domenica 27 ottobre 2013

Giustizia: la riforma impedita


In una democrazia i fattori di difesa dalla degenerazione dovrebbero prima di tutto esserci e poi essere efficienti ed efficaci. In genere questi fattori sono i cittadini che per intelligenza, studio ed esperienza allertano le istituzioni quando è superato il livello di guardia della tenuta democratica. In Italia questi fattori ci sono; purtroppo non sono considerati. Oggi non valgono neppure quanto valsero le oche del Campidoglio, le quali, starnazzando, permisero alle sentinelle romane di respingere i Galli di Brenno, quello del “Guai ai vinti”, che gli scolaretti di una volta già conoscevano benissimo alle Elementari.
Cosa vanno dicendo queste volontarie guardie disarmate della democrazia? Che c’è un gravissimo problema, quello di un potere dello Stato, la magistratura, che di fatto ha esautorato gli altri poteri. «La dilatazione del potere discrezionale della magistratura, diventata, con le sue sentenze in nome del popolo, il nuovo “sovrano assoluto”; che ha spogliato, di fatto, il Parlamento dell’esercizio della sovranità popolare e vanifica il potere del governo di gestire il Paese; unifica in sé tutti e tre i poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) che dovrebbero restare separati e divisi secondo il moderno costituzionalismo» (Piero Ostellino, Corsera del 23.10). Si può anche non essere d’accordo e pensare anzi che la giustizia italiana sia la migliore del mondo. Sta di fatto che quello che accade, in continuità di casi, è di una gravità enorme.
L’ultimo caso che fa veramente imbestialire – indignarsi oggi fa ridere – è quello dell’aereo DC 9 dell’Itavia, che la notte del 27 giugno 1980 scoppiò in cielo e s’inabissò nel mare di Ustica, portando con sé 81 innocenti vittime.
Dopo anni di analisi e perizie la magistratura, nei suoi tre gradi di giudizio, appurò che l’aereo ebbe un collasso strutturale. La colpa fu scaricata sulla compagnia aerea e sul suo titolare Aldo Davanzali, accusato di servirsi di “bare volanti”. Per quanto fin dall’inizio il Davanzali, cercasse di dimostrare che a colpire l’aereo era stato un missile – lo sapevano tutti che era stato un missile – grazie a tutta una serie di depistaggi, che vide coinvolti anche alti ufficiali dell’aeronautica militare, la magistratura gli diede torto. Il danno fu enorme, l’azienda, che era un fiore all’occhiello nazionale, un punto di riferimento di tante altre compagnie aeree, perfino estere, fu annientata.
Ora, a distanza di oltre 33 anni, la Corte di Cassazione (sezione civile) ha sentenziato che effettivamente l’aereo fu colpito da un missile, mentre nello spazio aereo attraversato infuriava una battaglia che coinvolgeva una ventina di aerei militari: nato, americani, inglesi, francesi, libici e italiani. La Corte di Cassazione non è una corte che viene da un altro pianeta, è parte organica dello stesso ordinamento giudiziario, lo stesso che aveva sentenziato in maniera completamente diversa.    
Di fronte ad un simile caso, viene di fare alcune considerazioni.
La prima è che spesso in Italia una parte della magistratura si oppone ad un’altra parte. Una condanna, l’altra assolve o viceversa, per cui non si capisce bene quale delle due abbia ragione, a nocumento della giustizia che resta aleatoria e affidata ad una serie di imponderabilità. Spesso il calcolo che viene fatto sui tempi e le sentenze è considerato organico all’esito finale. Una corte assolve, sapendo che dopo ce ne sarà un’altra che condanna, o viceversa. Lazzaroni e avvocati che li difendono hanno bisogno di una simile giustizia come i pesci hanno bisogno dell’acqua e gli uccelli dell’aria. Male che vada al colpevole, non è mai il male che avrebbe avuto da una giustizia meno calcolatrice e più rapida. Si sa che quando un delinquente la fa franca c’è sempre un onesto cittadino che viene penalizzato. In Italia è diffusa l’idea di una giustizia che conviene ai delinquenti; una giustizia dalla quale i buoni cittadini si tengono alla larga fino a rinunciare a volte dal ricorrervi. Bisognerebbe – se già non c’è – configurare il reato di uso calcolato e strumentale della giustizia. Il colpevole di simile reato non andrebbe condannato, ma castigato. Che è cosa un po’ diversa. Non sparirebbero del tutto prepotenti e canaglie, ma ce ne sarebbero di meno in circolazione. E sarebbe già tanto.   
La seconda è terribilmente più grave. Quando ad essere preso di mira è il titolare di un’azienda la magistratura non fa distinzione alcuna tra il titolare, che può essere colpevole o innocente, e l’azienda che dalla vicenda giudiziaria ne esce distrutta. Quando si parla di aziende si parla di importanti aspetti economici e sociali che riguardano singoli cittadini nell’immediato e più in generale e mediato il paese intero. Sicché i dipendenti di quell’azienda, assolutamente innocenti, finiscono per perdere il lavoro, vanno a pesare sullo Stato, che a sua volta da quell’azienda non incassa più le tasse. La giustizia in Italia, annientando le aziende, penalizza i dipendenti, impoverisce il paese. E’ una giustizia di stampo ottocentesco, che vede in un titolare d’azienda il padrone, il nemico di classe da abbattere.
La terza è che a fronte di simili ingiustizie nessuno paga. Chi risarcisce i danni ai Davanzali titolari dell’Itavia e di altre aziende? E se pure lo Stato li risarcisce con qualche milione di Euro, che cosa in effetti risarcisce, atteso che certi danni non sono risarcibili?
Dovrebbero pagare quei giudici che hanno mal sentenziato. Ma è un problema complicato, perché se un magistrato deve sentenziare con la spada di Damocle dell’errore giudiziario che gli taglia il collo appena alza la testa, non è sereno nelle valutazioni. Il rimedio in questo caso sarebbe peggio del male. Non esiste una soluzione semplice, evidentemente, tenendo conto anche che siamo in Italia, dove tutto viene travisato dalla diabolicità degli italiani, giudici e non; ma è indubbio che una riforma della giustizia è indilazionabile.
La riforma della giustizia, come ogni altra riforma, deve essere fatta dal Parlamento, il quale opera nella sfera del legislativo in nome del popolo italiano, tanto quanto fa la magistratura nella sfera del potere giudiziario, partendo proprio dal fatto che i due poteri devono essere separati e che la magistratura deve limitarsi ad applicare le leggi. I magistrati possono operare in nome del popolo italiano in quanto ricevono le leggi fatte dal Parlamento eletto dal popolo italiano. Senza il Parlamento la magistratura non potrebbe mai pronunciare sentenze “in nome del popolo italiano”.
D’altra parte il magistrato non può dire come magistrato obbedisco, ma come cittadino ho il diritto di esprimere il mio parere, di riunirmi in organismo politico e di lottare perché la riforma non si faccia. Il magistrato, nel momento in cui ricorre ad espedienti pirandelliani, non è più materia di diritto, ma di psicanalisi.  

Parole chiave: Democrazia  - giustizia  -  riforma – Itavia -  strage di Ustica


Argomento:  Riforma della giustizia

mercoledì 23 ottobre 2013

Ma che Napolitano e Napolitano, qui neppure il Padreterno!


