domenica 30 ottobre 2016

Renzi e l'incredibile Italia dei furbi e dei fessi


Renzi finirà per cuocersi nel suo brodo. Lo sta così allungando che alla fine resterà a galla lesso. Ce ne sono stati altri, peggio e meglio di lui che hanno fatto quella fine. Ce ne sono altri con lui.
Non parla che per slogan, per frasi fatte, per giochi di parole, per bugie neppure tanto imbellettate. I suoi sostenitori, a furia di ripetere le stesse cose, hanno il volto catatonico. Guardate la Boschi! Solo qualche mese fa era bellissima, la più amata dagli italiani; oggi sembra una statua di cartapesta, inespressiva, statica, catatonica appunto!
Parafrasando Plinio il Giovane, che disse “sono tanto abituato a dire la verità, quanto voi ad ascoltarla”, Renzi dà l’idea di uno che è tanto abituato a dire bugie quanto gli altri ad ascoltarle.
Un po’ non ha torto e per questo non tradisce il benché minimo disagio morale; sa che il mercato politico domanda bugie e lui bugie offre. Basta fare mente locale su tante persone che, pur giudicando negativamente la riforma, votano Sì. Per dare un messaggio di cambiamento, dicono. Ma quale cambiamento? Quello di mettere fuoco alla casa che brucia? Via! E’ frustrante sentire persone di indiscutibile valore appiattirsi sulle baggianate di un furbetto impunito. Non si tratta di gentucola, si tratta di personaggi come il filosofo Massimo Cacciari e l’architetto Massimiliano Fuksas, quello della Nuvola.
Questa è l’Italia! Dei furbi e dei fessi; dei furbi sempre più furbi, dei fessi sempre più fessi. E se quelli che per natura e cultura fessi non sono ma si comportano come tali, i fessi-fessi che devono fare?
Come non dare ragione a Renzi, allora, anche quando si compiace delle performance burlesche? Dalla sceneggiata americana con Obama alla copertina della rivista musicale “Rolling Stones”, in atteggiamento papale, attraverso tutte le reti televisive, non fa che propaganda, continua, pervasiva, asfissiante. Perfino le disgrazie naturali, come i terremoti nel centro Italia, sembrano andare in suo soccorso; e lui le accoglie come manna dal cielo. Salta da un paese terremotato all’altro a portare la presenza del governo, ovvero la sua.
Anche quando si confronta per il voto referendario, con chiunque parli, non deflette: spara minchiate senza ritegno. Sa che dietro di sé ha la grande caterva di idioti che ripetono come pappagalli il mantra della riforma: non riduce la democrazia ma la burocrazia, si taglia il costo della politica, si risparmiano cinquecento milioni di euro, si abbatte il sistema bicamerale paritario, si snellisce la procedura delle leggi, altri non sono riusciti mai a farla la riforma e noi invece l’abbiamo fatta, e via di questo passo, senza mai entrare nel merito della questione. A De Mita è giunto a dire che non ha il diritto di impedire finalmente la riforma di un’Italia che i tipi come lui hanno portato alla rovina. Ha detto proprio così: non avete il diritto!
I grillini, che sul piano delle sparate grosse non scherzano, hanno detto: vogliamo ridurre davvero i costi della politica? Dimezziamo gli stipendi dei parlamentari! La risposta? …per rispondere, dovrei scomodare un organo di letto e di diletto. Dico che non s’è fatto niente alla Camera, perché su certe cose si può fare anche propaganda ma fino a quando non diventano serie. In Italia basterebbe non rubare e poi si potrebbero pure strapagare i politici, perché la politica, come sa chi la fa seriamente, ha i suoi costi.
Certo, non si può fare politica seria da pellegrini o da turisti, come purtroppo se ne vedono tanti in giro tra i palazzi romani, che sembrano sempre come appena scesi dal pullman e si si apprestano a visitare la città. Allora a quelli non si tratta di dimezzare gli stipendi, ma di mandarli a casa e stare bene attenti alle elezioni prossime a non sceglierne di simili.
Ora, io non dico che nella riforma renziana della Costituzione non ci siano aspetti condivisibili – ci sono! – dico che non vengono spiegati razionalmente. Dico che i sostenitori del Sì si rifiutano di dare risposte ragionate alle obiezioni dei sostenitori del No. Per quale ragione se non perché neppure loro hanno le idee chiare o ce l’hanno fino al punto da non dirle perché sarebbe controproducente? 
Con mezza bocca dicono che quale che sia la risposta referendaria non accadrà nessuna catastrofe; e con l’altra mezza sparano biblici disastri. Dire che se non passa il Sì l’Italia non avrà più riforme, è una grandissima stronzata, che offende chi ha un minimo di intelligenza. Perfino un bambino delle materne impara e sa che dopo il lunedì viene il martedì; c’è sempre un giorno dopo, che è come dire che la storia continua. Con Renzi e senza Renzi, si capisce!
L’apparizione in video di questo onnipresente non scandalizza più nessuno. Ai tempi di Berlusconi, al Cavaliere contavano i minuti secondi di televisione Oggi neppure si accorgono che cambiando canale nel giro di pochi minuti si ritrovano sempre con la faccia del furbetto fiorentino a pontificare su tutto. Sembra che parli sempre a rete unificate. Se mancava un riscontro di quanto gli italiani siano per il consenso a chi comanda, eccone la prova.

