sabato 25 marzo 2023

Meloni deve pur fare qualcosa di destra

Chissà perché, sarà stato il DanteDì – oggi è il 25 marzo, la sua ricorrenza – che, pensando a Giorgia Meloni a Bruxelles per il vertice dei capi di stato e di governo europei, mi è venuta in mente la celebre profezia di Cacciaguida al pronipote Dante nel XVII del Paradiso: “Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui e come è duro calle / lo scendere e il salir per l’altrui scale”. Quelle di Bruxelles per la Meloni erano state “scale altrui” per tutto il periodo della sua opposizione ai vari governi che si sono succeduti in questi ultimi dieci anni. Lo sono ancora “altrui” o è cambiato qualcosa? Il suo antieuropeismo è sempre più scivolato verso un europeismo convinto, una vera metamorfosi. Le pouvoir oblige. Ora quelle scale non sanno più di sale ma di nettare e di ambrosia. Eppure sono le stesse! È Meloni che è cambiata. Dopo il 22 ottobre 2022, inizio del suo governo, quelle scale sono diventate anche sue, sicché il suo mantra “la pacchia è finita”, riferendosi alle imposizioni europee ad un governo italiano sempre remissivo e col capo piegato, non ha più senso. In Italia c’è una pacchia di chi sta in maggioranza e una di chi sta all’opposizione. Quella della Meloni di quando era all’opposizione sembra finita. Quel suo spot sull’aumento della benzina è stato oltre modo sputtanante, ma fu l’inizio. Oggi, infatti, le sue parole e i suoi comportamenti non producono più quei consensi che le hanno prodotto quando era all’opposizione, anche se, stando ai sondaggi, in buona sostanza tiene. Dopo il vertice di Bruxelles del 24 marzo la Meloni si è detta soddisfatta di come è stato trattato il problema migranti, quello che per noi italiani è in questo momento la mamma di tutti i problemi. Contenta lei! La stampa, non solo quella “nemica”, ha detto che l’argomento è stato trattato in maniera frettolosa. Al netto delle parole, c’è la sensazione che il problema migranti era e resta “italiano”. La stessa Meloni paventa che presto rischiamo di vederci arrivare 900mila migranti dalla Tunisia e noi abbiamo l’obbligo morale e materiale di salvarli e di accoglierli, come hanno sempre fatto i precedenti governi, perché salvare la vita a chi è in mare è prioritario ed accoglierli è da cristiani. La marea, rispetto a prima, è montata a dismisura. Anche qui è questione di pacchia. Matteo Salvini, oggi ministro delle infrastrutture e dei trasporti, ripeteva questa frase ogni volta che parlava di migranti e pur di mettere fine a quella pacchia ha rischiato e rischia ancora conseguenze penali, oltre la già decretata condanna morale. Oggi, a meno che non voglia darsi la patente di sintesi delle tre scimmiette, è costretto ad ammettere che la pacchia è finita, sì ma per lui che sulla questione migranti ha lucrato negli anni passati il suo consenso nel Paese. Ora, dopo i trasformismi o i ridimensionamenti subiti, per la destra e per Giorgia Meloni si pone un problema ed è quello di trovare una nuova collocazione, che non sia quella governativa di sempre e di tutti, ma neppure quella abbandonata da quando è andata al potere. Ovvero, governare senza tradirsi del tutto, in considerazione del fatto che una buona parte dell’esercizio politico e amministrativo resta la stessa a prescindere da chi la gestisca per i tanti vincoli e condizionamenti europei. L’elettorato di destra non capirebbe comportamenti somiglianti o gli stessi dei passati governi, quelli di centrosinistra o “tecnici”. Problemi come quelli storici e quelli etici, che sono i più evidenti portatori di differenze fra destra e sinistra, devono essere affrontati dalla destra senza timori o complessi, pur sapendo che, a come sta la situazione oggi, si è su un terreno che non le è congeniale. Ciò nonostante bisogna che insista sulle sue posizioni di principio. Se la destra cede su quei due fronti, allora difficilmente potrebbe trovare altri motivi di differenziazione, sì da giustificare la sua presenza al governo del Paese in alternativa alla sinistra. Le più alte cariche dello Stato hanno onorato finora le ricorrenze legate alla Resistenza e alla lotta al nazifascismo e non c’è niente che faccia pensare che non continueranno a farlo. E bene hanno fatto! E bene faranno! Ma ora la destra ex missina, di La Russa ed ex camerati, saprà restituire ai combattenti della Repubblica Sociale un minimo di riconoscimento o li lascerà sepolti ancora sotto la damnatio della sinistra? Sui problemi etici, che aspetta il governo della destra, considerato dai suoi avversari il primo della destra che più destra non si può, ad intervenire sui sindaci che inscrivono al registro dei nati anche i bambini figli di coppie di omosessuali? Perché lascia che i sindaci di sinistra facciano a libero arbitrio quello che vogliono, a creare fatti compiuti dai quali poi non è facile tornare indietro? Ecco, per questi signori, quella pacchia che per Meloni e Salvini doveva finire, sta invece continuando. E se questo governo vuole avere un senso deve fare qualcosa di destra. Se no vale quello che disse il regista Nanni Moretti a Massimo D’Alema quando questi era Presidente del Consiglio, né più né meno: di’ una cosa di sinistra. Non la disse, e finì.