L’On. Daniela Santanché ha detto papale papale che il Presidente della Repubblica Napolitano ha tradito il patto con Berlusconi. La Santanché non usa il politically correct e fa bene, perché – lo dico in italiano – il politicamente corretto altro non è che l’ipocrisia vasellinata.
Ma di quale patto parla la Santanché? Della grazia che Napolitano avrebbe promesso a Berlusconi in cambio di alcune “carinerie” politiche, per esempio la rielezione alla Presidenza della Repubblica, per esempio il governo di larghe intese. Com’è sotto gli occhi di tutti, le “carinerie” di Berlusconi ci sono state, la grazia di Napolitano no. Di qui l’arrabbiatura e lo sfogo della signora, detta la pitonessa. Il giornale di Antonio Padellaro, “Il Fatto quotidiano”, per aver ripreso con una certa enfasi le rimostranze della Santanché si è buscata un’accusa da Napolitano di pubblicare “ridicole panzane”. Cosa che ha imbestialito Padellaro, che è andato dalla Gruber a farsi le sue ragioni.
Con tutta la simpatia per la Santanché e il rispetto per Padellaro, le cose sostenute dall’una e riprese dal giornale dell’altro, sembrano proprio delle panzane.
E’ perfino inutile dire che non c’è stato nessun patto, né scritto né orale, se per patto s’intende una cosa che va fatta almeno in due. Il “patto”, se così di può dire, c’è stato, ma soltanto a livello di desiderio di una sola delle due parti, quella di Berlusconi. Il quale avrà fatto questo ragionamento: io ora mi dimostro comprensivo, generoso e disinteressato con l’unico che in questa mia situazione mi può salvare. Se gli concedo un po’ di cose, importanti per giunta, lui capirà e si disobbligherà come si deve, come fanno gli uomini di mondo, ai quali non occorre nessuna carta scritta e nessun accordo formale. Probabilmente Berlusconi non ha pensato a nessuna grazia, ma ad un aggiustamento delle cose in sede giudiziaria; alla grazia non si doveva neppure arrivare. La grazia, infatti presuppone una domanda e la dichiarazione di pentimento. Berlusconi, invece, fin dalla sentenza di condanna della Cassazione, ha gridato alla persecuzione, protestandosi totalmente innocente. Indirettamente Berlusconi, prodigandosi per il bene del Paese e comportandosi nel modo apprezzato da Napolitano, ha reso omaggio ad una tipologia politica da lui distante, quella del politico che mette il Paese prima di tutto e soprattutto.
Niente! I suoi nemici giurati hanno fatto finta di non capire. Hanno ripetuto come un mantra: le istituzioni, la Presidenza della Repubblica, il governo delle larghe intese sono una cosa, le vicende giudiziarie di Berlusconi un’altra. Dunque pollice in alto al Berlusconi politico, pollice in basso al Berlusconi condannato.
Capito, Napolitano ha capito, ma ha fatto finta anche lui di non capire. Era di tutta evidenza, infatti, che da uno come Berlusconi non c’è da attendersi nulla se non in cambio di qualcosa. Nessun patto tra l’uno e l’altro; ma sicuramente Napolitano ha capito e ha cavalcato la cosa.
Ma su che cosa Berlusconi fondava la sua fiducia in Napolitano? Che cosa avrebbe potuto fare il Presidente della Repubblica per lui?
Secondo Berlusconi non doveva essere condannato. Come avrebbe fatto Napolitano ad evitargli la condanna sarebbero stati affari suoi. In un paese in cui lo Stato fa trattative perfino con la mafia pur di raggiungere il bene del Paese o di evitargli il peggio, non è capotico pensare che possa anche aggiustare una sentenza in quella zona nascosta degli incontri e delle intese tra poteri dello Stato, in nome della ragion politica. Detto in parole povere il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto convincere i giudici della Cassazione che per il bene del Paese, per non creare ulteriori motivi di incertezza politica e di crisi in un passaggio politico molto delicato, occorreva assolvere Berlusconi.
Senza essere ipocriti – non ce lo consentono le nostre conoscenze storiche e politiche – tanto è possibilissimo. Il punto è che è mancata la volontà politica. Napolitano non se l’è sentita in un momento in cui perfino le condizioni atmosferiche in Italia sono condizionate da Berlusconi.

Ma sarebbe bastata l’assoluzione di frode fiscale a salvare Berlusconi? Non avrebbe compiuto Napolitano un gesto, che gli sarebbe rimasto a disonore, del tutto inutile? Berlusconi oggi è come aggredito da una serie di tumori giudiziari, contro cui non c’è assolutamente nulla da fare. L’assoluzione gli avrebbe dato un altro po’ di tempo, ma nulla più. Né questo tempo gli sarebbe servito ad aggiustare le cose nel Pdl nella prospettiva di un suo ritiro dalla scena politica. Basta riflettere su quello che dice e quello che fa per farsi l’idea di un uomo che non vuole uscire, che non intende “mollare”, quasi che la sua età non fosse già al limite e le sue condizioni giudiziarie non fossero tante e tutte aggressive. Nessun Napolitano potrebbe fare nulla per Berlusconi oggi. Se ne dovrebbero fare una ragione tutti, lui e i suoi sostenitori, alfaniani o lealisti che siano.