Per stare sempre sui media si è perfino inventato la “lotta continua” con l’Europa e con gli europei. Non c’è giorno che non spari a zero sulla Commissione europea o su qualche leader di altra nazione, ora per i migranti ora per la flessibilità. E per tenere dalla sua parte la pancia del paese assume toni da nazionalista. Provoca frizione all’esterno per tenere buono l’interno. Un vecchio trucco della politica. Renzi probabilmente sa poco o nulla di storia, ma è un politico d’istinto e riesce anche a dare l’impressione di sapere. Non piace ai giovani, perché essi vedono in lui un culorotto, come si dice in gergo salentino culiruttu per indicare uno che ha fortuna sfacciata, uno che ha approfittato di un concorso di circostanze positive per emergere in maniera eccessiva. Piace agli anziani, i quali vedono in lui ciò che ognuno avrebbe voluto essere in gioventù, senza riuscirvi. Frustra le speranze di chi le ha; ravviva la nostalgia di chi non ha più niente in cui sperare. Il suo obiettivo è esserci: sempre, finché popolo non lo separi!    

domenica 23 ottobre 2016

Bob Dylan, il Nobel e i cavoli a merenda


Dopo l’assegnazione del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan non si può dire più che i cavoli a merenda non c’entrino. A merenda c’entra proprio tutto, cime di rape e peperoncini piccanti. Infatti mi chiedo: che cos’è la merenda? Chi può dire in che cosa essa consista? Su, fatevi sotto, bacchettoni della conservazione! Dite: che cos’è la merenda?
Come era prevedibile, il Nobel a Dylan ha partorito molti soccorritori del vincitore; in questo caso più che Dylan, l’Accademia Svedese che glielo ha assegnato. Attitudine, a quanto pare – quella di andare in soccorso dei vincitori – non solo italiana; con buona pace di Flaiano. Perfino scrittori e letterati, oltre che critici e professori di letteratura, in fregola di modernismi e giustificazionismi, si sono interrogati su come definire la letteratura. Dopo millenni c’è ancora chi non sa che cosa sia; pronto a dire che potrebbe essere anche culinaria, pasticceria, macelleria, camiceria, stireria ed altre concerie e sconcerie.
La letteratura è scrittura. Punto! Letteratura viene da leggere e si legge solo ciò che è scritto; scritto per essere letto. Si può usare anche il verbo leggere in senso metaforico; ma questo è un altro discorso. E dunque, la letteratura riguarda romanzi, racconti, fiabe, commedie, tragedie, farse, poesie, memorie, diari. La letteratura è stata sempre questo, tante cose ma sempre scrittura.
A rigore, neppure la poesia è letteratura; anzi, a definirla tale le si produce una deminutio. Perché poesia è ciò che prescinde dal dato materiale e porta ad una sfera emotiva, lirica. Croce parlava di poesia pura. E’ poesia L’infinito e non è poesia La ginestra, per stare al Leopardi. E’ poetico perfino un gesto, se in esso si coglie ciò che va oltre la sua fisicità. Ma, in quanto scrittura, ovvero messa in ordine una serie di parole, la poesia è letteratura; e perciò va bene che uno scrittore di poesie abbia il Nobel per la letteratura. 
Si vuole introdurre una novità a Stoccolma? Bene, si aggiunga arte a letteratura e si dica Nobel per la Letteratura e l’Arte. Che male ci sarebbe? Si eviterebbe alla povera letteratura di subire lesioni o invasioni di campo.