sabato 18 marzo 2023

Meloni, cinque mesi dopo

Sono trascorsi quasi cinque mesi dal varo del governo Meloni, quasi sei dalla vittoria elettorale. Non è proprio ancora tempo di bilanci, ma qualcosa di importante si vede, sia in senso positivo che negativo. I sondaggi dicono che il governo tiene e che la Meloni è in testa ai gradimenti dei leader politici. Ma si avvicinano i tempi di qualche riflessione più importante. Di positivo c’è che la Meloni ha dimostrato di muoversi bene negli ambienti politici nazionali e internazionali. Il suo essere donna la avvantaggia, ispira più simpatia. Sul piano personale la esalta l’essere un modello, al punto che perfino chi le si pone contro come antagonista solo per questo aumenta di valore. È il caso di Elly Schlein, che, senza la Meloni in cattedra, sarebbe rimasta un’anonima scolara per chissà quanto altro tempo ancora. Chi poi conosce i natali politici della Meloni e i suoi percorsi aggiunge interesse e curiosità. Una cosa è certa: ha fugato tutti i pregiudizi della vigilia e direi anche dell’immediato dopo festa. Ultimamente ha accettato l’invito di Landini al congresso della Cgil e si è presentata senza timori, sfidando fischi ed insulti, che non ci sono stati se non in maniera contenuta nei termini di qualche rimostranza simbolica, i peluche sulle sedie e un “bella ciao” balbuziato. Volevano farla entrare da un ingresso secondario, ma lei ha voluto entrare ed uscire dalla porta principale. Nel suo intervento, dopo essersi detta “cavaliere al merito” dei fischi, che riceve da quando aveva sedici anni, ha ribadito le politiche sociali del governo senza nessun timore, nessun nascondimento, nessuna mediazione, nessuna forma di captatio benevolentiae, che in certe circostanze ci sta. Il suo governo ha dato inizio a quasi tutto quello che in campagna elettorale aveva promesso di fare: continuità in politica estera col rassicurare l’Europa, con l’invio di armi all’Ucraina, con la ricerca di fornitori di gas addirittura prospettando l’Italia come hub per rifornire l’intera Europa; discontinuità in politica interna: abolizione del reddito di cittadinanza, autonomia differenziata delle regioni, riforma fiscale, flattax, riforma della giustizia, ponte sullo Stretto di Messina, rigore sull’ordine pubblico con l’approvazione del decreto anti rave, una diffusa fermezza su alcune questioni giudiziarie, come il caso Cospito. Di negativo ci sono alcuni episodi, incappature per “inesperienza” a fronte di difficoltà impreviste. Il Consiglio dei Ministri a Cutro, dove si era consumata la tragedia di quasi ottanta migranti, è stato un disastro mediatico. La Meloni, con le sue incertezze e scivolate, non ha confermato la sua rappresentazione di scaltra e avveduta politica. A Cutro è caduta, dopo aver commesso errori ed omissioni (il non andare a visitare i morti, per esempio) e mettendosi a tu per tu coi giornalisti nel corso di una conferenza stampa, in modo non consono all’istituzione che rappresenta. Così il karaoke al compleanno di Salvini il giorno dopo è sembrato a tutti inopportuno, comunque di cattivo gusto e di insensibilità nei confronti di una tragedia spaventosa. Ha poi cercato di riparare invitando i sopravvissuti a Roma. Ma si sa che i rimedi confermano il danno ed anzi lo evidenziano al punto che se ne accorge perfino chi prima era distratto. Dove il governo ha fallito di più è proprio sulla questione migranti. La Meloni da anni ha costruito il suo successo anche su questa vicenda, proponendo blocchi navali, ma proprio quando s’incominciava a veder qualche frutto del decreto anti Ong, ecco che la situazione è precipitata, e il governo ha balbettato. Il ministro degli interni Piantedosi è arrivato a dire cose sbagliatissime contro i migranti che mettono a repentaglio la vita dei loro bambini e proponendo loro di non partire, di restare fermi chè, ha concluso, “veniamo noi a prendervi”. Peggior coronamento alla vicenda non poteva esserci. “Giustamente” gli avversari, che in passato, quando erano al governo, hanno assistito a tragedie simili ma ben più gravi, hanno enfatizzato il “dolore” e lo “sdegno”, imbattibili nel ruolo di vedove affrante. Sarà pure vero che l’Italia della Meloni è presa d’assalto da quanti ce l’hanno col nostro Paese, vedi il battaglione filorusso Wagner, operativo in Africa, che si sospetta favoreggi le migrazioni verso l’Italia, ma oggi il governo deve prendere atto che il problema dei migranti era da faciloni si potesse risolvere col blocco navale, che poteva sembrare una battuta. Accanto a queste defaillances bisogna aggiungere incidenti evitabilissimi. Le dimissioni della sottosegretario Montaluri in seguito a condanna passata in giudicato potevano essere evitate semplicemente non affidandole l’incarico governativo. La boiata fatta dal duo Donzelli-Delmastro ha messo in evidenza la scarsa attitudine di questi parvenus ad essere uomini delle istituzioni. Speriamo che tanti piccoli e meno piccoli errori fatti abbiano insegnato qualcosa, se no i cinque mesi, tanti ne avevano pronosticati di vita gli avversari al governo, potrebbero diventare dieci, dodici. Il che cambierebbe di poco l’entità del fallimento.