Parole chiave: Napolitano Berlusconi Santanché Padellaro governo grazia  panzane

Argomento: La grazia a Berlusconi 

domenica 20 ottobre 2013

Monti, Montezemolo, Passera e i dilettanti della politica


Il berlusconismo ha fatto molte vittime, puntualmente registrate a quell’ufficio brevetti che è la stampa antiberlusconiana. Una tipologia di vittime, però, è sfuggita all’attenta rassegna che iniziò con Montanelli ed è giunta a Travaglio, via Scalfaro, Scalfari e Scalfarotti vari. Sono le vittime degli apprendisti stregoni. Coloro, cioè, che hanno pensato di fare i “Berlusconi”: se è riuscito lui, perché non dovrei riuscire io?  
Tutto iniziò con la discesa in campo del Cavaliere. Pochi credevano al suo successo. S’infrangerà – pensavano – contro gli scogli sui quali cantano le sirene del potere. Invece Berlusconi fu più bravo perfino di Ulisse, che secondo il racconto di Omero, si fece legare dai suoi marinai all’albero della nave per godere del canto senza rimanerne vittima. Berlusconi sentì, si fermò e prese a bordo perfino le sirene. Insomma, sconfisse tutto e tutti e per vent’anni se l’è goduta tenendo in ambasce i suoi nemici, i quali per potergli infliggere qualche colpo hanno dovuto squalificare se stessi e l’istituzione che rappresentavano, vedi alte cariche dello Stato, vedi magistratura.
Berlusconismo significa passare attraverso i cinque stadi dell’uomo ipotizzati dal Verga: da Padron ‘Ntoni Malavoglia all’Uomo di lusso. E va bene che alla fine si rimane vinti: è il destino dell’uomo; e di Berlusconi in quanto uomo.
Il berlusconismo, però, è un fenomeno assai più complesso di quanto non dica la sua confezione, consiste, visto appunto di fuori, nel mettersi in proprio a fare politica da parte di chi politico non è: imprenditori, manager, magistrati, intellettuali. Categorie, queste, che in genere hanno in uggia i “politici di professione” che si muovono nel “teatrino della politica”. Molti hanno tentato di fare lo stesso. Nessuno è riuscito.
Mario Monti, per non sembrare un berlusconiano copione, è disceso in politica dicendo, però, di essere salito; come se bastassero le parole a cambiare le cose, a trasformare la Fossa delle Antille nell’Everest. Ora si è accorto che la mamma aveva ragione a sconsigliarlo di mettersi in politica. Alle prime difficoltà il Professore ha fatto non come un politico avrebbe fatto, ma come in genere fa uno che in politica non sa stare: ha lasciato il suo partito, formato da quattro gatti istruiti e similberlusconiani e se n’è andato, chiamandoli ingrati e traditori. In verità il Professore, nominato da Napolitano Senatore a vita “di scopo”, si era adontato per essere riuscito a malapena alle elezioni di febbraio a raggiungere la soglia per portare qualcuno in Senato. Ma come? – avrà pensato – Berlusconi che in politica “è disceso” è riuscito a prendere ancora una caterva di voti e io, che invece “sono salito”, sono stato così maltrattato? In realtà Berlusconi con la politica è salito davvero, mentre Monti è sceso, altrettanto davvero. In ragione del fiasco elettorale – la politica si è vendicata nei suoi confronti – Monti è finito nello spazio grigio di chi non conta nulla. La vera ragione del suo abbandono sarebbe questa.
Luca Cordero di Montezemolo, altro Berlusconi fallito, ha tagliato la corda prima. Pensava di raggiungere chissà quale vetta con la sua “Italia Futura”. E’ sparito, purtroppo con tutta la sua Ferrari, che da tre anni ormai morde la polvere della Red Bull e della Mercedes.
Ora è la volta di Passera, l’ex ministro montiano, che non volle candidarsi alle elezioni di febbraio, in disaccordo sulle metodologie elettorali da seguire. Già manager di Poste Italiane e gran commis di importanti aziende, ha annunciato di voler scendere in campo. Ha fatto come fece Achille – oggi è giornata di eroi omerici – che decise di scendere in campo dopo la morte dell’amico Patroclo e si mise ad urlare per il dolore e per la rabbia contro i troiani, che secondo Omero si spaventarono assai. Ma in Italia dell’urlo di Passera non si è accorto nessuno. Figurarsi quanto se ne fottono gli italiani di uno che alla fine del 2011 fu posto al governo come si mette un pupazzo nel presepe.
Quel che questi signori, affetti da berlusconite acuta, non vogliono o non sanno capire è che in un sistema democratico i voti li dà il popolo, ossia i milioni di elettori appartenenti a tutte le età da diciotto anni in poi, a tutte le categorie sociali, a tutte le condizioni economiche. I vari Montezemolo, Passera e colleghi possono certamente aspirare a qualche carica importante se a darla è un ristretto numero di persone loro pari, che so, un consiglio di amministrazione, una lobbie bancaria. Ma se a decidere sono gli elettori, quali possibilità hanno? Nessuna.
Questi signori sono digiuni non solo di politica, ma anche di conoscenze storiche e dei fondamentali di sociologia. Non riescono ad uscire dal loro ristretto ambito e pensano di contare nel paese quanto contano nei loro consigli di amministrazione. In questa loro convinzione trovano nei giornali, che sono in gran parte di loro proprietà, lo specchio delle brame della matrigna, di fronte al quale ricevono le risposte che vogliono. 
Berlusconi, checché se ne dica, era un politico prima ancora di scendere in politica. Se ne avesse o meno contezza, è un altro discorso. Era un animale politico con tutte le attrezzature che servivano. A lui non piacerà essere paragonato a Gramsci e sicuramente Gramsci si rivolterà nella tomba se paragonato a lui; ma è gramscismo quando si dice che prima di avere il consenso politico della gente è necessario acculturarla. E che cosa ha fatto Berlusconi? Esattamente questo: quella gente è stata raggiunta e convinta da lui attraverso la cultura televisiva e calcistica, espressa dagli spettacoli della Tv commerciale e della squadra di calcio del Milan. E’ attraverso questo tipo di cultura che Berlusconi è diventato quello che è diventato. Ma i Monti, i Montezemolo, i Passera chi li conosce fuori da quel mondo in cui operano da protagonisti assoluti, senza cioè ricevere approvazione o consenso popolari? Ed essi, che sanno del mondo che è fuori da quei loro confini?
La crisi italiana è certamente economica, in dipendenza anche di crisi internazionali; ma la vera e più grave crisi è la mancanza di una classe politica capace; è l’inadeguatezza di un sistema politico che non consente di esprimere al paese un’élite in grado di governare in maniera stabile ed efficace. Altro che Monti, Montezemolo o Passera! 

