lunedì 28 dicembre 2009

Voce del Sud era il mio "blog"

Mi piace chiudere il 2009 su questo mio blog ricordando l’altrettanto mia “Voce del Sud”, il settimanale leccese fondato da Ernesto Alvino e diretto per cinquant’anni, dal 1954 al 2003, prima da lui e poi dal settembre 1980 dal figlio Leonardo. Usciva il sabato con otto pagine grandi quanto quelle di un quotidiano e negli ultimi anni formato tabloid.
A “Voce del Sud” ho collaborato per ben 34 anni, dal 1969 al 2003. La mia partecipazione, con periodi più intensi e meno intensi, andava dalla nota politica a quella culturale, dal corsivo di prima pagina (si chiamava “Disco acceso” e usciva in grassetto) alla recensione, dalla nota di costume all’elzeviro. Don Ernesto diceva che il direttore di un giornale deve essere come il direttore d’orchestra, deve saper suonare ogni strumento e prendere il posto dell’eventuale assente.
Quella “Voce” è stata per me una vera scuola di giornalismo. In qualche modo e nei limiti del possibile ne ho riprodotto lo schema con “Presenza Taurisanese”, il mio mensile che ha sedici pagine in folio. In genere essa apre con un articolo di politica nazionale, riserva sei pagine (2, 3, 4, 13, 14, 15) a fatti locali e ha un inserto cultura, “Brogliaccio Salentino” (lo stesso nome del mio blog) di ben otto pagine, aperto a fatti ed autori salentini e pugliesi, meno frequentemente del Mezzogiorno in generale.
Oggi, a distanza di 28 anni, penso di non aver proprio indovinato a chiamare il mio periodico “Presenza Taurisanese”, laddove l’aggettivazione paesana suona come una sorta di parodia. Che so, immagino un periodico della siciliana Canicattì o della veneta Trebaseleghe. Si dovrebbe dire “Presenza Canicattinese” e “Presenza Trebaselegana”. Francamente mi sa di pretenzioso, di velleitario; fa un po’ ridere. Pino Rauti, con cui collaborai nella prima metà degli anni Settanta alle sue riviste “Civiltà” e “Presenza”, chiese di me ad Ennio Licci e quando seppe di questo mio ripiegamento localistico, disse che non capiva perché mi fossi dato al “villaggio”. Purtroppo dovevo fare i conti con la professione di docente e con la famiglia, che mi riducevano il tempo libero; ma il “villaggio” è diventato negli anni luogo d’incontro di fior di collaboratori (studiosi italiani e stranieri, docenti universitari) e l’inserto “Brogliaccio Salentino” è oggi in Puglia uno dei periodici culturali più noti, di provincia ma non provinciale.
Ma torniamo a “Voce del Sud”. Iniziai la mia collaborazione con un articolo su Vanini, apparso il 13 dicembre 1969. La sera di quel sabato il prof. Andrzej Nowicki tenne una conferenza a Lecce, “Vanini e il paradosso di Empedocle”, nella sala del Monumento ai Caduti. Al termine si congratulò con me, dimostrando di aver letto il mio articolo, ma mi aggiunse che gli avrebbe potuto procurare qualche fastidio in Polonia. Sostenevo che il suo interesse a Vanini nascondeva un anelito di libertà nella Polonia comunista. Mi sbagliavo: Nowicki era proprio comunista e aveva un concetto comunista di libertà, che non coincideva affatto con quella vaniniana.
Prima di quel mio “inizio” avevo fatto qualche esperienza come corrispondente del quotidiano romano “Il Tempo”, diretto da Renato Angiolillo, con il capo servizi delle provincie Gianni Letta, l’attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e uomo di massima fiducia di Berlusconi, e nel settimanale cattolico leccese “L’Ora del Salento”.
Da quel 13 dicembre 1969 al 27 dicembre 2003 avrò scritto per “Voce del Sud” un migliaio di articoli, con l’ultimo “Siamo cambiati ma senza tradire”, che un po’ riprendeva il motto alviniano “Avanzare senza rinnegarsi”, posto in alto sulla testata. Su “Voce del Sud” ho scritto tutto quello che ho voluto, in assoluta libertà. Don Ernesto mi diceva sempre: “scrivi quando ti arride l’estro”. Pochissime volte mi ha censurato; qualche volta mi ha sostituito un termine spinto o forte con un sinonimo più lento ed eufemistico. Non amava il turpiloquio, neppure alla lontana. Su “Voce del Sud” non si potevano usare verbi come “fregare”; figurarsi altri più volgari! Non amava il banale, l’ovvio, lo scontato. Una volta, su in redazione al primo piano di via Roberto Visconti 6, con affaccio su Piazza Sant’Oronzo, rispondendo al mio saluto mi chiese che cosa avevo da dirgli o qualcosa del genere. Non seppi rispondere che con una considerazione sul tempo. La prese male. “Ma quello lo vedo da me!” mi rispose visibilmente seccato. Alvino era fatto così.