Si potrebbe dare il Nobel anche ad un pittore, ad uno scultore, ad un compositore musicale, a chiunque abbia a che fare, oltre che con la letteratura, con l’arte. Si potrebbe assegnare il premio ad un letterato e ad un artista insieme, come accade spesso per il Nobel per l’Economia, per la Pace o per altra disciplina per lo più scientifica. Insomma, si potrebbe trovare una soluzione senza creare tante perplessità.
Trovo mortificante che persone intelligenti e capaci, pur di non dispiacere all’aura politica che le circonda, facciano contorsionismi mentali per dare legittimità a ciò che non ha niente di legittimo. Onore, di converso, a chi ha detto, papale-papale, che a Stoccolma, conferendo il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan, hanno compiuto una enormità.
Si dice che ci sono canzonettisti che sono autentici poeti; in Italia, per esempio, Fabrizio De Andrè. Ho letto su un’antologia scolastica degli anni Settanta, ad impostazione tematica, alcuni suoi testi fra cui La guerra di Piero. Bellissima canzone, se ascoltata con canto e musica; ma, a leggerla, è roba da dilettanti allo sbaraglio: rime forzate, assonanze, versi diseguali, senza ritmo. Molti cantautori italiani dicono che la lingua italiana si presti poco ad essere musicata e cantata perché abbonda di parole piane, poco musicabili. Di qui l’utilizzo di parle ed espressioni al limite del nonsense. Con la lingua inglese va meglio. Così dicono gli addetti ai lavori, perché ha parole corte e tronche. Le parole scritte per essere musicate, in qualunque lingua, possono avere anche del poetico, ma non sono letteratura; esse sono pensate per altro, senza quell'altro non hanno senso. 
Quel che va detto sul Premio Nobel per la Letteratura e – se vogliamo – per la Pace è che l’Accademia Svedese si riserva ogni anno uno spazio politico, che a questo punto sarebbe più pertinente all’Onu. L’Accademia svedese esercita così un potere che deborda dalle sue iniziali intenzioni, benché per scopi nobilissimi.
Ma l’Accademia svedese mette i soldi della baracca e fa quel che vuole. E’ il suo modo di affacciarsi ogni anno sullo scenario politico del mondo con un suo messaggio forte. Non si spiegano diversamente certe assegnazioni e ancor meno certe esclusioni.
Se volessimo dirla tutta, relativamente alla Letteratura, sono di più i meritevoli di Nobel che il Nobel non hanno avuto di quelli che lo hanno avuto. Moltissimi se lo sono meritato, ma molti lo hanno avuto per ragioni politiche. Tra gli esclusi ce ne sono alcuni che gridano vendetta: si pensi ad Ungaretti, a Borges, a Pound. Mostri, questi, di grandezza poetica e letteraria in senso più vasto.

Quando nel 1997 il Nobel fu assegnato a Dario Fo, scoppiarono polemiche. A mio avviso Fo il Premio se l’era meritato, anche se – a dire il vero – fu una sorpresa per tutti. Nel mondo c’erano fior di scrittori e di poeti che il Nobel lo meritavano assai più di lui. Ed altri scrittori di teatro – pensiamo a Eduardo – che pur grandi e grandissimi il premio non lo avevano avuto. E comunque l’assegnazione rimaneva nel pertinente perché Dario Fo era uno scrittore di teatro, oltre che attore e regista. Perché proprio a lui? Ovvio: per ragioni politiche. Fo era un comunista e tale è rimasto fino alla morte ed oltre se il figlio Jacopo ha salutato i partecipanti al di lui funerale cantando Bella ciao e salutando col pugno chiuso. Con tanto di marameo del defunto Nobel per la letteratura. Pardon, per la messa in scena!
Dylan, a quanto pare, il Nobel per la letteratura non lo vuole; sa che non gli compete. E, se lo sa lui...