Parole chiave:  Monti  Montezemolo  Passera  Berlusconismo

Argomento: Crisi di sistema

giovedì 17 ottobre 2013

Priebke, il negazionismo e altri circenses


Se si chiedesse ad una persona di qualsiasi intelligenza se un morto, chiunque sia stato e qualunque cosa abbia fatto in vita, meriti rispetto e cristiana sepoltura, non avrebbe nessuna difficoltà a rispondere assolutamente sì. Ma se si chiede alla stessa persona, subito dopo, se il morto Eric Priebke, il cosiddetto boia delle Ardeatine, meriti rispetto e cristiana sepoltura, con altrettanta sicurezza risponde assolutamente no.
Se si chiedesse ad un intellettuale, ad uno storico, se si può negare o affermare una verità non sulla base della ricerca e dell’analisi dei fatti ma sulla base di una legge dello stato che impone una risposta istituzionale, risponderebbe con assoluta convinzione di no. Ma se allo stesso storico si chiede se si può negare una verità perché ritenuta lesiva degli ebrei, con altrettanta prontezza risponde di sì e aggiunge: anche perché gli ebrei non possono avere torto!
Dunque,  fra gli uomini non conta la verità, la sincerità, l’intelligenza, la coerenza, la deontologia e quant’altro si acconci in casi del genere, conta la banalità del comune sentire fatto legge, l’interesse immediato della politica, la convenienza di stare nel dominio del pensiero unico.  
Qualcuno potrebbe pensare che il contesto in cui queste ipotizzate persone si pronunciano è una dittatura; invece no, è un paese che si dice democratico, è l’Italia.
Quanto è accaduto coi funerali di Eric Priebke è vergognoso. Nessuno degli indignati per una ventilata messa in suo suffragio è cristiano? Nessuno ha mai letto un verso di Dante Alighieri? Nessuno ha mai sentito il motto latino parce sepulto? E il Papa, il buon Francesco, quello che bacia a tutto spiano, che caracolla come un contadino al termine di una lunga faticosa giornata di lavoro, quello che parla col buon senso di un parroco di campagna, che ama stare con la povera gente che soffre, non ha saputo niente a proposito della morte e dei funerali di Eric Priebke? E se sì, neppure lui, colto – si dice! – gesuita ha mai letto Dante?
“Orribil furon li peccati miei – dice Manfredi nel III del Purgatorio – ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei. / Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia / di me fu messo per Clemente allora, / avesse in Dio  ben letta questa faccia, / l’ossa del corpo mio sarieno ancora / in co del ponte presso a Benevento, / sotto la guardia de la grave mora. / Or le bagna la pioggia e move il vento…”. Sintetizzo: orribili furono i miei peccati, ma la misericordia di Dio è infinita e abbraccia quanti a lei si affidano. Se il vescovo  di Cosenza che mi fu messo alle calcagna da papa Clemente avesse saputo scorgere in Dio questo aspetto, io sarei ancora nella mia tomba. E invece ora il mio corpo è esposto alle ingiurie dell’acqua e del vento…
Manfredi, figlio di Federico II, si riconosceva peccatore; ed altrettanto ha fatto Priebke se è vero che era un cristiano che periodicamente si avvicinava a Dio con la comunione. Tedesco l’uno, tedesco l’altro. Avversato l’uno, avversato l’altro. Francesco come Clemente! Nulla è cambiato. La politica prima di tutto, soprattutto, überalles!   Oltre perfino Dio.
Ora in Italia si apprestano ad introdurre il reato di negazionismo. Non si pensi ad un generico negazionismo. No, ci mancherebbe altro! Se si dicesse: io nego che Mussolini sia stato un grande statista, evviva, si risponderebbe: meriti un premio. Se si dicesse: io nego Dio, la Vergine, i Santi, e chi se ne fotte si risponderebbe. No, il negazionismo non è uguale per tutti. Il negazionismo che si vuole punire è quello che riguarda tutto ciò che in qualche modo, riferentesi alla persecuzione degli ebrei nel corso del secondo conflitto mondiale, si discosti dalla vulgata ebraica. Sicché, addio ricerca storica, addio intelligenza critica, tutto è stato già acclarato e nulla può essere detto contro la riammessa “bestia trionfante”.
Su Priebke c’è poco da aggiungere. Egli stesso ha raccontato davanti a tutti di aver eseguito un ordine in tempo di guerra. Fu un mostro? Dirlo in tempo di pace è la cosa più semplice e più facile di questo mondo. Punì l’attentato di Via Rasella dove furono uccisi in un agguato più di trenta soldati tedeschi, giovanissimi. Se ha un senso chiamarlo boia, è quello politico.
Ma gli italiani dovrebbero sapere, i tanti ignorantissimi italiani dovrebbero sapere che il generale Enrico Cialdini, cui sono intitolate vie, piazze ed elevati monumenti in tutta Italia, eroe del Risorgimento, nel 1861 fece radere al suolo di notte due paesi in provincia di Benevento, Pontelandolfo e Casalduni, massacrando giovani, vecchi, donne e bambini, provocando un migliaio di vittime, paesi ritenuti responsabili dell’agguato e della morte di 41 bersaglieri nel corso di quella guerra, mai riconosciuta come tale, detta lotta al brigantaggio.
Non si ricordano questi tristi episodi per rinfocolare odi, ma semplicemente per ricordare che in guerra c’è una ragione che prescinde dalla volontà del singolo; che la guerra va combattuta per vincerla. Se poi si uccide anche per il piacere di uccidere e non solo o non tanto per senso del dovere è cosa che attiene la coscienza individuale, non facilmente inverabile dagli uomini.
Personalmente ritengo che la persecuzione degli ebrei, come qualsiasi altra persecuzione, esercitata solo per l’appartenenza ad un popolo o ad una razza, è abominevole. Purtroppo nel corso dei millenni e anche in tempi a noi vicini ci sono state persecuzioni orribili, compresa quella degli ebrei, ma anche degli armeni, ma anche dei curdi. C’è poco da negare. Negarlo è da mentecatti. Ma proibirlo per legge è come proibire per legge qualsiasi malattia o disturbo mentale. E’ un obbrobrio tanto grave quanto grave si ritiene sia quello di negare che la persecuzione ci sia stata. La legge sul negazionismo non va contro gli ignoranti e i fanatici che negano ora questo ora quel gravissimo fatto, ma penalizza lo storico, il ricercatore, l’intellettuale che non pone mai limiti alla ricerca della verità. E non li pone per principio e per prassi.

Ci si potrebbe chiedere perché in Italia si introduce questa legge. Un po’ per scimmiottare altri paesi e un po’ per sedare la gente. Il negazionismo rientra tra le tante manifestazioni di buonismo, di propaganda politica. Sono gli illusori risarcimenti per i reali danni che gli italiani subiscono ogni giorno per una politica scellerata che dura da almeno cinquant’anni, per le condizioni di ristrettezza economica in cui vivono, per i tanti arrangiamenti in tutti i settori della vita sociale. Sono dosi di oppio distribuite attraverso divagazioni mediatiche: accoglienza degli immigrati, casi quotidiani di femminicidio, quote rose obbligatorie nelle liste elettorali, continue cerimonie per ricordare eventi emotivamente coinvolgenti, amnistia e indulto per i carcerati, tutto ciò insomma che distrae la gente dai problemi più urgenti e brucianti della vita. Sono i nuovi circenses.     

