovi: Ruotolo, Mincuzzi e Miglietta. Don De Vitis e don Schimera erano figure di preti che marcavano una certa distanza sociale e incutevano autorevolezza e rispetto, decisamente di altri tempi. Porsi come erede di due sacerdoti così importanti non fu né difficile né facile per don Renato, poiché lui aveva una personalità tutta sua, senza spigoli e disposta all’incontro. Da viceparroco, si distinse subito per il suo carattere, per il suo porsi gioviale, per il suo essere alla mano, senza alcuna pretesa di rappresentare un’autorità né di saperne una più degli altri, retaggio secolare dei preti, a cui la chiesa di una volta affidava il compito di vigilare su chi si allontanava dalla dottrina. E sì che erano anni difficili e turbolenti, con la Contestazione, il Sessantotto, il Terrorismo, le Stragi, parole a cui dare la maiuscola nella circostanza è d’obbligo perché rappresentarono per anni dei fenomeni sociali connotativi del tempo. La società era lacerata da scontri su problematiche altamente divisive come il divorzio e l’aborto, in cui il cristiano si sentiva posto drammaticamente di fronte a se stesso. I giovani la facevano da protagonisti, pronti a dividersi su tutto. Don Renato seppe attraversare la bufera senza fare slalom tra le posizioni ma procedendo diritto con quella sua innata bonomia a comprendere tutti, coniugando con parole ed opere le virtù teologali: fede speranza carità. La fede al di sopra delle divisioni, la speranza di superare i momenti di difficoltà, la carità aiutando i bisognosi, che a lui si rivolgevano in numero e frequenza. Non che non avesse una qualche inclinazione politica, lui che veniva da una famiglia di misurato benessere, ma seppe gestirla attento a non sembrare di parte, come il ruolo imponeva. Don Renato rappresentò subito una novità e non solo per la sua età. Egli non usciva dalla chiesa per andare verso la società come i suoi predecessori, ma, al contrario, usciva dalla società per entrare in chiesa. Ma non fu mai un prete di strada, che però lui non giudicava, conscio di avere un compito più alto e più esteso. Legò subito coi giovani dell’Azione Cattolica, mediò spesso tra le confraternite sempre litigiose, si diede da fare per portare a termine l’Oratorio don Bosco, a cui tanto si era prodigato un altro parroco di Taurisano, don Vito Tonti, fin dalla prima metà del Novecento. Don Renato lo si vedeva fare perfino il manovale o il contadino nell’oratorio, curvo col badile a diserbare o a rimuovere il terreno. Lo si vedeva fare i ricci al mare, giocare a tennis nel campetto da lui stesso realizzato con la collaborazione dei suoi giovani amici. Voleva essere e sembrare allo stesso tempo un uomo tra uomini, un giovane tra i giovani. Anche per questo vestiva alla laica ma con pantaloni e maglione o maglietta rigorosamente scuri. Quando nel 1981 divenne parroco e arciprete il paese era molto cambiato. C’era un’altra parrocchia ed altre ne sarebbero state istituite. L’abitato si era esteso alle periferie, la chiesa doveva seguire i fedeli. Non era solo una questione fisica, occorreva seguire le persone che dopo gli anni delle turbolenze sociali si erano come staccate, andate verso le periferie perfino dei valori, verso l’indifferenza. In fondo la chiesa aveva sempre fatto questo, intorno a lei erano sorti paesi e città, ma là dove c’era una comunità la chiesa non poteva non raggiungerla con la sua presenza fisica. Questo fece perdere all’arciprete la sua centralità cittadina. Ma don Renato è rimasto per tutto il tempo del suo sacerdozio un riferimento per tutto il paese. Quando l’11 marzo 2017 è ricorso il suo cinquantesimo anno di sacerdozio, già minato dal male che lo avrebbe portato alla tomba, ebbe il grande privilegio di ricevere gli auguri da papa Francesco in una breve ma intensa telefonata, nel corso della quale si impegnarono entrambi a pregare l’uno per l’altro. In una intervista rilasciata ad Antonio Sanfrancesco per “Presenza Taurisanese” di giugno-luglio 2017, don Renato disse espressamente: “Sono taurisanese d’elezione, qui ho vissuto tutta la mia vita e qui spero di restare anche dopo la morte”. Le sue spoglie mortali hanno fatto ritorno al suo paese di nascita, perché così hanno voluto gli altri. Quelle spirituali sono dove la gente l’ha conosciuto e amato e dove lui aveva scelto di restare.