domenica 16 ottobre 2016

Dario Fo: fine di un giullare


E’ morto, ma sembrava che scherzasse. Ricoverato da una decina di giorni per una crisi cardiorespiratoria, si è spento giovedì, 13 ottobre. Un giorno o due prima del ricovero si era esibito in un lungo monologo di tre ore. Soffriva, ma recitava. Aveva novant’anni, ma saltellava sul palcoscenico come un saltimbanco.
Dario Fo se n’è andato così, tra mille polemiche. A sollevarle il figlio Jacopo, che ha scambiato un umanissimo tributo ad un grande talento del palcoscenico, un artista geniale, con un ipocrita consenso verso il padre, che, in vita, ne aveva fatte di cotte e di crude e si era creato numerosissimi nemici ed altrettanti amici.
Ora tutti lo osannate, ipocriti, quando prima lo avete perseguitato e condannato. Più o meno si è espresso così. Probabilmente Jacopo ha preso dalla madre Franca Rame. Dario l’avrebbe messa sul ridere, perché lui le cose del mondo sapeva perfettamente come vanno.
Dario Fo la sua vita da irregolare la iniziò nel 1943 aderendo alla Repubblica Sociale Italiana (Salò). Aveva 17 anni; ma dopo lui non ci stava a passare per un fascista, alleato dei nazisti. Se ne parlò negli anni Settanta di questa cosa, sotto l’incalzare della contestazione studentesca, il Sessantotto e il terrorismo. Poi tentò di spiegare il suo essere stato repubblichino: coprire il padre partigiano, salvare la pelle e cose del genere. Tutte comprensibilissime, intendiamoci, ma con certi vestiti non si va alla prima comunione.
Il suo problema, che è di tutti gli uomini di spettacolo, fu la platea. Senza pubblico non esiste l’attore, come non esiste la luce senza il buio. Era intelligente e capì che il suo pubblico non poteva essere che quello popolare, di sinistra, comunista, antifascista soprattutto. Dalla fine della seconda guerra mondiale alla caduta del Muro di Berlino, e oltre, il vento non è mai cambiato. Strada facendo si è modificato, come quei virus che resistono proprio perché si trasformano.
Dopo aver predicato il comunismo senza neppure chiedersi quanta libertà abbiano mai concesso i regimi che al comunismo si ispiravano, Fo si era convertito ai diritti civili, senza accorgersi della profonda contraddizione. Ma chi se ne fotte – avrà pensato Dario – quel che conta è il pubblico; e il pubblico mi applaude. Quel che conta è il successo; e senza quelle idee non se ne fa. Addosso ai re, ai papi, ai ricchi e ai potenti: sono così fessi che ridono pure!
Non ci voleva molto ad accorgersene. Onori e riconoscimenti per tutta la seconda metà del Novecento sono andati ai soliti comunisti, attentamente travestiti da asceti e mistici della libertà. Del resto, a 17 anni, quando aderì a Salò, in una situazione che in molti casi non lasciava libertà di scelta, non aveva ancora maturato nessun interesse di vita; e si era formato durante il regime tra, marce, guerre, bandiere e mistica fascista. Qualcuno ha perfino detto – Mattia Feltri su “La Stampa” del 14 ottobre – che “a guardar bene la vita politica del Nobel ha seguito una linea di coerenza espressa attraverso un ribellismo giovanile simile a quello adulto e senile”. Ma lasciamo stare. Il carattere è una cosa, la coscienza politica e civile un’altra! 
Il pubblico, il successo, i soldi sono l’ossessione dei teatranti. Essi costituiscono una razza a sé. A volte trasformano le loro stesse esperienze di vita in spettacolo. Franca Rame, violentata da alcuni neofascisti – così dicono e così dico – strumentalizzò la traumatica e orrenda esperienza ricavandone una pièce teatrale, che a vederla c’era da contorcersi non dalle risa ma dal mal di stomaco; uno spettacolo che nascondeva la gravità del fatto con lo sconcerto della sua rappresentazione.
Gli attori, i cantanti e tutti gli uomini di spettacolo seguono i gusti del pubblico; e di chi se no? Dicono tutti la stessa cosa e tutti per lo stesso motivo. Unipensiero, unipensanti. E’ una questione di mercato, dell’odiato mercato. Una cosa è ciò che pensano nell’intimo e un’altra è ciò che conviene dire e fare. Sì, ci sono pure i tipi alla Albertazzi, che non rinnegò mai il suo essere stato un combattente della Repubblica di Salò. Ma non si può pretendere che una rondine faccia davvero primavera.
Dario Fo è stato un uomo di talenti, geniale. Non v’è dubbio. Di originale, però, non ha detto niente. Bravo, bravissimo come attore; bravo, bravissimo come pittore. Ha affondato le mani nella tradizione medievale italiana. Da quel guitto naturale che era parlava col corpo, con la mimica. Il suo grammelot non era altro che una miscela di rumori vocali e di gestualità. Ha semplicemente trasformato cose altrui, dando loro significati ispirati e richiesti dall’attualità, in una direzione che alimentava il pubblico e il successo.
Bella scoperta, potrebbe dire qualcuno: quale attore va di proposito a farsi fischiare? Quando cercò di forzare quel pubblico, di allargarsi, fu stoppato. La Rai lo cacciò in seguito a certo suo uso politico che ne voleva fare, a prescindere se quello che diceva era sostenibile o meno.
Ma anche qui: dove sta l’osceno? Tu non puoi servirti di un mezzo pubblico, come la televisione, per far passare messaggi che sono rivolti ad un pubblico che non è venuto a vederti e a sentirti di proposito pagando il biglietto, ma se ne sta in casa sua, ha pagato il canone ed ha il diritto sacrosanto di non essere insultato. La differenza tra un teatro, una piazza e la televisione, specialmente ai tempi di quando c’era un solo canale televisivo, è che mentre al teatro uno va di proposito, in piazza si ferma se è interessato, la televisione viene a trovarti in casa coi suoi portati di informazione e coi suoi spettacoli. C’è una bella differenza, che non può essere trascurata o misconosciuta.
La sua assegnazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1997, a prescindere se lo meritava o meno – per me lo meritava – fu dovuto non tanto all’uomo di spettacolo quanto alla solita ragione politica. Andava premiato un uomo di sinistra, schierato su posizioni ideologiche che avrebbero fatto parlare e discutere all’infinito. Come all’infinito fa discutere l’assegnazione dello stesso premio, diciannove anni dopo, ad un cantante pop, a Bob Dylan. Perché, in fondo, anche l'Accademia di Stoccolma cerca una platea che discuta e rumoreggi sul nulla.
La sua adesione al movimento di Beppe Grillo? Un po’ per amicizia, un po’ per colleganza e tanto per pubblico garantito.  