Parole chiave: Priebke  Negazionismo  Cialdini  Brigantaggio  

Argomento: Propaganda politica      

martedì 15 ottobre 2013

Italia nostra: Identità salentina 2013


Invitato ad un piccolo convegno per ricordare la figura dello studioso Aldo de Bernart di recente scomparso, nell’ambito della manifestazione “Identità salentina”, organizzata da “Italia Nostra – Sezione Sud Salento”, a Parabita, la sera di venerdì 27 settembre, mi è capitato, come spesso accade, di dovermi sorbire una caterva di interventi, relativi all’agricoltura e all’ambiente, che facevano parte dei preliminari della serata. Per fortuna tutti molto interessanti e direi qualificati, da quello d’apertura di Marcello Seclì, Presidente di “Italia Nostra – Sud Salento”, a tutti gli altri, del Sindaco di Parabita Alfredo Cacciapaglia, del Direttore generale dell’Anbi Puglia Anna Chiumeo, dell’Assessore provinciale all’Agricoltura Francesco Pacella, del Prefetto di Lecce Giuliana Perrotta, di Mario Capasso dell’Università del Salento delegato ai musei dell’ateneo leccese. Preciso che Anbi vuol dire Associazione nazionale bonifiche irrigazioni. Giusto per far capire la competenza e l’autorevolezza dell’ospite invitata a relazionare.
La costante dei vari interventi è stata l’educazione del cittadino al rispetto dell’ambiente. Se il cittadino non capisce che danneggiare l’ambiente significa danneggiare se stesso e gli altri diventa problematico che glielo faccia capire il poliziotto o l’autorità in generale. L’esempio da tutti citato, non senza preoccupazione e allarme, è stata la malattia che incomincia a falcidiare gli ulivi, che – mi è parso di capire – è attribuita alle discariche nelle campagne di rifiuti nocivi per l’ambiente e le colture, in particolare gli pneumatici, spesso scaricati lungo i muretti a secco dei fondi agricoli, a volte all’esterno, altre volte all’interno. Nessuno ha spiegato come facciano gli pneumatici a far seccare gli alberi di ulivo. Forse non si vuole ammettere che è l’inquinamento dell’aria ad essere nocivo alla salute di tutto ciò che vive sulla superficie di questo nostro Salento, dalle palme agli agrumi, dai fichi ai fichidindia, agli ulivi, per citare le colture più tipiche. 
Ora, il problema è serio, molto serio, specialmente se dalle colture passiamo agli uomini e constatiamo che il tasso di mortalità per tumori qui nell’area jonico-salentina è tra i  più alti d’Italia. Se non bastasse il disturbo di vedere il paesaggio offeso dai rifiuti sversati o scaricati nelle campagne e nelle periferie, dovrebbe perciò farci riflettere la nostra salute.
Forse, a come son giunte le cose, bisognerebbe che al buon senso dei cittadini più sensibili subentrasse la determinazione dello Stato a difendere con tutti i suoi mezzi ciò che il cittadino non sa, non vuole o non può difendere da sé.
E’ ancora tempo di auspicare che il cittadino si ravveda? Non lo so. Noi dobbiamo sperare di avere quanto prima la coscienza civica che in Europa altri popoli già avevano cinquant’anni fa? E’ disperante.
Ho avuto la fortuna di passare due anni della mia vita a Berna, in Svizzera, e di frequentare la scuola pubblica; anni di particolare importanza formativa, tra i quindici e i diciassette anni. Bene, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, i cittadini svizzeri erano quello che noi auspichiamo che diventino i nostri fra qualche anno. Da non credere!
Diceva il Prefetto che ogni cittadino deve essere vigile di se stesso e non aspettare che lo Stato, l’autorità in generale faccia quello che egli è in grado di fare da sé. Giusto! Io ricordo che a Berna ogni cittadino era il poliziotto di se stesso; e ogni poliziotto era il cittadino di se stesso. Cosa voglio dire? Che il cittadino non faceva nulla che il poliziotto che era in lui gli proibiva; ma era altrettanto vero che ogni poliziotto chiamato per intervenire anche da una telefonata di un privato cittadino lo faceva immediatamente. Qui non accade né che il cittadino vigili da sé né che lo faccia il poliziotto, benché chiamato a intervenire.
E’ una questione di educazione? Probabilmente sì. Ma allora dobbiamo ammettere che la nostra scuola non ha fatto nulla per educare il cittadino al rispetto dell’ambiente. Se prendo il mio manualetto di educazione civica dell’a. s. 1958-59, “Cittadini di domani”, Guida di Educazione civica ad uso del primo biennio dei corsi superiori (Ginnasio e classi di collegamento), di F. Montanari e G. Nosengo, dell’editore Le Monnier di Firenze, scopro che non c’è il minimo riferimento all’ambiente. Si parla di tutto e di più, ma in astratto; nulla che possa far pensare che c’è un ambiente da salvaguardare.
In quegli stessi anni in Svizzera, a scuola, il rispetto dell’ambiente non lo si insegnava, non ce n’era bisogno, lo si esercitava in concreto, con la raccolta differenziata della carta, col non buttare nulla per terra, né l’involucro di un cioccolatino né la buccia di banana o di arancia; il patrimonio pubblico, monumenti, aiuole, piante non andavano danneggiati; per strada non si doveva giocare né a pallone né ad altri giochi; i segnali stradali andavano rispettati qualunque fosse il mezzo di trasporto con cui ci si muoveva, anche il monopattino – ce n’erano di bellissimi, con le ruote gonfiabili – perfino a piedi. Per strada si doveva camminare come si deve, in maniera ordinata, negli spazi prescritti; non si doveva né cantare né tanto meno urlare; non si poteva correre né tanto meno rincorrersi.
Quel tipo di educazione faceva parte del modo di essere, di stare, di agire del cittadino fin dall’età scolare. Diciamo la verità: un simile comportamento è oggi osservato in Italia? Nemmeno per sogno. Il disordine regna sovrano. Non solo i ragazzi si comportano come animali allo stato brado, in bicicletta vanno contromano e spesso controsenso, sui marciapiedi, scartano il gelato e la carta la buttano senz’altro, urlano e si rincorrono per strada, fanno quello che l’istinto suggerisce loro in un dato momento. Questi cittadini, oggi bambini, da grandi si comporteranno diversamente? No, faranno esattamente quello che riterranno più opportuno per il loro piacere o interesse, poco curandosi di rispetto dell’ambiente, del paesaggio, del bene comune. Lo si vede da come conducono i cani a fare i loro bisogni per strada, nonostante un fottìo di leggi che dovrebbe sanzionarlo.
Nel mio citato manualetto di educazione civica c’è un paragrafo intitolato “Il bene comune”. Si legge: «Fondamento dell’interesse generale è il bene comune; il bene comune è quell’insieme di cose, o meglio, quell’ordine di cose che mi permette di vivere con il massimo di libertà e di sicurezza possibile. Ma che non ci potrebbe essere per me, se non ci fosse per tutti». Come definizione potrebbe pure andar bene, ma è e resta decisamente astratta, priva di qualsiasi – dico qualsiasi – riferimento a cose e fatti concreti. E le conseguenze si vedono.

Parole chiave:  Italia nostra   Identità salentina   Cittadino   Ambiente  Aldo de Bernart

Argomento: Educazione ambientale

domenica 13 ottobre 2013

Vendola lasci la Regione e pensi al partito


Un sondaggio di TeleRama chiede ai pugliesi se sono o meno d’accordo per un terzo mandato di Vendola alla presidenza della Regione Puglia. E’ probabile che i pugliesi siano favorevoli. Le domande poste nei sondaggi non lasciano spazio a ragionamenti critici: o si dice sì o si dice no. Il che falsa il problema, perché dire no ad un terzo mandato alla regione equivarrebbe ad una bocciatura, anche quando quel no sarebbe una promozione a qualcosa di più importante, che però nel quesito non compare.  Chi vuole bene a Vendola è tentato di dire sì ad un terzo e magari ad un quarto mandato. Se poi quel bene emotivo è precone di un bene concreto è da dimostrare.
Personalmente ritengo che le due cose, presidenza alla regione e impegno nazionale, non vadano bene, perché, checché dicano i politofobi che denigrano la politica dalla mattina alla sera – qualche volta mi ci metto pure io – essa resta la più importante e la meno sostituibile delle attività pubbliche della persona; e se esercitata come si deve non consente distrazioni o sovrapposizioni. Dunque, la penso così: Vendola o presidente della regione o leader nazionale di partito.
Questo secondo mandato di Vendola, che scadrà di qui a due anni, non ha fatto registrare grandi cose. Soprattutto l’impegno profuso nella politica nazionale lo ha distolto dai problemi amministrativi regionali, relegandoli ad attività secondaria. Se pure non fosse stato così, così è apparso, così è stato recepito; e in politica conta molto quello che appare. E’ mancato l’entusiasmo del primo mandato; le realizzazioni, l’ottimismo, il coraggio di fare delle cose diverse, nuove. E’ mancata la sfida. La vicenda della sanità, dalla quale Vendola è stato più che sfiorato sul piano giudiziario; la questione gravissima dell’Ilva di Taranto, che non può non riguardare anche il suo ruolo di vigilanza e di garanzia del rispetto delle norme in fatto di ambiente e di salute, ne hanno appannato l’immagine. Non è stato senza significato quel suo temporeggiare e tentennare sulla via da scegliere dopo le Politiche del 24-25 febbraio se optare per la Camera e impegnarsi per la Nazione o rimanere alla Regione per altri due anni e continuare l’opera amministrativa iniziata. La soluzione delle “larghe intese”, anche se precaria, ha di fatto messo fuori gioco il partito di Vendola e in qualche modo ha congelato la dialettica  politica nazionale, concedendo al leader di Sel un po’ di tempo.
Nella prospettiva di nuove elezioni, un terzo mandato alla regione sarebbe per Vendola francamente un après saison inutile e forse anche dannoso, perché peraltro lo sottrarrebbe ad un impegno pieno al dibattito politico nazionale. Come dire? Vendola a Bari ha fatto il suo tempo.
Sarebbe importante, invece, il suo ruolo nella politica nazionale. Il contributo che lui può dare allo schieramento di centrosinistra può essere importante per il ripristino del bipartitismo, che sarebbe un chiarimento importante per il paese sotto il profilo politico.
Egli ha più di chiunque altro a sinistra la possibilità di contendere a Grillo e al Movimento 5 Stelle quell’elettorato che nelle ultime elezioni ha trasmigrato in maniera massiccia e se vogliamo sconsiderata sia dal Pd e sinistra in generale che dal Pdl. Così come a destra lo stesso ruolo potrebbe averlo il partito che si sta strutturando con la Meloni e Alemanno.
Quanto stanno dimostrando Grillo e grillini non va oltre un dilettantismo, che per la consistenza che ha, è davvero nocivo al paese, mortificante a tratti per le persone che lo esprimono. Se una parte di quei milioni di elettori si fosse espressa con maggiore serenità, senza abbandonarsi alla nevrosi dell’antipolitica, oggi avremmo un governo diverso, una situazione politica meno precaria e meno confusa.
Vendola rappresenta oggi il leader, forse l’unico rimasto, delle tante sinistre che fino all’era Prodi hanno avuto un ruolo anche decisivo, il più attendibile sulla piazza. Oggi non si tratta più neppure di cespugli, come una volta erano detti i tanti partitini sotto la quercia di Occhetto o l’ulivo di Prodi, ma di persone singole in cerca di una casa politica e di un ruolo. La casa e il ruolo glieli può dare Vendola, che ha saputo col suo partito “Sinistra Ecologia e Libertà” ridare fiato a tutto un universo che dai Verdi andava ai Comunisti Italiani. Vendola, insomma, è l’unico che col suo carisma può recuperare i voti allontanatisi dal loro sito naturale e finiti in gran parte nel movimento di Grillo, per restituire al centrosinistra una componente più robusta a lato del Pd. Una sorta di valenzino, che era quel secondo cavallo che si attaccava a lato del cavallo centrale per fargli mantenere meglio la strada e aiutarlo a tirare. Metafora per dire che il centrosinistra ha bisogno di un riequilibratore a sinistra, senza cui varrebbe meno di un qualsiasi grigio centrodestra. Così come nel centrodestra, senza un valenzino riequilibratore, qualsiasi governo varrebbe meno di un governo balneare come si chiamavano certi governi in era democristiana.
Oggi a sinistra non ci sono più i partiti che c’erano una volta; ma è rimasto l’elettorato, che si esprime e si propone in forme ribellistiche e anarcoidi di protesta episodica, stabilendo spontanee e improbabili colleganze tra di loro, come accade coi No Tav a Nord e i No Tap a Sud. Tra i compiti della politica  c’è stato e resta ancora oggi  quello di organizzare le proteste dei cittadini elettori e incanalarle in un progetto organico. Ciò che solo i partiti possono fare. Questo compito Vendola lo può svolgere a sinistra. Così come a destra potrebbe svolgerlo Fratelli d’Italia o Nuova Italia.

