domenica 27 dicembre 2020

Le tonsille di Conte

Ci sono ghiandole nell’organismo umano che a volte possono infiammarsi e marcire e perciò conviene asportarle. Senza di esse, però, l’organismo perde un meccanismo di difesa importante. È il caso delle tonsille, per esempio, che hanno una funzione protettiva dell’apparato respiratorio. Così in politica. Ci sono soggetti che danno fastidio per il loro modo di fare, ma se non ci fossero la politica perderebbe una sua particolare funzione, quella di avere delle spie per accorgersi che le cose non vanno e correggersi per tempo.

Renzi è uno di questi soggetti. È una delle tonsille del governo. I suoi ultimatum a Conte non sono piaciuti ad alcuni, diciamo della parte postdemocristiana del Pd e del M5S. Non è questo il modo di criticare costruttivamente, hanno eccepito i suoi alleati di maggioranza. Probabilmente non hanno torto. Ma se non ci fossero i tipi come Renzi tutto sarebbe melassa o …Zingaretti. Il quale ha la grazia di parlare e parlare senza dire nulla neppure da annotare sul taccuino del più volenteroso dei cronisti politici.

Dunque, che vuole Renzi? I maligni della parte governativa dicono qualche altra poltrona, forse quella dei Servizi segreti, che però Conte non è intenzionato a mollare. Chissà poi perché! I benigni della sua parte dicono invece che vuole che il governo faccia… il governo attraverso i suoi ministri e che non vengano create cabine di regia o task force.

Quali che siano le motivazioni vere appare chiaro che tutte queste strutture create dal governo, cabine di regia e cose simili, potrebbero oggettivamente trasformarsi in nascondigli per chi veramente ha il potere e non vuole però assumersi la responsabilità e dunque rispondere di quanto accade, specialmente se le cose vanno male.

Probabilmente la verità sta nel mezzo, nel senso che Renzi, nonostante ripeta questa volta faccio sul serio, facendo intendere che potrebbe far cadere il governo, alla fine si accontenterà di qualche altra poltrona e di una situazione nella sostanza immutata ma nella forma edulcorata secondo i suoi dettami. Basterebbe, per esempio, cambiare nome alla cabina di regia per gestire il Recovery fund, alias 209mld di Euro, con lui o uno dei suoi in pole position. Le parole in politica a volte sono risolutive.

Renzi sarebbe più credibile se in corso non ci fossero emergenze molto gravi come l’infuriare della seconda ondata di Covid con minaccia di una terza e la campagna vaccinazione, pur tralasciando l’incognita di trovare in Parlamento una terza maggioranza in questa legislatura o peggio ancora andare a nuove elezioni. In effetti sia l’una che l’altra ipotesi non reggerebbero alla prova dei fatti. Salvini dice: faremo un governo di centrodestra più quanti vorranno venire. La Meloni è stata chiara: no ai transfughi. Alla fine, perciò, molto probabilmente, tutto si accomoderà fino alla prossima renzata.

Tutto risolto allora? Nient’affatto. Renzi non è il problema vero. Il problema vero è il governo che non è in grado di governare, che non sa che direzione prendere perfino nelle cose di ordinaria amministrazione. Lo ha dimostrato con i vari dippicciemme, scaduti prima ancora di essere capiti dalla gente. La questione di accentrare il potere dando ad intendere di decentrarlo sta caratterizzando questo governo in maniera decisamente negativa.

Sulla questione della cabina di regia, perciò, non si dovrebbe cedere. Non si capisce perché il governo, che per Costituzione ha tutti gli organi e mezzi per governare, “rinunci” a farlo e delega a cabine di regia o a task force. Se i ministeri non sono in grado di gestire le emergenze, che ci stanno a fare? Basterebbe l’apparato a portare avanti la baracca. Ormai è chiaro a tutti che quel Conte, che sembrava così impacciato fra i suoi due iniziali angeli custodi, Salvini e Di Maio, oggi è talmente scaltrito che senza mai dirlo o farlo capire avoca a sé poteri che Salvini, che pure accennava a pieni poteri, fra un mojto e l’altro, si sognava di poter avere.