sabato 11 marzo 2023

I Piddini non vogliono la pacificazione

Due notizie dal “Corriere della Sera” di sabato, 11 marzo, riportano all’unico tema che da 78 anni agita gli italiani: la liberazione dell’Italia dal nazifascismo dopo una durissima guerra civile, che si concluse formalmente per i vincitori con un glorificante 25 aprile ma ebbe un seguito per i vinti per alcuni anni ancora, come qualche anno fa dimostrò Giampaolo Pansa con una serie di libri sull’argomento. La prima notizia, in ordine di impaginazione, è annunciata da Massimo Gramellini nel suo “Caffè” di prima pagina “Partigiani e patrioti”; la seconda è la pubblicazione del saggio “Il purgatorio dei vinti” di Gianni Oliva per la recensione di Gian Antonio Stella. La prima riguarda l’iniziativa dell’amministrazione comunale di Bologna di sostituire sulle targhe toponomastiche della città la parola “patriota” con “partigiano”. La seconda insiste sul fatto che gli italiani non hanno mai voluto fare i conti col fascismo. Significativo il titolo di Stella “Pagare il conto del fascismo”. Perché il sindaco di Bologna Matteo Lepore del Pd preferisce il più specifico “partigiano” al più generico “patriota”? Perché i bolognesi e chi a Bologna si trovi sappiano chi sono stati i liberatori dell’Italia differenziandoli da altri patrioti di altre imprese. Insomma, per non dimenticare! Per mantenere sempre accesa la lampada dell’odio nei confronti dei fascisti, specialmente degli ultimi e più determinati, quelli della Repubblica Sociale, che combatterono fino alla fine, ma anche nei confronti dei “fascisti” di oggi, quelli che ora si trovano al governo della nazione. Un colpo al passato ed uno al presente. Non c’è ancora l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), anche se non c’è quasi nessun partigiano in vita? Il lucro è lucro e quello politico vale anche più di quello monetario. E coi fascisti, veri o presunti, entriamo nel secondo punto. Nel saggio, che ci promettiamo di leggere, per ora fidandoci di Stella, l’autore sostiene che gli italiani, e per essi soprattutto i partigiani – se ce ne sono ancora! – non hanno mai fatto i conti né vogliono farli col fascismo e si limitano a prendersela coi fascisti di Salò, come se con questo volessero chiudere definitivamente la partita. I salodini furono i fascisti più sfortunati e coraggiosi rispetto alle masse di fascisti che lodarono il Duce per ben venti anni. Se si vuole veramente riconoscere il primato del combattente antifascista ai partigiani, al punto da dare loro l’esclusiva, allora bisognerebbe riconoscere anche ai loro avversari che combatterono contro e pagarono le conseguenze della tragica scelta. Voglio dire che occorre fare una distinzione netta tra i fascisti tali fino al 25 luglio, che ebbero promozioni e prebende per tutto il ventennio, per poi squagliarsela in tante vie di fuga, e i fascisti che invece vollero difendere le loro idee di patria e di politica fino all’ultimo. Non c’è dubbio che se si fa questa distinzione la simpatia va più a questi ultimi, che almeno seppero vivere e morire. Ma quel che oggi necessita agli italiani è di trovare un punto di pacificazione nazionale, senza dimenticare ma neppure senza rinfocolare l’odio nei confronti dei “perdenti”, che non sono più in vita, come non sono più in vita i vincitori. Continuare a considerare fascisti e partigiani in lotta come 80 anni fa è un anacronismo che non si può basare che sul falso presupposto e sulle altrettanto false conseguenze. È come tenere in vita la disfida di Barletta per giustificare i malintesi e i contrasti tra la Meloni e Macron. Se il sindaco di Bologna non ha altro su cui puntare per differenziarsi dagli antifascisti generici e per dare un senso alla lotta politica del suo partito sta davvero fresco e si capisce perché i Piddini le hanno buscate in tutta Italia o quasi. L’Italia di oggi non si può che costruire sulla pacificazione nazionale, partendo da un reciproco riconoscimento. Lo chiede il paese non più disposto a ragionare come 80 anni fa, non più propenso a consegnarsi a politici che non sanno fare altro che ribadire che c’è una Costituzione che mette fuori legge i “fascisti”. Non c’è oggi in Italia chi non riconosca che il sistema di vita democratico, pur con tutte le sue disfunzioni e approssimazioni, è da preferire ad un sistema totalitario e liberticida. Voler insistere a volersi considerare in lotta contro il fascismo è come ammettere di combattere contro il nulla. Chi ha idee conservatrici, chi difende la tradizione, alcune italianità che fanno onore all’Italia, non è fascista, è un normale cittadino. Volergli appioppare l’epiteto di fascista è operazione fraudolenta, bocciata dagli italiani il 25 settembre del 2022.