Ecco perché al sondaggio di TeleRama conviene dire no al terzo mandato regionale per Vendola e augurarsi che egli possa dare un contributo di chiarezza e di organizzazione al quadro politico nazionale.

Parole chiave: Vendola  Regione  Sel  Bipartitismo

Argomento: Candidatura Puglia 2015 

giovedì 10 ottobre 2013

Il Pdl è una brocca rotta. Alfano deve lasciare


La cancellazione del reato di immigrazione clandestina è un fatto molto grave, tanto più che tale reato esiste in molti paesi d’Europa, del nostro non meno civili; anzi. L’Italia diventa terra di tutti. Si può immaginare cosa sarà il nostro Paese di qui a qualche anno.
Così vuole Allah-Napolitano, così vuole il suo profeta Maometto-Letta. In buona sostanza quello che era un governo di larghe intese tra centrodestra e centrosinistra è diventato il governo del prefisso “centro”, una sorta di regime assembleare dove basta un emendamento proposto da un grillino perché si formi in aula una variabile di maggioranza; dove la Presidente della Camera è una Vispa Teresa, che enuncia ciò che è reato e ciò che non lo è. Vigente la legge del reato di immigrazione clandestina, chi aiuta immigrati clandestini ad entrare in Italia commette un reato di favoreggiamento. In un paese serio la terza carica dello Stato non si permette di fare apologia di reato o addirittura istiga a compierlo. In un paese serio il Presidente del Consiglio non grida vergogna contro i magistrati che inquisiscono chi commette dei reati, come ha fatto Letta contro i magistrati che hanno inquisito i superstiti del barcone affondato, che sempre immigrati clandestini erano. A chi si appella alla Costituzione per giustificarsi occorre ricordare che essa è della Repubblica Italiana e non dell’orbe terracqueo. Sarebbe inutile avere una Costituzione nazionale se bastasse la Dichiarazione Universale dei Diritti.  
I cittadini che hanno votato centrodestra chiedono: era nelle intese del governo abolire il reato di immigrazione clandestina?
Ora il Parlamento si appresta a tradurre in legge l’indulto e l’amnistia, secondo voluntate del Presidente Napolitano, per svuotare le carceri italiane, che restano una vergogna secondo il radicale Pannella come una vergogna erano quelle borboniche di centosessanta anni fa, secondo la denuncia dell’inglese Gladstone. Il provvedimento rientra in una campagna di buonismo diffuso allo scopo di far recuperare alla classe politica, sputtanata fino all’inverosimile, un minimo di reputazione. Il provvedimento non serve a niente, come non sono serviti a niente i precedenti similari provvedimenti. Dopo qualche mese la maggior parte dei detenuti scarcerati tornano dentro perché fuori altro non possono fare che delinquere.
Ma i cittadini che hanno votato centrodestra chiedono: indulto e amnistia erano nelle intese del governo?
Già, ma a chi lo chiedono? Il Pdl è una brocca rotta, i cui cocci sono tenuti insieme dalla saliva ministeriale, mentre continua a perdere contenuti. Il più importante è la sicurezza dei cittadini, esposti ai rischi di una ora legalissima invasione di stranieri e da un’altrettanto legale evasione carceraria di migliaia di detenuti.
Questo governo pensa ed opera secondo una cultura estranea alla destra: legge sull’omofobia, sul femminicidio, sull’immigrazione, sull’amnistia e Dio sa su quanto altro. Non che la destra sia contraria ad intervenire su simili criticità sociali, ma ha da sempre punti di vista diversi, per così dire meno calibrati sull’individuo e più sul sociale, meno sul singolo e più sull’insieme, meno di superficie e più di profondità.
Ci sono ottime probabilità che a conclusione di questo governo i cittadini di centrodestra non abbiano più nulla di cui preoccuparsi, nulla che li possa indurre a votare centrodestra. Ah, ci sarebbero le tasse. Alfano alza la voce per non far sentire il sottofondo del rumore fatto dall’immigrazione clandestina e dalla scarcerazione dei detenuti e dice: noi siamo i guardiani che impediscono l’aumento delle tasse. Questa è una presa in giro dei cittadini. A nessuno è lecito mancare di rispetto alla gente con fandonie simili come quella delle tasse. Le tasse sono aumentate ed aumenteranno perché il paese è come un malato che ha bisogno di dosi sempre più massicce di cortisone, che notoriamente ha effetti collaterali gravissimi.
Si possono anche capire certe cose, ma vanno dette e spiegate, non taciute, non nascoste, non mistificate.
I cittadini che hanno votato centrodestra non sono più rappresentati. Questo è il punto. E di questo si dovrebbero preoccupare i responsabili del partito. Se ce ne sono ancora o se c’è ancora il partito.
Mettiamo pure che il partito, malconcio malconcio, ci sia ancora. Allora in previsione che Berlusconi, costretto ai servizi sociali, non sarà più in grado di dirigerne la politica, lo dovrà fare qualcuno in sua vece. Questo qualcuno non potrà essere Alfano, sia perché è dimostrato che non è più lui, dopo lo strappo, l’interprete della maggioranza del partito, sia perché ha fatto una scelta, che è quella di rimanere al governo come vice premier e ministro dell’interno. Non è possibile che lui continui ad essere segretario di un partito, che nello stesso tempo faccia politica e stia nel governo, stia cioè nel legislativo e nell’esecutivo. Sono due poteri che devono stare separati e non confusi nella stessa persona. A prescindere dalla crisi contingente, è un principio basilare dello Stato di diritto, dello Stato di democrazia. Fitto ha ragione nel chiedere l’azzeramento delle cariche e il Congresso. Ma forse basterebbe che Berlusconi si facesse restituire da Alfano la carica di segretario del Pdl, visto che questi non ha avuto finora la sensibilità o il dovere di farlo spontaneamente.