Sul Recovery fund ci sono legittime attese. Si parla di un’occasione unica per sistemare un po’ di cose in Italia sia per il recupero del pregresso, vedi sanità, sia per la modernizzazione, vedi fra l’altro la digitalizzazione oltre all’economia green e circolare. Al momento, però, e il tempo passa anche velocemente, siamo in ritardo su molte cose. Rischiamo, se non dovessimo trovare la via maestra per tempo, di giungere malconci ad avere – se li avremo – i primi soldi europei.

Ecco perché Renzi ha ragione di porre il problema ma si ha legittima paura che non riesca che a dare ragione ai suoi avversari interni e accontentarsi di poco perché le circostanze non consentono di rilanciare il gioco come si dovrebbe. Ovviamente la partita è doppia, non ha il solo aspetto di Renzi e gli altri, che potrebbe concludersi con un pareggio, ma anche e soprattutto del governo e del Paese, che sarebbe più decisiva. L’epilogo temporaneo della questione di Renzi lascia aperta la questione del Paese, che continua ad essere malgovernato in una situazione resa difficile e complicata dal perdurare dell’emergenza Covid, che impedisce alla politica di fare i movimenti e le scelte necessari. 

domenica 20 dicembre 2020

Quanto ci costano i diciotto marinai liberati

I giornali non hanno saputo dare molte spiegazioni sul rilascio da parte del generale libico Haftar, signore di Bengasi, dei nostri marinai catturati manu militari insieme alle loro navi tre mesi fa da alcune motovedette libiche. I più vicini alla maggioranza giallorossa o comunque non ostili al governo dicono che tutto sommato ci è andata bene e che il rilascio non ci è costato molto, a parte lo scomodamento di due importanti istituzioni come Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri. Gli oppositori, invece, si sono limitati a gioire per il ritorno a casa dei prigionieri, ma hanno avanzato serie riserve sull’operazione. “Viva l’Italia” ha concluso l’amicus-hostis Renzi e…più non disse.

Conte e Di Maio sono andati a rendere omaggio al generale Haftar, che, siccome non è riconosciuto dalla comunità internazionale, è un fuorilegge che mina l’unità della Libia e mette a rischio la pace in tutta l’area. Ma, che volete, è la realpolitik! Se volevamo i nostri marinai a casa per Natale dovevamo, se non proprio calarci le brache, profondere qualche inchino, con le mani entrambe rigorosamente sulle natiche, accompagnato da qualche promessa e chissà cos’altro. Queste sono faccende di cui non si viene mai a capo. Può essere che gli abbiano promesso la restituzione degli scafisti libici da noi arrestati ma solo dopo la formalità di un processo. Siamo uno stato di diritto noi. La forma, almeno questa, va rispettata. Si vedrà a breve che cosa accadrà.

Un’altra domanda che viene di farci è questa: sarebbe stato espressamente richiesta dal generale libico la presenza pure di Conte oppure questo ha pensato bene di unirsi alla missione pur di evitare l’incontro con Renzi per la verifica di governo, già precedentemente fissato? Bah, misteri della politica italiana, sempre complicata anche nelle situazioni più semplici. Ormai la tenuta del governo si misura sui giorni. Aver evitato l’incontro chiarificatore o guastatore con Renzi, ridotto poi a pochi minuti quando c’è stato, Conte si è garantito altri giorni. Mo’ rimandiamo, poi si entra in zona Covid, poi, poi…se ne riparlerà a dopo le festività natalizie e chissà se nel frattempo non accadrà qualcos’altro ad allungare ancora la durata.   

In un primo momento è stato detto che i nostri marinai erano stati trattati bene, poi si è saputo altro. Si è saputo, per testimonianza diretta resa, che sono stati perfino picchiati, minacciati e sbattuti da una prigione all’altra, tenuti costantemente in ansia di poter essere giustiziati. Insomma sarebbero stati trattati malissimo quando già i cento giorni di prigionia non fossero bastati. E noi che facciamo?