martedì 7 marzo 2023

La scomparsa di Franco De Paola

Se n’è andato Franco De Paola martedì, 7 marzo, cogliendo amici e concittadini di sorpresa. Aveva 82 anni, era nato il 29 agosto del 1940. Or non erano trascorsi che sedici giorni dalla bellissima serata taurisanese del 18 febbraio in omaggio all’amico Donato Minonni per i suoi ottant’anni. Una perdita non da poco se consideriamo che Franco era ancora in attività di studio e produttività di iniziative e di opere. Per più di un aspetto, Franco è stato a Taurisano un iniziatore. Apparteneva a una generazione di giovani che finalmente, benché di umili origini, raggiungevano il traguardo del diploma. Pochi altri prima di lui, moltissimi dopo. Non perché non fossero dotati per altri traguardi di studio, anche più impegnativi, la laurea per esempio, ma per le condizioni economiche dalle quali provenivano. I genitori, consci delle difficoltà e dei costi per mantenere i figli a scuola, saggiamente optavano per il traguardo più vicino, anche in finalità lavorative. Il maestro di scuola era, in questo senso, il più a portata di mano. All’epoca, per studiare nelle scuole superiori, occorreva risiedere a Lecce, Maglie, Gallipoli, Galatina, e per l’università a Bari. I costi erano davvero proibitivi e richiedevano sacrifici enormi per le famiglie che vivevano di un solo reddito, e non sempre garantito. Franco e la sua famiglia fecero quella scelta. Dotato di spiccata attitudine allo studio, intraprese la Scuola Media a Galatina e poi l’Istituto Magistrale a Lecce, diplomandosi a diciassette anni. Scuola, questa, che rilasciava il diploma di abilitazione richiesto per l’insegnamento nelle scuole elementari. Vinse il concorso e iniziò a insegnare, ma nello stesso tempo e, disponendo ormai di un suo reddito, si iscrisse all’Università di Bari e si laureò in Lingue e Letterature Straniere, abilitandosi all’insegnamento di Lingua e Letteratura Inglese, per concludere la sua carriera al Liceo Scientifico “Giulio Cesare Vanini” di Casarano. Qui l’ho conosciuto come collega e posso dire che a scuola, fra studenti e docenti, godeva di stima e gli erano riconosciute simpatia e autorevolezza. Franco è stato uno che ha attraversato gran parte della sua esistenza dedicandosi, per quel che attiene la sfera pubblica, alla politica, militando nel Psi, di cui è stato rappresentante in Comune quale consigliere e assessore in amministrazioni di centrosinistra; allo sport, entrando in epoche diverse nella dirigenza della Società Calcistica locale e del Circolo Tennis; alla cultura, legando il suo nome a quello di Giulio Cesare Vanini, di cui è stato a Taurisano il risvegliatore fin dalla fine degli anni Sessanta del Novecento. Fondò e diresse agli inizi degli anni Sessanta il periodico “Pagine Taurisanesi”, insieme ad Antonio Santoro, Luigi Crudo, Romeo