sabato 21 ottobre 2023

Salario minimo e lauti guadagni

Le opposizioni, col salario minimo, hanno trovato la matta, la carta che nel gioco consente a chi ne è venuto in possesso di attribuirle il valore che vuole, con buone probabilità di vincere la partita. Chi non è d’accordo col salario minimo!? Perfino a destra, stando ai sondaggi, lo vogliono. Non tutti i sindacati, però, sono d’accordo e il Cnel, che è un organo previsto dalla Costituzione e che ha voce in capitolo, ha espresso parere contrario. Siccome non siamo nati ieri e calziamo scarpe di avanzata età ammettiamo che il Cnel, diretto oggi dall’ex Forza Italia Renato Brunetta, non ha voluto dispiacere alla casa madre che in quel posto lo ha collocato graziosamente. Poi dicono che in politica non c’è gratitudine! Anche noi, che di economia e lavoro non possiamo dirci esperti, a naso siamo a favore. È una questione che esula da ogni competenza in materia. Come si fa a non riconoscere ad una persona il diritto di essere retribuita in maniera dignitosa, senza essere offesa con una retribuzione di fame? Avrebbero dovuto introdurlo e non da ora, da quando gli attuali alfieri che gridano “Deo lo vult” erano al governo, or non è molto tempo fa. Ma in Italia non ci sono solo i poveri, tali riconosciuti, a cui non si vuole garantire un salario minimo, ci sono tantissimi altri cittadini che vivono di stipendio e di pensione, che percepiscono un reddito fisso, che sono penalizzati quotidianamente non solo dall’inflazione ma anche dalla esosità delle richieste di talune categorie di lavoratori autonomi a cui si rivolgono per lavori di manutenzione della casa che occasionalmente o periodicamente vanno fatti. Questi cittadini, che possono ben dirsi “nuovi poveri”, sono vessati da queste categorie. È una questione di cui nessuno parla: quanto guadagnano al giorno i titolari di piccole imprese artigianali: intonacatori, tinteggiatori, impiantisti e via elencando. La giornata lavorativa può raggiungere anche trecento Euro, il più delle volte senza rilascio di fattura, che al cittadino datore di lavoro peraltro costerebbe il 22% di Iva e perciò rifiutata perché senza nessuna ricaduta di sgravio fiscale. Le cifre che queste categorie di lavoratori autonomi chiedono arrivano al cittadino come schiaffi in faccia, che lo fanno sentire un pezzente per di più rimbambito. A volte per un lavoro di due-tre giorni chiedono quanto il cittadino percepisce di stipendio in un mese e alla richiesta di razionalizzare e dettagliare la cifra, giusto per capire, la risposta è secca: si valuta il lavoro senza scendere al dettaglio del tempo impiegato e del costo dei materiali impiegati. Sembrerebbe una questione da niente. Non è così. I poveri professionisti a reddito fisso non possono essere svillaneggiati da richieste esose per dei lavori che onestamente costano un quarto o un quinto di quanto viene loro richiesto. Si può eccepire che è il mercato che comanda in un paese libero. Ma è lo Stato, che voglia considerarsi sociale, che come non può consentire salari di fame così non dovrebbe permettere guadagni ingiustificati da vincite al lotto a danno di altri cittadini. La Presidente Meloni ripete spesso che i suoi interventi mirano a tutelare imprese e famiglie, dando ad intendere che ci siano imprese e famiglie in difficoltà. Certamente ci sono. Lasciamo stare le famiglie, le quali non è mai troppo giusto soccorrerle quando veramente hanno bisogno. Ma le imprese? Esse, specialmente le piccole, quelle formate da tre-quattro persone, mentre infieriscono sui cittadini con le loro richieste inaccettabili, sfuggono a qualsiasi controllo, compreso quello del fisco. Molte entrate, prive di fattura, contribuiscono a giungere a redditi elevati ed elevatissimi, mentre i beneficiari dichiarano redditi di poche migliaia di Euro. Va bene, allora, battersi per il salario minimo ma è altrettanto importante battersi per guadagni contenuti da ragionevolezza dei prestatori d’opera e da disponibilità di mezzi da parte dei cittadini. Non si può lasciare il mercato del lavoro autonomo senza leggi che ne calmierino i costi. Oggi nella nostra società ci sono ceti lavorativi che conducono un tenore di vita importante, hanno doppia e a volte tripla casa, hanno due-tre automobili, a volte di grossa cilindrata, si fanno le crociere. Evviva il benessere! Ma tutto questo non può accadere a danno di altri ceti che non trovano chi li difenda dalla voracità di un mercato selvaggio e dalla disattenzione dello Stato. Occorre che esso trovi il modo di creare tra i cittadini un giusto equilibrio, che è anche rispetto sociale e orgoglio di appartenere allo stesso Paese. Cosa ci vorrebbe? Leggi e controlli!