domenica 9 ottobre 2016

Papa Ratzinger si racconta


Joseph Ratzinger va verso i novant’anni; ha avuto un ictus e non vede dall’occhio sinistro; ha una grafia minuta e da sempre scrive a matita, stenografando. I suoi libri hanno ancora un successo straordinario nel mondo. La trilogia del suo “Gesù” è fondamentale per gli studiosi di cristologia. Più che al culto mariano è legato a Gesù: “La venerazione di Maria mi ha segnato – dice – ma mai disgiunta da quella per Gesù Cristo, bensì al’interno di essa”.
Nel suo ultimo libro-intervista Benedetto XVI. Ultime conversazioni, curato da Peter Seewald, uscito in Germania col titolo Letzte Gespräche nel 2016 per la Droemer Verlag e in Italia per la Garzanti, ma distribuito anche dal “Corriere della Sera”, egli si racconta in lungo e in largo, apparentemente in libertà, ma sempre molto abbottonato e protetto dal suo tratto agostiniano. Spesso, alle domande dell’intervistatore, ride divertito e compiaciuto.
“Agostino – dice – lotta con sé stesso, anche dopo la conversione, ed è questo che rende la sua esperienza tanto bella e drammatica”. E’ la sua stessa condizione, nella quale è maturata la sua decisione di lasciare il soglio pontificio; ma anche quella del dopo.
Una decisione spontanea – assicura – senza nessuna pressione esterna, “perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione”; “Alle richieste non ci si deve piegare, naturalmente. E’ per questo che nel mio discorso ho sottolineato che io agivo liberamente”; “Sono convinto che non si sia trattato di una fuga, e sicuramente non di una rinuncia dovuta a pressioni esterne, che non esistevano”. Parole sue! Ma questo riguarda il suo percorso di fede.
Nella storia il discorso è diverso. Ratzinger lascia per motivi di salute: “Anche il medico mi disse che non avrei dovuto attraversare l’Atlantico. […] Per me era chiaro che avrei dovuto dimettermi in tempo perché il nuovo papa andasse a Rio [per la Giornata Mondiale della Gioventù]”. Esclude che abbia mai costituito un problema per la Chiesa: “che io fossi, per così dire, il problema della Chiesa non lo ritenevo allora né lo ritengo oggi”.
La sua è una scelta che viene da lontano. “Fede e ragione – dice – sono i valori in cui ho riconosciuto la mia missione e per le quali la durata del pontificato non era importante”. Esclude addirittura che potesse essere dissuaso dal dimettersi: “dentro di me ero certo di doverlo fare, e quando è così, uno non lo si può dissuadere”.
Non sempre è convincente. Non convince, per esempio, l’entrare e uscire dalla dimensione spirituale, il voler conciliare l’opportunità di lasciare per motivi di salute con motivazioni di fede, il suo scendere dalla croce dimettendosi e il suo diversamente restare, il funzionalismo della carica col mandato divino attraverso lo Spirito Santo. Non convince quando afferma che lui si è dimesso in un momento tranquillo della chiesa: “uno non può dimettersi quando le cose non sono a posto, ma può farlo solo quando tutto è tranquillo”. La cronaca del suo tempo lo smentisce. Soprattutto non convince sull’astio dei tedeschi nei suoi confronti: “In Germania […] alcune persone cercano da sempre di distruggermi”. A Berlino, nel settembre del 2010, fu accolto male. 
Quando non convince, tuttavia, lo mette in conto. “In questo mondo – dice – il messaggio di Cristo è uno scandalo iniziato con Cristo stesso. Ci sarà sempre contraddizione, e il papa sarà sempre segno di contraddizione. E’ una sua caratteristica distintiva, ma ciò non significa che deve morire sotto la mannaia”. 