Parole chiave:  Letta Alfano  Berlusconi  Immigrazione  Amnistia Governo


Argomento:  Crisi del Pdl

mercoledì 9 ottobre 2013

Dramma di Lampedusa: dolore sì vergogna no


A volte si ha l’impressione di non riuscire a comprendere il mondo che ci circonda, anche nelle sue manifestazioni più banali.  
Da alcuni anni le coste italiane sono la meta agognata di migliaia e migliaia di profughi africani e asiatici. L’isola di Lampedusa è diventata un simbolo planetario. Si vorrebbe che le fosse assegnato il Nobel della Pace. Migliaia di profughi riescono a raggiungere le nostre coste, altre migliaia  finiscono inghiottiti dalle acque del Mediterraneo, autentico cimitero per tanti poveri disgraziati. Secondo le stime di Fortress Europe sarebbero circa 6.200 le vittime di naufragi nel Canale di Sicilia dal 1994.
L’ultima tragedia, con centinaia di morti, verificatasi il 3 ottobre, ha riproposto il problema in una dimensione diversa, corrispondente alla portata del disastro; una tragedia che per i tempi in cui si è svolta ha dato da pensare di più delle precedenti. Ma nulla ha aggiunto alla gravità di un fenomeno che dura ormai da vent’anni.
Siamo di fronte ad un esodo senza precedenti in epoca contemporanea. Che fare? Il Presidente del Consiglio Letta e il suo vice Alfano hanno ribadito che le nostre coste sono sì italiane ma anche, in quanto tali, europee, dato che facciamo parte dell’Europa; dunque è l’Europa che si deve fare carico del problema. Lasciamo stare le parole di circostanza, “vergogna”, “orrore” e chi più e meglio ha potuto dire, più e meglio ha detto. Le parole nascondono l’incapacità di affrontare il problema nei modi e nei termini più concreti. Le parole “vergogna” e “orrore” valgono né più né meno di “non vogliamo o non possiamo fare nulla”. E tuttavia queste sono preferite ad una onesta dichiarazione di impotenza.
Mi sono chiesto in questi giorni, più volte, ascoltando il Papa, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, ma se non riesco a vergognarmi, sono proprio un caso disperato di insensibilità? Devo perciò preoccuparmi? Poi, ho ragionato. Mi son detto: lasciamo stare, questa gente recita a soggetto. Lo fa per mestiere. In greco antico gli ipocriti erano gli attori.
L’Europa ha semplicemente calcolato il fenomeno e ha stabilito senza nemmeno farlo con convegni e atti approvati di gestire il fenomeno in maniera spontaneistica, con un pizzico di cinico laissez faire, nella migliore tradizione del vecchio continente. Ogni paese alle prese con gli sbarchi se la veda da solo. Se è capace di fronteggiarlo con successo, ben gli sta; e se no, mal gli sta. Ognuno pensi da sé e per sé. Del resto in Europa arrivano dall’Asia migliaia e migliaia di profughi o di clandestini dai paesi dell’Est attraverso le frontiere di Germania, Polonia e regioni balcaniche.
Per quel che ci riguarda nessuno in Europa si preoccupa quanto meno di contenere o di ridurre il fenomeno con una più attenta e opportuna informazione. Nessuno ha il coraggio, per esempio, di attivare mezzi e modi di informazione per scoraggiare tanta gente ad avventurarsi in mare e raggiungere paesi che non sono quelli della loro immaginazione. Al contrario, accade che un malinteso senso della globalizzazione o di solidarietà, saputo propagandare, incoraggia questa gente a venire. In questo modo si alimenta la criminalità degli organizzatori dei viaggi e si espone questa povera gente ad ogni rischio, compreso quello di morte.
Se la politica dell’Europa non fosse alla me ne fotto, allora dovrebbe procedere in un’altra maniera. Chiedersi preliminarmente se è giusto che tanti abitanti dell’Africa e dell’Asia vengano in Europa, senza che rischino la vita, senza che noi per questo ci dobbiamo vergognare. Se sì, allora mandiamo in alcuni scali africani o del Medio Oriente le nostre navi e stabiliamo un servizio di linea per svuotare il continente africano dei suoi abitanti e riempire con gli stessi quello europeo; costruiamo centri di accoglienza moderni e confortevoli; assicuriamo loro un posto di lavoro, servizi ed ogni altro bene. Se non possiamo far questo – ed è di tutta evidenza che coi problemi che abbiamo, non possiamo farlo – è inutile parlare di vergogna e di orrore.
Ancora, se si vuole impedire lo svuotamento dell’Africa e il sovraffollamento dell’Europa, fenomeni che comporterebbero disastri inimmaginabili,  chiediamoci perché questa gente lascia o fugge dalla sua terra. Se alla domanda rispondiamo: per fame, per guerre, in cerca di un mondo migliore – come effettivamente è - allora dobbiamo procedere di conseguenza, affrontare il problema alla radice. Così come noi europei nei secoli scorsi abbiamo colonizzato i loro paesi per sfruttarli, allo stesso modo torniamo oggi per neocolonizzarli, questa volta per restituire loro quel che abbiamo preso. Si sensibilizzino inglesi, francesi, belgi, spagnoli, portoghesi, che si sono arricchiti sfruttando le colonie, invece di rimanere indifferenti ed estranei al fenomeno, come se non li riguardasse, perché sono più lontani. Tornare noi europei nei loro paesi significa dover mettere fine alle loro stupide e ferocissime guerre, tribali e selvagge; e poi costruire le premesse per avere in loco condizioni di vita basate sull’ordine e sul benessere, magari sotto la guida dei nostri esperti e sotto la protezione delle nostre forze armate. Dico nostre per dire sempre europee. Se neppure questo è nelle possibilità o volontà dell’Europa, allora smettiamola di esibire la nostra millenaria capacità di piangere con un occhio e di strizzare con l’altro.
Noi italiani non abbiamo nulla di  cui vergognarci. Da anni accogliamo quanti si presentano sulle nostre coste. Lo facciamo alla meglio, perché diversamente non siamo in grado di fare. Se la vergogna è un sentimento personale, intimo, allora è un altro discorso. Ad ognuno capita, mangiando o stando al caldo, di provare un senso di dispiacere per chi in quel momento sta soffrendo la fame e il freddo. E’ umano che ognuno di noi di fronte a qualsiasi sofferenza altrui si senta stringere il cuore. Vorrebbe fare qualcosa. Ma se può fare poco o nulla, non si vergogna, semplicemente si dispiace.