sabato 14 ottobre 2023

Israle, la difficile posizione

La guerra israeliano-palestinese, riesplosa sabato 7 ottobre, pone la comunità internazionale di fronte ad una difficile posizione. E ciò a prescindere dall’orrore delle nefandezze dei palestinesi compiute ai danni di civili israeliani, bambini giovani anziani, sui quali si sono abbattuti come una valanga travolgente e improvvisa che a noi italiani ha ricordato quella del Vajont, di cui, in quegli stessi giorni si ricordavano i sessant’anni decorsi. Una furia selvaggia, biblica, di cui solo la natura è capace, lei sola priva di anima, di cervello, di cuore, come se rispondesse ad un dio in collera. I testimoni che hanno potuto riferire quanto accaduto hanno parlato di inaudita ferocia, di allegra mattanza, compiuta in stato di eccitazione tribale. Nell’immediatezza non si può che esprimere una condanna netta e illimitata, non si può pensare che ad una punizione meccanica, a cui Israele ci ha da sempre abituati. La qualcosa significa stragi di uomini, donne, anziani e bambini palestinesi, diversamente trucidati, come l’assedio posto in essere dagli israeliani a Gaza fa pensare. Ma se pure fosse non sarebbe la soluzione di un problema che la storia ci dice non avere soluzione. Una mattanza dopo l’altra. L’ennesima tappa barbarica verso un traguardo civile irraggiungibile. I palestinesi vogliono la loro terra, che è la stessa rivendicata dagli israeliani. Per i palestinesi gli israeliani sono degli invasori. In altre epoche noi italiani abbiamo combattuto per la liberazione di interi territori dal dominio straniero. Noi abbiamo in Garibaldi il simbolo delle nostre rivendicazioni nazionali, abbiamo in poeti e scrittori di alto profilo formativo i nostri profeti, Foscolo e Manzoni su tutti. Pur negletti di questi tempi essi ci consentono di scorgere sotto la scorza di indifferenza una ragione che riemerge di fronte all’esplosione delle grandi tragedie nazionali. È per questo che noi italiani, pur inorridendo davanti alle stragi compiute dai palestinesi, avvertiamo dentro qualcosa che ci obbliga a pensare, ad uscire dalla meccanica dei gesti e dei sentimenti. Non possiamo pensare che quello che andava bene per noi, il risorgimento, non vada bene anche per gli altri, negarlo agli altri. Sappiamo che non è così semplice. Ogni situazione ha una sua specificità e quella israeliano-palestinese è emblematica nella sua unicità. La tragedia tra i due popoli è inevitabile perché entrambi hanno ragione. Ed è fallito perfino il tentativo di fare salomonicamente in due il territorio per assegnarne le parti ai due popoli. Il palestinese non riconosce Israele e ne vuole la distruzione, l’israeliano attenta continuamente alla territorialità palestinese con insediamenti e tiene divisi i palestinesi di Gaza dalla Cisgiordania, rendendo difficile con restrizioni la libera circolazione. Per capire: è come se noi italiani del Sud dovessimo attraversare il territorio di uno stato straniero per raggiungere gli italiani del Nord. Una situazione asimmetrica che vede Israele, potenza nucleare, protetta dal mondo occidentale, da una parte e dall’altra una Palestina rabberciata e chiusa in una parte dei suoi confini, che però trova nel mondo arabo una spalla. Questa situazione peggiora anziché agevolare una via d’uscita, perché potrebbe significare una guerra con coinvolgimenti mondiali. E tuttavia non c’è soluzione che nel dare ai due popoli condizioni di vivibilità nella sicurezza, attraverso una sistemazione territoriale che renda ognuno sovrano nel proprio territorio. In alternativa non c’è che l’eliminazione di uno dei due contendenti, che però porterebbe a ben più gravi e durature conseguenze. L’ultimo attacco dei palestinesi, proditorio e disumano, oltre ogni mostruosa immaginazione, purtroppo allontana qualsiasi tentativo di giungere a breve termine ad una ricomposizione delle parti. Le attuali leadership dei due paesi non lasciano ben sperare. Da una parte il terrorismo dall’altra l’inevitabile risposta dell’occhio per occhio, dente per dente. La politica adottata da Netanyahu, criticata anche da molta stampa israeliana, è in qualche modo responsabile della condotta di Hamas. Israele è Israele, ha in sé la risposta da dare come una sentenza irrevocabile. Ma finché ai palestinesi non si lascia che il terrorismo per farsi le proprie ragioni e agli israeliani la logica della vendetta per farsi le loro la situazione resterà critica per sempre e può essere, una volta o l’altra, causa di ben peggiori conseguenze sul piano mondiale. Ecco perché della questione dovrebbero occuparsi le organizzazioni internazionali di sicurezza. Ma per davvero!