Convince certamente quando parla distante dalla sua esperienza. “La Chiesa è in movimento – afferma – è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi”. E dunque è stato un bene il cambio con l’arrivo di Bergoglio, che ha portato “una nuova freschezza in seno alla Chiesa, una nuova allegria, un nuovo carisma che si rivolge agli uomini”.
Su uno degli aspetti più controversi della Chiesa, centralismo romano e localismi, pur approvando “che le Chiese locali siano il più possibile autonome e vitali, senza bisogno di assistenza da parte di Roma”, ribadisce che “è importante anche che [esse] restino aperte le une verso le altre e anche verso il ministero petrino, perché altrimenti è facile che prevalga l’elemento politico, nazionale, e si crei un impoverimento culturale” e che “non è possibile fare a meno del ministero petrino e del ministero dell’unità”. 
Nel suo lungo percorso di docente è importante e significativo il suo esordio, che non fu affatto facile. Su di lui si incentrarono non pochi sospetti, addirittura di eresia. Accadde quando, in seguito alla sua esperienza di cappellano a Bogenhausen, pubblicò nel 1958 l’articolo “I nuovi pagani e la Chiesa” e quando sostenne a Frisinga l’esame di abilitazione alla libera docenza. Fu per lui un’autentica umiliazione, lo superò non senza contrasti; ebbe la sensazione di trovarsi “sull’orlo di un baratro”. E tuttavia quell’esperienza la visse come una prova di vita importante. “Credo che per un giovane sia pericoloso bruciare una tappa dietro l’altra ricevendo sempre e solo elogi”. Aveva ottenuto il dottorato, ora l’abilitazione. Tutto molto in fretta. “Era giusto – dice – che subissi quell’umiliazione”. Ma anche dopo non gli fu facile l’avvio accademico e spesso entrò in conflitto coi suoi colleghi in teologia. Insomma, letti con un minimo di dietrologia, contrasti e difficoltà hanno un significato diverso e forse mettono in una luce diversa le sue dimissioni da papa.
Personaggio amletico o, come lui ama dirsi, agostiniano, Ratzinger è incerto, dubbioso; ricorda il nostro Petrarca del Secretum, agostiniano pure lui. Che fosse incerto lo dimostra perfino nell’uso della matita anziché della penna: “Scrivevo così da ragazzo e mi è rimasta l’abitudine. La matita ha il vantaggio che si può cancellare. Quando scrivo con l’inchiostro, ciò che è scritto è scritto”.
Ma, nonostante le difficoltà e le incomprensioni, la carriera di accademico di Ratzinger passa di successo in successo, Bonn, Münster, Tubinga, Ratisbona; poi la carriera religiosa con la nomina di vescovo a Monaco.
La sua affermazione più importante e decisiva fu quando chiamato dal Cardinale Josef Frings, prima scrisse nel 1961 per suo conto la relazione di Genova, “Il Concilio e il pensiero moderno”, con la quale si dava l’imput al Concilio e per la quale Giovanni XXIII si congratulò, e poi teologo ufficiale del Concilio Vaticano II.  Nel 1977 fu nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da Paolo VI; poi cardinale e infine Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio) a Roma, nominato da Giovanni Paolo II. Il 19 aprile del 2005 fu eletto papa col nome di Benedetto XVI.
Il 28 febbraio del 2013 si chiude, con le sue dimissioni, il cerchio della sua straordinaria carriera, iniziata nelle difficoltà e nelle incomprensioni e finita in altrettante difficoltà e incomprensioni.