Una sola volta mi censurò un “Disco acceso”, che aveva per titolo “La destra del pianto”, non nel senso che non lo pubblicò, anzi!, ma si sentì in dovere la settimana successiva di commentarlo, perché nel frattempo gli erano arrivate non poche lamentele. Al posto del mio articolo apparve sotto il titolo della stessa rubrica una sua precisazione, in cui diceva che il mio era stato solo un momento di malumore. Andai a trovarlo in redazione. Mi disse che c’erano state proteste dagli ambienti missini e che Almirante in persona lo aveva chiamato per lamentarsi di quell’attacco; aggiunse che avrei dovuto riprendere con lo spirito di sempre ma nella consapevolezza che c’erano, purtroppo, delle sensibilità da rispettare. Non aveva torto né lui né Almirante. Erano gli anni Settanta e il partito era bersagliato da tutti e viveva il dramma delle contrapposizioni interne. Ogni colpo da fuoco amico era davvero troppo in quel frangente.
A “Voce del Sud” devo la mia notorietà. Agli inizi degli anni Novanta Alessandro Barbano del “Quotidiano”, attuale vice direttore de “Il Messaggero”, mi chiamò per dirmi che leggeva i miei pezzi sul giornale di Alvino, che non sempre li condivideva ma che gli piacevano, e mi invitò a scrivere per il “Quotidiano”. A due condizioni – mi disse – che i pezzi dovevano essere esclusivi e che avrei dovuto stare attento al codice penale. Nient’altro. A quel tempo il direttore di “Quotidiano” era Giulio Mastroianni e il giornale viveva un periodo piuttosto critico, in seguito a Tangentopoli e alla crisi del Partito socialista. Il “Quotidiano” era un giornale storicamente di sinistra e tale continuava ad essere, ma le cose erano cambiate, c’era ormai ben poco da difendere la sinistra e intanto cresceva la domanda da parte di un pubblico diverso; serviva qualche firma notoriamente di destra. Io facevo al caso. Sicché, per ben dieci anni circa, ho scritto contemporaneamente per “Voce del Sud”, “Presenza Taurisanese” e il “Quotidiano” e sporadicamente per altre testate.
Col “Quotidiano” di Barbano non sono stato mai censurato. Scrivevo in assoluta libertà, ben conscio tuttavia di essere in casa d’altri; non era come stare su “Voce del Sud” o “Presenza Taurisanese”. In ogni giornale bisogna rispettare le sensibilità di lettori, abbonati e sostenitori. Non è solo una questione di galateo, ma anche di sopravvivenza. Le cose al “Quotidiano” cambiarono con l’arrivo di Giancarlo Minicucci, decisamente di sinistra. Commisi l’errore di continuare la collaborazione senza conoscere il nuovo arrivato, sicché nel corso di dieci anni (1999-2009) ho avuto un rapporto piuttosto incidentato, fatto di censure, chiarimenti, inviti a scrivere, periodi di lontananza, riavvicinamenti, marginalizzazioni, prese di distanza e fallite imbeccature. Errore che non credo di commettere col nuovo direttore di “Quotidiano”, Claudio Scamardella. Non mi sembra dignitoso scrivere gratis e per di più col rischio della censura. Un notista politico libero non dovrebbe porsi proprio l’ipotesi della censura e avrebbe il diritto di gestirsi lo spazio da sé. Se si affida ai criteri politici del direttore, che ha interesse a favorire una parte piuttosto che un’altra, finisce per apparire quel che non è. Non ho l’età per sperare in carriere, non faccio politica, vivo del mio e mi basta; e la vanità di chi scrive non ha mai raggiunto in me la curiosità di chi legge.