Erminio e Stefano Ciurlia. Fu tra gli organizzatori delle Celebrazioni Vaniniane del 1969, insieme al direttore didattico Aldo de Bernart, Luigi Ponzi e un gruppo di giovani professionisti, tra cui Antonio Santoro, Luigi Crudo, Luigi Montonato, Donato Minonni, Stefano Ciurlia, grazie anche alla disponibilità dell’amministrazione comunale guidata da Ugo Baglivo. Nel 1972 contribuì a fondare il Centro Studi “Giulio Cesare Vanini” e da amministratore promosse la Domus Vaniniana, l’acquisto della casa in cui si riteneva fosse nato Vanini e la pubblicazione delle due opere pervenuteci del filosofo arso a Tolosa. Nel corso degli anni Settanta organizzò diversi eventi culturali e tenne i rapporti coi più accreditati studiosi italiani ed europei, fra cui i conterranei Antonio Corsano e Francesco Politi, il francese Emile Namer e il polacco Andrzej Nowicki. È stato fino all’ultimo instancabile ricercatore negli archivi italiani e stranieri delle orme lasciate da Vanini, le cui conseguenti elaborazioni critiche sono apparse sul “Quotidiano”, sulla rivista universitaria diretta da Giovanni Papuli, “Bollettino di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Lecce” e in altre pubblicazioni collettanee, fra cui la prestigiosa “Bruniana e Campanelliana”. Ha anche approfondito studi di carattere demografico e sociologico delle società di Casarano e Taurisano. Suoi i volumi L’Università di Casarano nel catasto antico del 1722 (2004), La civica Università di Taurisano nei Registri del ‘600 dell’antica Terra d’Otranto (2005), L’Università di Taurisano negli archivi dell’antica Terra d’Otranto (sec. XIII-XVI) (2006). Nel 1985 fu nel comitato scientifico per il Convegno Internazionale di Studi “Giulio Cesare Vanini dal tardo Rinascimento al Libertinisme érudit”, promosso dal Comune di Taurisano e dall’Università degli Studi di Lecce. I suoi studi vaniniani, frutto delle sue ricerche condotte nelle biblioteche londinesi, sono approdati nei due volumi Giulio Cesare Vanini e il primo ‘600 anglo-veneto (1979) e Giulio Cesare Vanini filosofo europeo (1998). Era tra i più anziani della sezione leccese della Società di Storia Patria per la Puglia, presidente della quale è Mario Spedicato, partecipando con interventi orali e scritti alle attività culturali societarie. La Società di Storia Patria gli ha dedicato nel 2020 un volume di studi per i suoi ottant’anni, dal titolo suggestivo Dalla rupe di Leuca alle scogliere di Dover. In onore del viaggio di Francesco De Paola. L’ultimo suo impegno è stata l’organizzazione del volume che la Società di Storia Patria ha dedicato all’amico di tante iniziative Donato Minonni La mano e l’intelletto. Proprio la sera della presentazione di questo volume, 18 febbraio,Franco ha lasciato, con un discorso molto bello,a tratti poetico,la testimonianza più viva di sé.