domenica 8 ottobre 2023

La scuola e la dignità degli insegnanti

Lo diceva Aristotele: nomina sunt consequentia rerum. I nomi conseguono alle cose. Sarà stato anche per questo che per secoli e secoli le cose sono state chiamate coi loro nomi. È una questione di comunicazione. Oggi si tende a cancellare anche questa verità. Così quella che una volta si chiamava delinquenza minorile oggi si chiama bullismo. Si parte dal presupposto che un minore non possa delinquere, proprio perché minore. Quella che prima si chiamava pena oggi si chiama rieducazione, comunque niente di afflittivo, perché l’afflizione non educa ma incattivisce la persona. Qui il discorso diventa più complicato perché ripropone l’antico dilemma: si rieduca con la punizione o con la persuasione? I due ragazzi che in una nostra scuola hanno sparato al loro professore di Diritto con una pistola ad aria compressa sono stati “puniti” con quattordici giorni di sospensione e cinque in condotta. Una punizione che può tradursi in niente, perché la sospensione è un non frequentare la scuola e per dei ragazzi che sparano ai loro professori è un mezzo premio mentre il cinque in condotta è ipotetico. Le nuove disposizioni infatti lo prevedono non sulla base di un episodio ma su tutto il comportamento dell’alunno nel corso del quadrimestre o dell’anno intero. Se i due ragazzi non daranno adito ad altri provvedimenti “rieducativi” riscuoteranno a fine anno il loro bell’otto o nove in condotta. A poco vale sostenere che l’atto dei due ragazzi è dovuto alla voglia smodata di esibizione, di far parlare gli altri di sé, di uscire dall’anonimato in un modo qualsiasi, meglio se in maniera clamorosa. L’importante è che gli altri ne parlino. Va da sé che chi non può o non sa far parlare bene di sé può senz’altro far parlare male, che è cosa assai più facile e alla portata di tutti. Fin qui l’alunno. E il professore? Sembra che per uno stipendio da fame, addirittura umiliante se paragonato a quello che guadagna un qualsiasi artigiano, il professore debba esporsi a tutti gli insulti e le vessazioni dei ragazzi, fino a subire veri e propri attacchi fisici o da loro o dai loro genitori. Il professore, quando la pena era pena, era rispettato, almeno formalmente. Se voleva sapere che pensassero i suoi alunni di lui poteva solo chiederlo alle pareti dei bagni, dove fra epigrammi e vignette scopriva quanto fosse amato e stimato. Oggi sembra che il professore non abbia più una sua dignità, non abbia più diritti, che nel suo stipendio da fame e umiliante siano compresi anche gli insulti e gli attacchi pubblici. È stato detto che il professore di Diritto vittima del bullismo di due suoi alunni sbagliava a chiedere l’espulsione degli stessi e alla fine ha rinunciato perfino a ricorrere alla giustizia ordinaria. Tutti in Italia lo possono fare, tranne l’insegnante, che, per essere un educatore, per come oggi si intende questa figura, deve avere nei confronti dei suoi educandi una disposizione senza limiti a subire di tutto. Sfregi alla sua auto, ingiurie scritte a caratteri cubitali sulle pareti della sua scuola, sberleffi in classe, pareti di bagni trasferite sui social, se occorre perfino mazzate dai genitori dei suoi alunni. E lui, niente: non può, non deve, non vuole. Si dice: non è opportuno. E perché? Perché un insegnante deve dare l’esempio. Nel momento in cui diventa un insegnante finisce di essere un cittadino come tutti gli altri, di avere una sua dignità, per dare l’esempio. Ma di che? Di non smettere mai di dimostrare che l’educazione è sempre e soltanto fatta di clemenza, di comprensione, di persuasione. Sembra quasi che un buon insegnante è quello che passa attraverso esempi di rinuncia a difendersi, di ambire quasi ad essere preso a pubbliche umiliazioni per dimostrare di essere un educatore di vaglia, uno che rinuncia a rivalersi. Non è scritto da nessuna parte, ma è universalmente accettato che tra alunno e professore c’è una presunzione di ragione sempre in favore dell’alunno. E se pure questi commette un atto di delinquenza o come si dice di bullismo nei suoi confronti, deve essere sempre capito, perché lui ha il diritto di essere educato e tu, professore, il dovere di educarlo. In una società in cui contano il potere e il successo in ogni loro forma o declinazione l’insegnante è l’unica figura di cittadino che deve presentarsi come l’elogio della debolezza e della frustrazione. Non si creda che i casi di bullismo come lo sparare al professore in fin dei conti sono rarità. La vita dell’insegnante, nella sua routine è spesso un far finta di non vedere, di non sentire per non dover parlare, per il quieto vivere. Non è così tutta la scuola, per fortuna; ma è anche così la scuola!