Di fronte ad una simile situazione, che figura hanno fatto i nostri due magni rappresentanti delle istituzioni? Ora che sanno come veramente sono stati trattati i nostri marinai, che cosa ha in mente di fare il governo? Probabilmente nulla. Tutto è bene quel che finisce bene, si dice, salvo ad intendersi su cosa significhi bene. Se significa il ritorno a casa dei prigionieri, ci uniamo al coro e gridiamo evviva. Se, invece, ci preoccupiamo, primo che episodi simili non abbiano più a verificarsi, secondo che si salvi almeno la faccia di fronte all’ennesimo bullo internazionale che rimane impunito, allora non ci siamo.

Tra uno stato di diritto ed uno stato che si salva per le formalità da rispettare c’è lo Stato senza predicati, quello che fa valere sempre la ragione e la giustizia. Se i nostri pescatori quando sono stati catturati erano in acque libiche, allora non devono più sconfinare perché mettono in pericolo se stessi e mettono in disagio il Paese che comunque li deve tutelare. Se, invece, i nostri erano in acque internazionali, allora Haftar deve pagare. L’atto compiuto dai suoi è un atto di pirateria; e i pirati già li combatteva Roma in tutto il Mediterraneo ai tempi di quando Cesare era poco più di un ragazzo. Si può e si deve discutere sul prezzo, ma che debba pagare dovrebbe essere assodato. E non si dica che i tempi sono diversi e che certe cose non si possono più fare. La Gran Bretagna, di fronte alle pretese francesi, ha schierato a difesa delle sue acque territoriali la flotta, meno di una settimana fa.

Se da parte nostra consideriamo chiuso l’incidente con Haftar come se nulla fosse successo, allora di fronte all’ennesimo schiaffo subito rispondiamo con la promessa tacita di porgere l’altra guancia. Che è pur sempre religiosamente da cristiani, ma nella realtà politica delle cose è semplicemente da fessi e da pavidi.

 

lunedì 14 dicembre 2020

Se una pioggia di miliardi...

Generalmente si pensa che guadagnare dei soldi sia molto difficile e che spenderli sia invece molto facile. Punti di vista. Ecco, c’è un punto di vista che rovescia quanto detto: se a “guadagnarli” e a “spenderli” è una pubblica amministrazione o addirittura il governo nazionale. In questo caso può essere facile avere i soldi, difficile spenderli, specialmente se parliamo del governo italiano nello specifico della pandemia da Covid 19. Ci si potrebbe ritrovare nell’assurdo di avere i soldi e di non saperli spendere.

L’Italia, grazie al Recovery fund (Fondo di recupero) potrebbe trovarsi nel prossimo biennio, 2021-2022, sotto una pioggia di miliardi di Euro, più di 200. Un’enormità. Gli esperti dicono che si tratta di un’opportunittà per il nostro Paese importantissima, da segnare una svolta nel processo di modernizzazione. L’Europa ci è sempre venuta incontro. “Questa volta – dicono Fabrizio Barca e Mario Monti (due che se ne intendono) – ci dà tre stimoli in più: 1) l’invito a condividere con gli altri Paesi un disegno comune (verde, digitale, riduzione delle disuguaglianze); 2) ingenti risorse finanziarie per realizzarlo e per innestarlo nei bilanci nazionali; 3) un metodo nuovo sotto due profili cruciali: a) non più solo investimenti, ma anche riforme; b) un dispositivo di rimborsi delle spese in base all’esibizione non semplicemente dei pagamenti effettuati, ma anche della prova della realizzazione delle azioni programmate e soprattutto dei loro risultati in termini di benessere economico e sociale” (Corsera del 13.12.2020). Ne discende dunque la necessità per il nostro governo di approntare un Recovery plan (Piano nazionale di Ripresa e Resilienza) all’insegna di due principi come forse non abbiamo mai fatto in precedenza in questo nostro Paese: “il linguaggio dei risultati e la grammatica della gestione” (Barca-Monti). Una rivoluzione nel Paese in cui è sempre bastato avere a posto le carte.