sabato 4 marzo 2023

Vince la Schlein. Perde il Pd

Mi sono ripreso in mano in questi giorni, successivi alla vittoria di Elly Schlein alla segreteria politica del Pd (26 febbraio), un po’ di manuali di politica, a partire dal Principe del Machiavelli per capire quanto è successo in quel partito e perché. Ho iniziato dallo sconfitto Stefano Bonaccini, che aveva vinto agevolmente le primarie riservate agli iscritti del Pd, per poi perderle nel turno successivo. Dice il Machiavelli che “i profeti armati vinsono, quelli disarmati ruinorno”, cioè, per dirlo alla buona, chi ha attrezzi per fare riesce bene nelle imprese, chi non ce li ha fallisce. Il fatto è che Bonaccini, altro che attrezzi! È attrezzatissimo e lo ha dimostrato in anni di impegno politico alla Regione Emilia-Romagna e alla guida della conferenza delle regioni. Per il Pd era lui il nuovo segretario, sua la guida della sinistra italiana. Per lo meno della sinistra governativa, quella abituata a pensare e ad operare nelle istituzioni e per le istituzioni. Altra cosa è la sinistra radicale, ribellistica, sguaiata, la Lumpenlink, che vorrebbe una società in cui vige la legge di Semiramide: ciò che piace è lecito; quella sinistra che poi si fa a pezzi quando vota. Facendo i conti col Pd – e con chi sennò? – l’ascesa di Bonaccini al vertice del partito era più che scontata. È accaduto, invece, che nelle primarie universali, quelle a cui possono andare a votare tutti gli elettori, piddini e non piddini, italiani e stranieri, la Schlein, come si dice?, ha rovesciato le urne prendendo la maggioranza dei voti, assicurandosi il vertice di un partito, a cui aveva aderito da pochi mesi. È di tutta evidenza che lo scarto di voti in più è costituito sì da persone fisiche ma non da persone politiche appartenenti a quel partito, persone cioè estranee. A votare la Schlein sono stati sicuramente piddini non iscritti, elettori simpatizzanti, ma anche chi aveva interesse a deviare il corso delle cose. Chi? Elencarli, è superfluo. Ma è lecito chiedersi da dove viene tutta questa gente che ha dato l’assalto alla fortezza. Certamente da ogni variazione di sinistra e soprattutto da quelle zone della sinistra dei centri sociali, da quelli che ancora si sentono e si dicono comunisti, forse anche da qualche mattacchione di destra, che ha voluto burlarsi del Pd contribuendo a far vincere la candidata a suo pensamento più esplosiva per le sorti nefaste di quel partito. Peccato che Bersani, abile inventore di icastiche metafore, non sia riuscito ancora a trovarne una per spiegare il fenomeno. Se questo non è un autentico colpo di stato, gli esperti politici del Pd dovrebbero