E’ un libro, questo, che non aggiunge granché al già conosciuto di questo controverso papa, ma, avendone data egli stesso l’autorizzazione a pubblicarlo, costituisce un documento essenziale per gli studiosi e gli storici. 

domenica 2 ottobre 2016

Nessuno dice che Renzi le ha buscate


Chi ha seguito per circa tre ore la maratona del confronto televisivo Renzi-Zagrebelsky su “La Sette”, la sera di venerdì, 30 settembre, sulla riforma costituzionale, su cui il popolo italiano il 4 dicembre si dovrà pronunciare in referendum, ha avuto la possibilità di rendersi conto senza ombra di dubbio di come effettivamente stanno le cose. Condotto da Enrico Mentana, che si rivela sempre meno adeguato a simili dibattiti, il confronto si è risolto in una sonora sconfitta per il fronte del SI e in un ko personale tremendo per Renzi. Il quale ha fatto la fine di Icaro, avvicinandosi troppo al sole della cultura giuridica è precipitato con le penne liquefatte. Ai serrati, puntuali ragionamenti del Professore, ex presidente della Corte Costituzionale, Renzi dapprincipio ha opposto slogan su argomenti diversi da quelli esposti dal suo interlocutore, come a voler cambiare discorso, e poi via via ha offerto uno spettacolo da ragazzo svogliato che non vuole seguire le lezioni: irritazione, impazienza, stanchezza, sguardi rivolti altrove, smorfie, gesti defatiganti. Mentana è stato perfino scorretto nel far iniziare il confronto da Renzi e nel farglielo concludere; ma è stato inutile.
Zagrebelsky, contrario alla riforma renziana, sostiene il ed convinto che dopo si potrà fare una riforma migliore. Colto e sicuro di sé, egli non ha avuto nessuna difficoltà ad ammettere che qualche cosa buona nel progetto renziano c’è; per esempio, il ridimensionamento delle competenze delle regioni, che in tutti questi anni hanno speso male fiumi di soldi, non sono state capaci per difetto di progettualità di spendere fondi europei, perdendoli in favore di altri Paesi, ed hanno impedito la realizzazione di opere importanti con le loro lungaggini e i loro veti. Per dire, che quando si fa un confronto serio si può riconoscere all’avversario anche le sue ragioni, senza per questo tradire la propria causa.
Sui grandi problemi posti dalla riforma il buio di chi l’ha fatta e voluta è totale. Renzi non ha voluto rispondere su alcune fondamentali obiezioni di carattere tecnico. La sua risposta è stata sempre elusiva, sommaria, generica, infastidito dall’invito del professore di guardare alla riforma nella sua essenza e nella sua collocazione nel tempo invece di vederla nell’immediato.
Che cosa potrebbe accadere con questa riforma, che si lega indissolubilmente alla legge elettorale dell’”Italicum” – gli ha chiesto Zagrebelsky – se, invece di Renzi, capo del governo diventa una persona meno sensibile alla democrazia? Dall’altra parte risposte di una pochezza intellettuale preoccupante: noi l’abbiamo fatta, gli altri in trent’anni non sono riusciti; non c’è un solo articolo che modifichi le prerogative del capo di governo; è del tutto inventata la preoccupazione di una deriva autoritaria e via di questo passo. E hai voglia a fargli capire che c’è una questione di cultura politica sul modo di intendere la democrazia! Renzi si è rivelato del tutto incapace di tenersi in piedi su un terreno diverso da quello del suo quotidiano.