I soldi in arrivo non sono tutti guadagnati, con o senza le virgolette, ma in parte ricevuti a fondo perduto ed altri in prestito, nell’un caso e nell’altro si tratta comunque di somme da spendere con oculatezza e a condizioni cogenti. Occorrono piani dettagliati per scadenze precise. Per capire, perfino un privato qualsiasi se si rivolge ad una banca per un prestito, deve dimostrare l’attendibilità del progetto d’investimento e dare tutte le garanzie di restituzione. Nel nostro caso è la “mamma” Europa che ci viene incontro in seguito alla congiuntura pandemica. Non si tratta di provvedimenti solo per il nostro paese, avendo noi una bella faccia, come pensiamo di avere, ma per tutti gli stati che fanno parte dell’Unione e che si trovano variamente in crisi. A noi è stata data la fetta più grossa, il 28 % dell’intero fondo, che è di 672,5 mld.. Mamma o non mamma, i soldi che ci danno dobbiamo saperli spendere bene e alla data stabilita li dobbiamo restituire.

Date queste premesse, il governo deve dotarsi di una struttura che rediga i piani e che sappia poi spendere i soldi entro le date convenute. Questo nostro governo è nelle richieste condizioni? Per quasi unanime giudizio, esclusi i diretti interessati del governo, non lo è. Non lo dicono solo gli osservatori politici di entrambe le tendenze, ma anche gli stessi politici protagonisti con le loro parole e i loro comportamenti.

La componente maggiore, il M5S, sta franando da anni e si riduce sempre più nei numeri, che pure sono importanti in Parlamento, ma soprattutto sta venendo meno come visione comune delle cose, come propositi politici strategicamente condivisi. Se quella dei Cinque Stelle doveva essere una rivoluzione, come dicevano, non c’è di loro chi non si sia già accorto che si è finiti nella più squallida paludosa restaurazione. Le altre componenti della maggioranza, per ragioni diverse, sono scontente e divise. Il Pd rimprovera al Capo del Governo di avocare troppo a sé tutto tanto da evocare i famigerati pieni poteri. L’Iv di Renzi fa lo stesso e minaccia di uscire dal governo e di farlo cadere se ancora questo insiste sulla cabina di regia, la struttura che dovrebbe gestire i soldi del Recovery fund. Il Leu, per la sua inconsistenza, che parli o non parli è lo stesso.

È di tutta evidenza che la maggioranza non è in grado di dare risposte precise nei tempi precisi e chiede l’aiuto dell’opposizione, forte anche delle sortite del Presidente della Repubblica che invitano all’unità e alla collaborazione. Ma l’opposizione è divisa anche lei. La Lega è propensa a collaborare, Fratelli d’Italia no, mentre Forza Italia, che sembrava la più vicina al governo si è defilata. Ciò che era ieri oggi non vale e domani chi lo sa! Questa è la situazione, mentre si ritiene sempre più vicina l’ipotesi di elezioni, in presenza però di una pandemia in agguato di ondate, che sconsiglia assembramenti di qualsiasi portata, compresi gli elettorali, e l’urgenza della vaccinazione di massa.

Corriamo il rischio di arrivare alle scadenze per forza d’inerzia senza nessuna specifica preparazione. Già sono emersi i primi disaccordi sull’entità delle somme da spendere per i singoli settori. Le finite entro le quali stanno i soldi del Recovery fund sono il 31 luglio 2022 (assegnazione delle gare per le opere da realizzare) e 31 luglio 2026 (collaudo delle opere stesse). Non osservare queste scadenze potrebbe farci perdere i finanziamenti.

A fronte della situazione solo un governo di unità nazionale, sospese tutte le ostilità, potrebbe farcela. Purtroppo è altrettanto vero che una simile soluzione è ben lontana. Pur considerando le abbaiate di Renzi solo appunto abbaiate, non si capisce come possa fare un governo come quello di Giuseppe Conte a soddisfare impegni da far tremare le vene e i polsi al Paese nel bel mezzo di una emergenza sanitaria, che, stando a quanto dicono gli esperti, potrebbe durare ancora per un bel po’.