Sicché anche per questo da settembre ho inaugurato il mio blog “Brogliaccio Salentino”, che è un po’ la mia “Voce del Sud”. Quando compongo un pezzo lo faccio in assoluta serenità. Scrivo quello che voglio e come voglio, esattamente come facevo con don Ernesto prima e con Dino dopo; e per stare anche nell’abitudine faccio in modo di postare i miei pezzi tra il sabato e la domenica. D’accordo, sono come messaggi chiusi in bottiglia e gettati in mare. Nessuno li legge. Ma – col permesso di don Ernesto Alvino che pure al fregarsene, fascisticamente inteso, non fu estraneo – dico con tutta tranquillità che me ne frego. Nell’ètere, pur solitario, mi sento bene; nell’ètere hölderliniano “fido e benigno…padre”.
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mercoledì 16 dicembre 2009

Berlusconi e l'attentato di Milano: il crinale del peggio

Si è parlato dell’attentato di Milano a Silvio Berlusconi di domenica 13 dicembre come di un crinale fra un prima e un dopo. La politica deve sempre cercare di utilizzare al meglio quanto accade. Ma in politica, che è guerra combattuta con altre armi, come minimo le parti sono due e per forza di cose ciò che conviene all’una non può convenire all’altra. Crinale sì, ma quale?
Ha detto e ripetuto Rosy Bindi che lei sarebbe pure andata a far visita a Berlusconi in ospedale, non foss’altro che “per misericordia”. “Sono una cristiana” ha aggiunto. Dunque, nessun accenno ad un diverso approccio politico: Berlusconi, per lei e per tanti altri italiani, continua ad essere il nemico da abbattere.
In queste parole più che nelle altre dalla stessa pronunciate, che suonano più o meno così: “Berlusconi ha contribuito al clima di odio di cui è rimasto vittima”, c’è tutta la velenosità di una donna, “più bella che intelligente”, resasi interprete di quell’Italia che in Berlusconi vede un concentrato di male, da cui occorre liberare il Paese. Per lei e per tutta l’opposizione, dai centri sociali a Casini, Berlusconi se l’è cercata. Lo dimostrano i 50.000 messaggi di odio su facebook; le scritte sui muri inneggianti a Massimo Tartaglia, autore dell’attentato. Lo dimostrano le battute, i commenti, irridenti e scanzonati, di tanta gente comune, che per strada, nei bar, al mercato, sui posti di lavoro ha riso, ha gongolato, si è compiaciuta di vedere il volto sfigurato, lo sguardo smarrito, incredulo, dell’uomo maledetto e stramaledetto chissà quante volte al giorno. L’uomo forte, ricco, sicuro di sé, di successo: offeso, vinto, prostrato; un Ettore omerico violato perfino dalla lancia di Tersite. Quanti Tersite in quest’Italia! Sul volto della Bindi, catatonico per la vecchiaia, si vedeva ciò che non può essere nascosto: la soddisfazione, il compiacimento, il piacere di poter dire: finalmente, qualcuno ti ha dato quel che meritavi!
E’ vizio antico dei cristiani attribuirsi facoltà che sono divine. Beati loro, che credono di somigliare a Dio! Figurarsi Dio con la faccia e l’animo di Rosy Bindi! Il perdono come la misericordia non sono facoltà umane. Entrambe sono di Dio. A lui solo spetta di perdonare o di avere misericordia. Non del tenore della Bindi sono state le parole inviate a Berlusconi dal Papa, che è l’unico interprete “autorizzato” di Cristo. Se quel Massimo Tartaglia che ha ferito Berlusconi è uno squilibrato e se ci sono tanti che plaudono a quello che ha fatto e si compiacciono dell’accaduto, è lecito chiedersi: quanti sono gli squilibrati in Italia?
Ma è un fatto che Berlusconi da quell’attentato è rimasto ferito nel corpo e nell’anima; e di sicuro, più nell’anima. Dicono quelli che gli sono stati vicini che non si capacita di tanto odio nei suoi confronti. Il che non deve stupire. Tra le tante componenti del suo complesso essere, ne ha una nient’affatto trascurabile, è l’ingenuità. Non provenendo da una formazione politica pura, non dalle sezioni e dalla militanza, non dalle letture e dalle pratiche politiche, egli è del tutto privo di quegli strumenti critici che in genere rendono il politico cinico e disincantato.