E ancora: come può un Senato composto da sindaci e consiglieri regionali, con tutto il carico di lavoro che questo comporta per loro, svolgere una mole enorme di compiti che la riforma gli attribuisce? Zagrebelsky ha cercato di fargli capire che non è materialmente possibile. Renzi ha risposto senza “rispondere”: ma se funziona in Francia e in Germania, perché non può funzionare da noi? Controreplica di Zagrebelsky: perché in quei Paesi le cose stanno diversamente. E Renzi? Imperterrito a dire che, siccome in Francia e in Germania funziona, funzionerà anche da noi. Come diceva Totò: a prescindere.
Non c’è stato nessun vero confronto sugli articoli 57, 70 e 117, che sono tra i più dibattuti, perché, benché pressato da Zagrebelsky con puntuali e serrati ragionamenti, Renzi ha fatto come Ettore inseguito da Achille intorno alle mura di Troia: scappava. Ha scantonato, ha tentato più volte i soliti slogan, appena appena frenati dalla consapevolezza di avere di fronte non un altro politico, su cui comodamente rovesciare colpe e incoerenze, ma un professore che sosteneva le ragioni senza avere nessun interesse di parte.
Zagrebelsky ha ribadito due concetti fondamentali. Il primo è che occorre una costituzione che garantisca certe libertà politiche indipendentemente da chi c’è al governo. Le libertà non sono graziose concessioni soggettive, ma garanzie oggettive. Il secondo è che ogni costituzione è come un abito che non può non tenere conto di chi lo indossa. Ha fatto un esempio efficacissimo: l’abito più perfetto indossato da persona con difetti fisici finisce per assumere le forme della persona. Di qui l’importanza di intervenire a sanare i difetti, in questo caso, della società italiana.
E’ apparso, però, con grande evidenza un contrasto che io credo insanabile tra un modo di far politica in maniera spiccia, come vorrebbe Renzi, anche per stare alle esigenze dei tempi e delle situazioni odierne (Europa, globalizzazione, crisi internazionali), e un modo di intendere la politica come continuo confronto, dibattito, lavorìo, nel rispetto di tutte le parti in causa; modo di far politica che, a dire il vero, è lento e oggi confligge con la rapidità dei tempi. Insomma, una riedizione dell’eterno paragone tra la cicala e la formica.
Credo che su questo terreno si giochi non solo la riforma costituzionale ma la politica in genere nella sua dinamicità. Questa riforma, tuttavia, a dire di Zagrebelsky e dei sostenitori del , non velocizza la decisione, ma addirittura la complica, v. art. 70 sui rapporti tra le due camere su alcune questioni di comune competenza. Essa, però, concentra più potere nelle mani del presidente del consiglio. E se pure non c’è un solo articolo che preveda per lui maggiori poteri, per il combinato disposto legge elettorale-riforma costituzionale, possono verificarsi casi in cui piccole maggioranze decidano cose importantissime. Renzi, per esempio, è convinto che con la riforma s’innalza il quorum per eleggere il Presidente della Repubblica; ma Zagrebelsky ha cercato di fargli capire che c’è differenza tra due terzi di componenti e due terzi di presenti. Niente! Renzi o non capisce o fa finta di non capire.

Un’ultima annotazione: i giornali il giorno dopo si son ben guardati dal dire che Renzi le ha prese di santa ragione da Zagrebelsky. E si capisce perché: sono tutti dei leccaculo.