Parole chiave:  Lampedusa   naufragi   Europa   vergogna

Argomento: immigrazione clandestina

domenica 6 ottobre 2013

Berlusconi tradito e traditore


Quando Berlusconi mercoledì, 2 ottobre, dal suo scanno di Palazzo Madama ha dichiarato la fiducia al governo Letta, che lui stesso solo qualche giorno prima aveva messo in crisi, mi è balzata plasticamente agli occhi l’immagine del povero Friedrich Nietzsche, che, affetto da una gravissima forma di schizofrenia, si prendeva la cacca che gli usciva dalle viscere e se la spalmava addosso. Che altro pensare  di uno che si unisce a quanti lo hanno tradito e fa con essi un tutt’uno?    
Da osservatore politico dovrei plaudire ai tanti, Alfano e Cicchitto in testa, che finalmente hanno preso le distanze da un uomo che ormai era un cadavere politico e non voleva rendersene conto; e plaudo senz’altro. Ma da elettore del centrodestra, assai critico in verità, avrei voluto che la vicenda finisse diversamente. Per esempio, con una soluzione che salvasse le cose reali del paese e la dignità di tutti, compresi i milioni di elettori che in questi anni hanno votato il centrodestra e che avrebbero meritato ben altro rispetto.
E’ finita, per un verso, con delle persone che hanno tradito non solo e non tanto il loro capo, senza il quale difficilmente si sarebbero trovate nei posti di prestigio e di potere in cui si trovavano e si trovano, ma anche il popolo che li ha votati. Il fine nobile o utile del tradimento non riabilita mai il gesto compiuto, in sé abominevole. Chi dice che in politica non ha senso parlare di tradimento è in genere il traditore che si autoassolve.
E’ finita, per un altro verso, con il tradito che si è fatto traditore di se stesso e degli altri, dei tanti altri che hanno avuto, comunque sia, fiducia in lui. Due volte tradito, a questo punto, è solo il popolo del centrodestra.
“Il Fatto quotidiano”, il giornale delle lingue di spada, ha titolato a tutta pagina l’edizione di giovedì 3 ottobre, “Buffonata”. La stessa parola che mi è venuto di sbottare appena ho visto e sentito Berlusconi passarsi la cacca del tradimento addosso come se si passasse il dopobarba sulla faccia. Buffonata! Se nonché Berlusconi, come Nietzsche, ha compiuto il gesto che ha compiuto senza averne consapevolezza critica; in altri termini, come dicono gli avvocati, non era compos sui.
Berlusconi ha molti meriti e molte colpe, ha avuto molti premi ma anche molte batoste. Ora è annientato. Non sa più quel che fa e quel che dice, dovrebbe essere difeso da se stesso. Capacissimo a difendersi dagli altri, non riesce a difendersi da se stesso. Le batoste lo hanno rimbambito. Capita!
Troppe cose si possono dire di Berlusconi, cose brutte e oscene; qualcuna anche commendevole.
Mi piace soffermarmi sul Berlusconi che è tra i massimi contribuenti in Italia. Ce ne fossero stati altri Berlusconi! Ce ne fossero! Forse staremmo meglio dei tedeschi senza avere bisogno di una Merkel. Il messaggio, però, che è passato in questi vent’anni ed è giunto finalmente a destinazione è per un verso che un produttore di ricchezza può permettersi di vivere al di fuori e al di sopra delle leggi (pro-Berlusconi), per un altro che son guai seri per chi cercando di arricchire se stesso arricchisce anche il Paese, per chi arricchendo se stesso fa lavorare e vivere dignitosamente migliaia e migliaia di persone e di famiglie, che un soggetto simile deve essere annientato (anti-Berlusconi). L’odio che si è scatenato contro di lui – forse meritava il disprezzo per i suoi comportamenti, ma l’odio no, è un’altra cosa – dimostra come in questo paese c’è posto per mafiosi e camorristi – uno ne catturi e sette ne escono, come le teste dell’idra di Lerna – ma non c’è posto se non a rischio perfino dell’incolumità fisica per chi costruisce qualcosa, per chi produce per sé e per il proprio Paese. I due messaggi sono esiziali per la persona e per la società.
Ora resta la questione politica. I sostenitori di Enrico Letta, giunti ad osannarlo come tifosi di una squadra di calcio, danno per scontato che il suo governo marcerà in maniera più spedita, senza condizionamenti, senza il rischio di mettere il piede in qualche buca, e durerà fino al 2015. Non sono così entusiasta e così tifoso. Penso che non avrà vita facile e che potrebbe pure non arrivare al panettone del prossimo Natale. I problemi che ha di fronte fanno tremare le vene e i polsi.
Da dove nasce tanta fiducia nei commentatori politici del “Corriere della Sera”, che ha tifato e tifa per i moderati in maniera assai più efficace di quanto non facciano gli ultras delle curve? Non si capisce o per lo meno, con un piccolo sforzo – non sono poi così complicati! – li si può capire. Sono espressione delle banche e dell’alta finanza, che, ancor peggio di prima, ora sono collegate con le lobby europee.
All’occorrenza dicono che non ci sono i poteri forti, che sono un’invenzione dei frustrati. Plaudono a Letta; ma plaudono soprattutto a Napolitano, che – almeno su questo siamo tutti d’accordo – è il puparo della situazione. Per tornare alla metafora calcistica, i tifosi di Letta non credono nelle sue doti, credono nell’arbitro: un rigore qua, un gol subito negato, un altro concesso in fuorigioco; insomma sappiamo come funzionano le cose dei già forti.
Letta, nel suo discorso con cui chiedeva il voto di fiducia, ha elencato un sacco di cose di cui nessuno in questi cinque mesi si è accorto. Ha partecipato a quattro o cinque vertici internazionali. E beh, quali sarebbero i suoi meriti, l’avervi partecipato? Davvero dobbiamo fare salti di gioia perché è passata una legge che parifica tutti i figli abolendo le diverse categorie di legittimi, naturali e adottivi? Via, qualora ne facessero una per omologarci tutti figli di puttana o tutti figli dello spirito santo, aumenterebbero forse i posti di lavoro? Crescerebbe il prodotto interno lordo? Diminuirebbe il debito pubblico? Scenderebbe lo spread? Aumenterebbe la pensione? Non scherziamo. Soprattutto non si faccia passare per cibi altamente proteici cose, che, pur con la loro importanza morale, restano marginali; spille di lusso sul petto di poveri cristi.
Da cittadini bisognosi – ormai siamo prossimi in milioni alle soglie della povertà – ci auguriamo che Letta con la sua nuova maggioranza riesca a non farci sentire più freddo di prima, a non farci sentire più fame e più sete di prima, a non farci pagare più tasse di prima, a non farci bestemmiare e imprecare contro il governo se, avendo bisogno di una visita specialistica, dobbiamo aspettare qualche anno, e avendo bisogno del ricovero in ospedale, ci sentiamo dire che non c’è posto neppure in corsia. Purtroppo paventiamo che le cose si metteranno peggio di come sono andate finora. Con buona pace dei corrieristi della sera e dei carrieristi del giorno.