Entriamo così negli anni Venti di questo secolo con le vele afflosciate, tutti verso una stessa meta: i soldi; ma ognuno con propositi e forse appetiti diversi. In questo caso di certo c’è solo la deriva per il Paese e forse la galera per qualcuno.    

sabato 12 dicembre 2020

C'era una volta Natale *

Saltano pure i detti, ormai. Pasqua e Natale con chi vuoi, gli ultimi giorni coi tuoi. Quasi quasi non ce lo ricordavamo più. È stata la regola fino a quando non è arrivato questo stramaledetto Covid 19, che obbliga a stare dove puoi e con chi puoi, laddove il “puoi” dipende dall’ultimo dipiciemme. Gialli, arancioni, rossi. I politici locali, ormai ridotti a raccoglitori di voti, si lamentano, si sentono discriminati, come se non ci fosse in ballo un pericolo maledettamente serio ma la distribuzione di pacchi dono. Quanto stiamo vivendo da circa un anno è cosa cui non eravamo men che abituati neppure a immaginare. Ci sentivamo garantiti da certe minacce. Viviamo nell’era dell’intelligenza artificiale, che volete che ci faccia un virus? Era così poco innocua la parola “virus” che spesso il medico di famiglia che ti veniva a visitare per un qualche raffreddore o principio di diarrea, per sdrammatizzare, ti rassicurava “non è nente, sta girando un virus”, come se entrasse dalla porta e uscisse dalla finestra. Oggi la parola si contende il primato di preoccupazione con altre assai più perniciose. E tuttavia l’avvicinarsi di Natale ci porta in altre atmosfere, che la modernità non ha del tutto sfrattato dal nostro immaginario. Non potendocelo più permettere, abbiamo recuperato il senso di un evento straordinario.

Le feste di fine anno erano un’occasione irripetibile, una sorta di rituale che affondava le radici dove con la mente l’uomo non può arrivare. Era così, e basta. Le famiglie si congiungevano da ogni parte del mondo in ogni parte del mondo. Era come se si vivesse dodici mesi per quell’ultimo appuntamento finale. Era un arrivo per un’altra partenza. Molti lavoratori che venivano dall’estero, dalla Svizzera e dalla Germania soprattutto, erano gastarbeiter, stagionali. Sarebbero ripartiti a marzo con la nuova stagione. Erano perciò stracarichi di roba. Si può dire che portassero con sé l’inverosimile, tutto il loro mondo della quotidianità di vita e di lavoro. Come facessero, era da non credere.

Altri tempi, si dirà; ed è così. Oggi non esiste più quel tipo di migrazione. Noi italiani siamo in tutti i paesi europei, spesso da cittadini con uno status consolidato, siamo a casa anche stando all’estero. I moderni mezzi di comunicazione hanno cambiato il modo di tenersi in relazione e in vicinanza. Ma Natale è pur sempre Natale, oggi come ieri o forse come l’altro dell’altro ieri.

Mi ricordo, ragazzino, alla Centrale di Milano nei primi anni Sessanta. Io, migrantino, fra masse di migranti in movimento. Dovevi stare attento a non essere travolto dalla gente, che sembrava come spinta di qua e di là da un vento turbinoso. Scene da Inferno dantesco. I convogli erano presi d’assalto per accaparrarsi il posto. Ondate di passeggeri passavano da un binario all’altro violando le prescrizioni di non attraversare i binari, appena l’altoparlante annunciava che il treno per Lecce, per Napoli, per Palermo, era in arrivo sul binario ics e ipsilon. Raggiungere il binario giusto prima degli altri significava assicurarsi un posto fino a casa. I treni partivano ogni mezz’ora. I vagoni arrivavano pieni già in stazione. Si passavano oggetti e persone dai finestrini. Bambini ma anche adulti, soprattutto donne, li facevano salire dai finestrini, e c’era chi rimaneva mezza di dentro e mezza di fuori agitando le gambe nello sforzo di guadagnare con le braccia il fondo dello scompartimento. Si vedevano mucchi di valigie semoventi tanto il portatore era coperto e nascosto. E voci…e voci incrociarsi, raggiungere l’orecchio del destinatario come per calamita. Scene che non dimentichi per il resto della vita, perché in nessun volto si vedeva un minimo di sorriso, di serenità, ma tutti erano stravolti, tesi, spaventati, angosciati. Le valigie occupavano scompartimenti, corridoi e perfino le ritirate. Non mancavano le scortesie, cui seguivano litigi; ma per fortuna erano pochi e si ricomponevano subito. Si passava la notte a giocare a carte sulle stesse valigie come fossero un tavolino e sedie. La gente vedeva nell’altro un se stesso bisognoso di essere compreso e rispettato. 