Quando dice di non sapersi spiegare l’odio di tanta gente è credibile. Egli non sa che l’uomo è come Niccolò Machiavelli lo descrive: egoista e spregevole; che in politica ognuno, come dice Carl Schmitt, è amicus-hostis. Un politico mette in conto anche l’incomprensione, l’ingratitudine, il voltafaccia, il tradimento, perché sa che sono in dipendenza dell’uomo nella sua più schietta naturalità. Berlusconi non lo sa, ecco perché, colpito, non ha saputo rendersi conto che dietro l’odio di tanta gente ci sono le cause più varie, anche le più ovvie, ma non per questo meno importanti. La differenza fra lui e i politici veri è che lui è spontaneo e diversamente non sa essere, i politici veri fingono e hanno diverse opzioni per mutar pelle e proporsi agli occhi degli altri come conviene.
L’attentato, però, se per un verso lo ha scoperto e lo ha mostrato a tutti nella sua nudità, per un altro rischia di fargli indossare d’ora in poi l’abito della politica più realistica, quella senza spontaneità e generosità, quella del calcolo e della crudezza. Non è mai troppo tardi per incattivirsi. Le cattiverie in genere peggiorano non migliorano chi le subisce. Spesso Berlusconi è paragonato a Caligola o a Nerone; ma sappiamo tutti che né Caligola né Nerone erano prima come sarebbero diventati dopo e che alla base della loro trasformazione c’erano le cattiverie e le ingiustizie della più potente classe sociale, il Senato romano, che non voleva perdere i suoi privilegi politici ed economici.
Probabilmente Berlusconi incomincerà anche a chiedersi come mai chi doveva proteggerlo non è riuscito a farlo; come mai il ministro degli interni del suo governo non ha nulla da eccepire sull’operato del servizio d’ordine, nonostante quello che è successo; come mai tanti “Làzzari” da lui resuscitati gli hanno voltato le spalle.
Allora il crinale di cui si parla non porterà nulla di buono e anzi peggiorerà il processo d’imbarbarimento verso un ignoto su cui dovremmo tutti riflettere.
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sabato 12 dicembre 2009

Buoni esempi? Non abitano in Italia

Un mio amico sacerdote m’invita spesso a scrivere un articolo sul buon esempio. Confesso che vorrei farlo, ma, per non finire in una sorta di elogio teorico ed astratto, che non servirebbe a niente – non sono un filosofo, peraltro –, mi sforzo di trovare in concreto un riferimento plausibile.
Mi sforzo, ma – ahimè! – non lo trovo. Beato Plinio il Giovane che lo trovò in Traiano e gli fece il panegirico!
Ho sempre studiato storia e politica e se pure qualcos’altro mi è passato per la mente non son riuscito a sottrarlo a queste due materie, che come dei commutatori riducono tutto a res politica. Ho bisogno, perciò, di casi concreti per scrivere un articolo sul buon esempio. Ipotizzando che il mio amico sacerdote sia Lorenzo de’ Medici, non posso che considerarmi l’umile suo servo Niccolò Machiavelli e dico: “…sendo l’intenzione mia […] scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi [pare] più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa”. (Il Principe, XV, 3).
Esempi, dunque. Ma a parte il Papa, che dice sempre cose molto importanti e condivisibili, compresa l’ultima sulle colpe della stampa che amplifica e rafforza il male, non c’è altri. E poi, non presumo di poter fare l’elogio del Papa.
Ma ha un senso parlare di buoni esempi nell’infuriare di un’autentica guerra civile, sia pure combattuta con le armi della politica? Può essere che episodicamente ognuno per un qualche circoscritto fatto si comporti bene, ma poi per altri aspetti è da biasimare. Il buon esempio non può riguardare un particolare, perché abbia valore deve riferire un insieme di atti e di comportamenti, in continuità e coerenza. Questo in Italia oggi non c’è. Chi potrebbe dare il buon esempio?
Non il Presidente della Repubblica, che pure spesso interviene con puntualità e saggezza; ma la politica è zona di assai difficile vivibilità per le anime buone e le menti illuminate. Napolitano è un gran signore come persona e come politico. Si comporta bene. Lo richiede il suo ruolo, l’età, l’esperienza. Ma è un danzatore in un mondo di energumeni scostumati, che nei modi e nelle azioni somigliano ai giocatori di rugby della Nuova Zelanda, i cosiddetti All Blacks, che prima della partita cercano di spaventare gli avversari con versacci e gestacci e nel corso della partita si buttano come cani sull’osso. Nella vicenda del Lodo Alfano è finito nel sandwich.