spiegare cos’è, senza fare ricorso ad una nuova concezione della democrazia, alla carlona, fluida, fatta di cervellotiche aperture, secondo cui è un bene che ogni prepotente, ogni irresponsabile, ogni intrigante, possa andare a comandare in casa d’altri o, peggio ancora, creare casini. Dovrebbero spiegare soprattutto come e perché un gruppo dirigente si sia lasciato dirigere da “sconosciuti”. Il peggio è, infatti, che le avvenute seconde primarie, quelle di ritorno, per usare un linguaggio calcistico, con le reti segnate in trasferta che valgono il doppio, sono avvenute senza regole certe, senza controlli, forse anche per aumentare il numero dei partecipanti ed evitare di dover ammettere un mortificante flop del partito. La Schlein ha spopolato nelle grandi città, dove numerosi erano i gazebo per votare. Quanti sono stati quelli che se li sono girati tutti e hanno votato tutti per la Schlein? Altro che il doppio! Qui si tratta di voto plurimo. Sono in grado i responsabili del Pd di dirlo? Parlano di flussi. Ma quali flussi? Veramente si può pensare che tante persone che all’andata hanno votato Bonaccini al ritorno hanno preferito la Schlein? Anche a voler considerare che quelli che avevano votato per la De Micheli o per Cuperlo abbiano poi votato per la Schlein i conti non tornano. Si fosse verificato un fulmine mille volte più forte di quello che gettò da cavallo Saul sulla strada di Damasco non avrebbe provocato quell’effetto. A votare la Schlein al secondo turno sono stati altri, i sopraggiunti, gli intrusi. Qualche iscritto al Pd ha giustamente fatto rilevare che non sta né in cielo né in terra che uno paghi regolarmente una tessera ogni anno per i bisogni del partito e abbia gli stessi diritti di chi invece non si sa chi sia e per quale motivo voti. Già il fatto che il partito si sia aperto a tutti gli iscritti andando a trovarli nei paesi di loro residenza per farli partecipare a questa sorta di congresso diffuso è discutibile se raffrontato ai congressi sezionali di una volta, dove prima c’era un vero confronto di idee e posizioni e dopo si votava. Ma si può anche capirne lo spirito: esporre al pubblico più vasto e all’aperto un dibattito che prima si svolgeva nel privato e nel chiuso delle sezioni. Ma se si pensa al dibattito, dove sta?, se tutto si esaurisce in un voto nel corso di una passeggiata al centro, non politico ma urbano, di un paese o di una città? La democrazia “disarmata” del Pd, che ha certificato la “ruina” di Bonaccini, ha dimostrato che i profeti non solo devono essere armati, ma saper essere “volpi e lioni”. La Schlein lo è stata. Il Pd, più che forse, è stato una farsa.