Raggiungere, finalmente, la meta dell’ultima stazione era un’autentica avventura, che solo la grande gioia di riabbracciare i tuoi ripagava dalla fatica e dall’ansia. E via, a trovare il noleggiatore paesano, che con la sua millecquattro fiat prolungata carica dentro di dieci-dodici persone e di sopra con il doppio di valigie e pacchi ed abbassata fino a sembrare senza ruote, ti portava a casa. E lì trovavi i tuoi sull’uscio coi vicini che ti attendevano in festa e in lacrime. Era Natale, vagliò!

* Già apparso su "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 10 dicembre 2020 col titolo  "Natale con chi puoi...a causa del Covid"

 


mercoledì 9 dicembre 2020

La fine ingloriosa dei Cinque Stelle


Ha detto recentemente Roberto Fico, Presidente della Camera dei Deputati, terza carica istituzionale – mica niente! – che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, voluto dai Cinque Stelle già nel 2018 col governo gialloverde e confermato nel 2019 col governo giallorosso, andava salvato. A chi si rivolgeva? Ai 5 (dico cinque) suoi compagni di movimento che non volevano votare la riforma del Mes voluta dal governo. Quale il senso dell’intervento di Fico? È semplice: non si vota sulla bontà del provvedimento, magari su quella si avrebbe anche ragione di votare contro, ma sulla difesa del governo. Sul Mes non c’è stato esponente grillino, da Conte a Di Maio, fino all’ultimo militante, che non lo abbia escluso in maniera totale. Ora i contrari sono rimasti in cinque. Dunque i grillini sono bugiardi, esattamente come bugiardi erano i loro predecessori di tanti altri partiti.

Chi sa di politica, sa che questo comportamento è normale. Non lo era per i Cinque Stelle fino al loro ingresso nelle stanze del potere. È accaduto tante volte che nel corso della prima repubblica democristiani, comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e perfino missini (sottobanco questi) hanno votato non per il merito ma per l’opportunità di far cadere o non far cadere un governo. Erano e sono le dinamiche della vita parlamentare, contro cui Beppe Grillo e i suoi adepti per anni si sono scatenati contro. Senza riguardi per nessuno i grillini hanno sparato a zero come i cannoni di Bava Beccaris sui politici dei precedenti venti anni, insultandoli, dileggiandoli, ingiuriandoli, come in genere si fa nei trivi di paese fra comari acide.

Si dice – giustamente – che ogni classe politica, la più fortemente determinata a fare diversamente da chi l’ha preceduta, prima o poi degeneri. Ma i Cinque Stelle hanno una storia brevissima, appena dieci anni, e appena due di governo. Questi non sono degenerati, non ne hanno avuto il tempo per diventarlo. Questi erano già degenerati.

Viene di chiedersi: ci voleva l’esercito di Franceschiello dei Cinque Stelle, incompetenti buffi velleitari, autopromossisi forza rivoluzionaria, per continuare a tenere in vita quello che si voleva annientare? Qui non si tratta di giudicare un provvedimento, in questo caso il Mes, sul quale si possono esprimere le più varie posizioni, ma di capire un comportamento politico, condannato quale esiziale sistema della democrazia e della partecipazione del popolo al potere. Fico, che, absit iniuria verbis, sembra un massaro uscito da una masseria pugliese di fine Ottocento, avrebbe potuto spiegare la bontà del provvedimento, fingendo, arrampicandosi sugli specchi. Se ciò avesse fatto avrebbe tutt’al più commesso un errore di valutazione. Ma un errore non è grave quanto lo è invece un modo di fare, una filosofia politica. Non si dice sì a qualcosa che si ritiene sbagliato per non far cadere il governo, ma se e quando si è convinti della sua bontà.