Non Schifani, Presidente del Senato, troppo appiattito sulle posizioni del Presidente del Consiglio, il più accusato e perseguito della storia d’Italia. Dice delle cose sensate, ma nel grande scontro in corso sta senza riserve da una parte. Il suo non può essere un buon esempio.
Non Fini, l’ineffabile Presidente della Camera, una sorta di San Paolo a tappe sulla via di Damasco. Dal Msi ad An, da An al PdL, dal Pdl a…. Un buon esempio da lui? E’ improbabile, la sua è una saggezza affettata, ruffianesca, una sorta di Lego della buona reputazione. Può dire ciò che vuole, non è credibile. Se stai facendo autostop e passa Fini e ti invita a salire, rifiuta, non sai dove ti porta. Da lui nessun buon esempio.
Non i giudici, dai quali giungono messaggi contraddittori. C’è una parte di essi, sedicenti democratici in realtà comunisti, che vorrebbero utilizzare i pentiti e le intercettazioni, disponendo degli uomini della Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza come gli imperatori romani disponevano dei pretoriani, per mettere sotto accusa, senza prove e senza niente, pure il Padreterno. Poi se, a distanza di tempo, il Padreterno risulta pulito se ne può pure tornare nel suo paradiso, se nel frattempo è rimasto. La stessa parte di magistrati si oppone ad ogni riforma della giustizia, scrive libri, lascia interviste, partecipa a dibattiti, a manifestazioni politiche, facendo passare l’idea che giustizia e sinistra siano la stessa cosa. Mentre essi si occupano pochissimo di tanti problemi quotidiani della gente e lasciano che processi per cose da niente durino decenni. No, dai giudici nessun buon esempio.
La stampa è militarizzata: alcuni giornali e trasmissioni televisive stanno con una parte, ed altri con l’altra. Ognuno difende la sua parte senza un minimo di pudore. In questi ultimi tempi il gioco è diventato scopertamente sporco. Intanto ti calunnio, ti arreco un danno, creo nel paese un’opinione contro; poi, se è il caso ti chiedo scusa. E’ accaduto col direttore de “Il Giornale” Vittorio Feltri, che, dopo aver costretto alle dimissioni il direttore di “Avvenire” per delle inezie, gli ha chiesto scusa. No, dalla stampa forse gli esempi più cattivi.
Ho citato quei soggetti che in una democrazia normale dovrebbero svolgere una funzione terza, dare appunto il buon esempio. Se questo in Italia oggi non accade, la colpa non è tanto dei singoli soggetti, quanto della situazione generale, che non consente di ragionare sulle cose e di esprimere liberamente e proficuamente la propria idea.
E tuttavia, alla fine, un buon esempio mi pare di poterlo citare: è quello delle Forze Armate dello Stato, cui aggiungerei la Protezione Civile, che, nel gran disordine generale, stanno al loro posto e svolgono la loro funzione di tutori delle istituzioni e del Paese con grande dignità ed efficienza. Ma, citare, quale unico buon esempio quello delle Forze Armate e della Protezione Civile, francamente, dà il senso della crisi in cui versiamo.
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domenica 6 dicembre 2009

Fini la finisca, offende gli elettori di destra

Qualche anno fa alcuni colonnelli di An, parlando tra di loro in un bar nei pressi di Montecitorio, se non ricordo male “La Caffettiera”, ebbero ad esprimere delle valutazioni, non irridenti ma preoccupate, nei confronti di Gianfranco Fini, all’epoca Presidente di An. Un cronista del “Tempo” li sentì e il giorno dopo riferì tutto sul suo giornale. Uno immagina: Fini, il liberale, il rappresentante di una destra moderna, anzi del futuro, europea e laica, chiamò i suoi collaboratori, tutti membri della Direzione Nazionale, per un chiarimento. No, niente di tutto ciò. Fini, con un atto d’autorità, degno di uno zar, azzerò la Direzione Nazionale, “facendo fuori” tutti.
Oggi il suo cosiddetto “fuori onda”, irridente compiaciuto e ruffiano, avendo come spalla un magistrato, con dovizie di accuse contro Berlusconi, viene fatto passare come un normalissimo episodio di dovuta critica all’interno del PdL.
Sgombriamo subito il campo da due motivi di carattere generale. Il primo è che un politico non può prescindere dagli interessi della sua parte, della quale è responsabile. Tutto quel che dice e che fa deve rispondere ad un cogente “cui prodest”. Dunque: dire candidamente che Fini ha ragione nello specifico giudizio sul carattere di Berlusconi è del tutto fuori posto. Un conto è se certe cose le dice un suo avversario, un altro un suo alleato. L’altro motivo è che il suo comportamento, ruffianesco ed irridente nei confronti di un amico o di un alleato politico, è in sé disgustoso. E tale è anche in altri ambiti, come la famiglia, la professione, il circolo cittadino. Non si può parlare in quei termini della propria moglie con l’amante, del proprio marito o dei propri figli, del Dirigente del proprio Ufficio o del collega, del Presidente del proprio Circolo, dell’amico in genere.
I motivi più specifici e di merito sono altri. Se veramente Fini è convinto che Berlusconi è quello che lui dice “fuori onda” e “in onda”, allora lui deve trarne le conseguenze. Ciò lo può fare in un solo modo: prendendo le distanze, esattamente come seppero fare, or non è molto, Follini e Casini. Del resto, la sua critica a Berlusconi da “baruffe chiozzotte” è sostanziata da posizioni diverse da quelle del PdL in varie altre materie, fra cui immigrazione, testamento biologico, procreazione assistita, ecc.. In queste materie Fini è decisamente su posizioni di sinistra.
Verrebbe di pensare che i prodotti di sinistra, abbondantemente scaduti, siano da Fini ripresi e spacciati, con altra data di scadenza, per prodotti niente meno che di destra, anzi di una destra che ancora non c’è, tanto è ipotizzata nel futuro. Non è un caso che la sua Fondazione si chiami proprio “Fare futuro”. Anche nel lessico e nelle categorie culturali Fini è decisamente a sinistra, essendo l’utopia e il futuro categorie che niente hanno avuto mai a che fare col realismo e il pragmatismo tipici della destra. Condizionale per condizionale: verrebbe di pensare che Fini, vuoto com’è di esperienze culturali e di solide letture, neppure si renda conto dei sentieri ideologici che batte, seguendo il fiuto di un predatore.
Ma il comportamento di Fini è oltremodo oltraggioso degli elettori di destra che lo hanno votato e dei quali sembra si sia completamente dimenticato. Salvo che lui non abbia una concezione cinica della politica – e secondo me ce l’ha – non intende considerare che alla base di destra e sinistra – si legga almeno Bobbio – c’è soprattutto una diversa sensibilità. Non è tanto l’affrontare e risolvere certi problemi sociali in sè – oggi come oggi le differenze sono assai minime; quel che distingue è la sensibilità. E’ la sensibilità che fa la differenza. Chi vota a destra non lo fa perché il governo si comporti poi come un governo di sinistra, ma lo fa perché vuole e spera che si comporti secondo il comune sentire, legittimato e garantito dal programma elettorale. Se i politici eletti e giunti al governo non intendono muoversi secondo le loro promesse devono semplicemente andarsene.
Fini, con le sue prese di posizione e i suoi comportamenti, tradisce e offende il suo elettorato, che non è nel futuro della destra, ma è nella destra di oggi; una destra che trova linfa nella sua tradizione. Chi ama la politica sa perfettamente che allorquando si parla di sensibilità e di idee – e gli elettori nella loro stragrande maggioranza di altro non possono parlare, esclusi come sono dal potere politico ed economico – non offende e disprezza l’altrui sensibilità e le altrui idee, ma ritiene che ci sono momenti in cui valgono le une e momenti in cui valgono le altre. Un esempio è all’origine della nostra storia nazionale: quando nel 1876 lo Stato raggiunse con Quintino Sella il pareggio del bilancio, impresa che solo una sensibilità di destra poteva conseguire, si passò ad un governo dalla diversa sensibilità, perché c’era da affrontare una serie di problemi sociali. Non è questione di superiorità di una proposta nei confronti dell’altra, ma di opportunità. Al limite uno potrebbe anche invidiare una sensibilità che non ha, ma con coerenza deve portare avanti la sua e cedere a quella degli altri quando non è più tempo. Se Fini pensa che il suo tempo di uomo di destra sia finito, se si è scoperto una diversa sensibilità, chieda scusa ai suoi elettori, raccolga i ferri, se ne ha, e se ne vada. Il popolo “lo vult”.
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martedì 1 dicembre 2009

Vendola e il busillis della ricandidatura

Per proseguire in un ragionamento occorre rimuovere l’ostacolo che si frappone fra un passaggio e l’altro o addirittura all’ingresso, esattamente come accade su una strada, stretta che non consente di aggirarlo. L’ostacolo è questo: in Italia qualsiasi governo, a qualsiasi livello, per l’opposizione è fallito in partenza; strada facendo si trovano poi le pezze per sostenere l’accusa. Non poteva fare eccezione la giunta regionale di Niki Vendola, personaggio che può piacere o non piacere ma che va giudicato esclusivamente per il suo essere e per il suo aver fatto politico.
Superfluo dire che fin dall’inizio per l’opposizione di destra, Vendola aveva fallito. Ora, però, vedo, a distanza di cinque anni, che anche per il suo stesso schieramento, il centrosinistra, Vendola non è ricandidabile. Ma non si capisce perché.Non v’è dubbio che grandi cose la sua amministrazione non ne abbia fatte e Vendola ha dovuto accorgersi che tra il dire, stando all’opposizione, e il fare, stando al governo, tra il suo forbito dire e il suo impacciato fare, c’è l’agitatissimo mare della realtà, in cui non solo gli avversari ma anche gli amici, compagni e alleati, brigano per disfare o vanno per fatti loro.
La sanità è stata oggettivamente un fallimento, da qualunque punto di vista la si guardi, ma soprattutto è stato un contenitore di scandali, a partire da quello di avere un assessore in palese conflitto d’interessi, il famigerato conflitto d’interessi, che esiste solo per gli avversari. Fallimento che è tralignato in una serie di storie indecenti. Vendola non ha saputo affrontarlo, se no non avrebbe messo Tedesco a quell’assessorato, ma ha saputo prendere di petto la situazione quando il rischio era il piatto alla puttanesca ed ha azzerato la giunta allo scopo di eliminare quegli elementi – facciamo nomi e cognomi, Sandro Frisullo, per esempio, vicepresidente – che si erano resi protagonisti di comportamenti disdicevoli.
In un paese in cui si procede “lento pede” su tutto, specialmente quando si tratta di rimuovere mele marce, il coraggio e la determinazione di Vendola basterebbero da soli ad accreditare l’uomo come un “vir bonus”, inteso alla latina, cioè un uomo onesto e probo, ma anche “dicendi peritus”. Egli ha saputo esibire, nella circostanza, un grande senso della cosa pubblica e dell’immagine che un uomo delle istituzioni deve avere e coltivare. Invece, proprio per questo suo, forse insospettato “puritanesimo”, ora viene punito. La parte politica degli “epurati” ora si vendica e lo fa in maniera subdola. C’è il Pd (partito di Frisullo) che propone Emiliano, sindaco di Bari, alla presidenza della Regione, sostenendo che con Emiliano si vince, con Vendola si perde e si regala la Regione al centrodestra. Non ci sono altre ragioni, quasi una questione di cabala. Non si dice: non ti candidiamo più perché hai sbagliato, hai fallito, non avresti dovuto fare questo e quest’altro; no, si dice: non hai sufficiente domanda sul mercato elettorale.
Da parte sua Emiliano si profonde in dichiarazioni “d’amore” per Vendola. “Caro Niki – dice – non riusciranno a metterci l’uno contro l’altro”. Altro che greci o cretesi, qui siamo al levantinismo più scoperto. Ognuno cerca di negare la parte che è per far piacere alla parte che deve recitare.
Poi c’è l’Udc, che non si capisce per quale ragione si ostina a dire: sì ad accordi col Pd, ma senza Vendola; quando si sente la puzza da un miglio che mente. Escludendo che l’avversione dell’Udc per Vendola abbia altre ragioni, il partito di Casini non si avventurerà mai in alleanze che potrebbero portare a guazzabugli di difficile e intricata soluzione. Ma perché, allora, si presta in questo gioco allo schiaffo contro Vendola?
A cinque anni di distanza dalla sua sorprendente elezione Vendola è messo in discussione da tutti: dagli avversari esterni per partito preso, dagli avversari interni per fargli pagare la sua scarsa disposizione alla convenienza di partito, e dai “neutri” dell’Udc per un incredibile gioco alla confusione.
Vendola, invece, meriterebbe, la ricandidatura, soprattutto per quello che ha dimostrato di essere. Sostenuto da collaboratori più leali e all’altezza della situazione, potrebbe fare quel che non è riuscito a fare nella scorsa consigliatura. Metterlo da parte è in-credibile.
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