Un caso singolo? Nient’affatto. I Cinque Stelle oggi sono divisi e confusi. Sanno che il popolo che li ha votati solo in piccolissima parte li condivide. Lo provano gli esiti elettorali degli ultimi due anni e i sondaggi. Gli elettori grillini s’aspettavano che i loro rappresentanti facessero più o meno quanto essi avevano promesso in campagna elettorale. Un po’ perché gli elettori non conoscono gli “obblighi” cui sono sottoposti i rappresentanti nel momento in cui scendono dai loro pulpiti e si siedono sugli scranni parlamentari, e un po’ perché sono a volte fanaticamente convinti che cambiare certi metodi si può e si deve a prescindere. Nel momento in cui gli elettori si accorgono che tanto non accade e si dice apertamente da parte dei loro rappresentanti perché non accade, allora non si può che prendere atto della delusione e del fallimento.

I Cinque Stelle su che cosa poggiano i loro comportamenti, le loro pretese di essere migliori di chi li ha preceduti? Su una migliore cultura? Su una più fondata esperienza? Sulle loro credenziali etiche? – Onestà! Onestà! – Su che cosa, se poi si perdono nelle miserie di un voto su un provvedimento, sbagliato, per non far cadere un governo altrettanto sbagliato?

Non è la prima volta nella storia che quel pubblico che ha portato agli altari un uomo o un gruppo di uomini poi si rivolti contro quando si accorge di essere stato tradito. I Cinque Stelle fanno pensare a Masaniello, il pescivendolo napoletano assurto a capopolo per fondate ragioni e fondati comportamenti; ma finì non molto dopo per essere ucciso dai suoi stessi, i quali infilzarono la sua testa su una picca e girarono la città. Non siamo a quei tempi, ma la fine ingloriosa e indecorosa dei Cinque Stelle aspetta solo di essere ratificata dal voto popolare. È la nuova picca. E forse anche per questo essi non vogliono che si voti nell’imminente.

sabato 5 dicembre 2020

Saremmo alle comiche se non ci fosse da piangere

Siamo in una situazione davvero incredibile. Da anni si susseguono cose incredibili in questo “incredibile” paese. Da incredibilità ad incredibilità siamo giunti a non credere più in niente. Il governo giallorosso di Conte non cade nonostante non si tenga in piedi. Per un verso chi più lo attacca all’interno e dall’esterno, per un altro chi più gli attacca paletti per tenerlo ritto, come si fa ad una pianta tormentata da venti contrari. L’ultimo e il più convincente sostegno è che non può cadere perché se cadesse non ci sarebbe una soluzione parlamentare ma non si potrebbe neppure votare, stante la furia della pandemia.

Ci sarebbe da obiettare su entrambe le cose. Sulla possibilità di alternative parlamentari, si osserva che valgono quando convengono per certe forze politiche dell’establishment e non valgono per altre. Il principio dovrebbe essere lo stesso: se in Parlamento c’è una maggioranza, balorda e sgangherata quanto vogliamo, va sperimentata. La maggioranza gialloverde prima e quella giallorossa dopo non erano più attendibili di un’ipotetica terza, magari tricolore. Ne abbiamo viste di tutti i colori in questi ultimi trent’anni. Quanto all’inopportunità di votare in piena minaccia pandemica, non si può non ricordare che non è da molto che si è votato per le regionali (20-21 settembre).

Secondo Marzio Breda, che porta sul “Corriere della Sera” la voce del Quirinale, il Presidente Mattarella è preoccupato (Corsera del 04.12.2020). La causa è sempre la stessa: è l’implosione dei 5 Stelle. L’inarrestabile emorragia di voti, di credibilità e di compattezza ha portato questo partito sull’orlo della scissione. Mentre la componente più governativa si identifica sempre più col sistema geneticamente inviso e combattuto, l’altra alza la voce e minaccia iniziative traumatiche. Non vogliono il Mes ma non vogliono neppure la riforma del Mes. Minacciano di non votarla in Parlamento, col rischio di far giungere l’Italia davanti al consesso europeo senza una condivisa politica estera. Dietro questi contrasti nei 5 Stelle ci sono ben altre ragioni di identità e di posizionamento politico. Ormai questo non è più un movimento ma non è ancora un partito, mentre le fughe si susseguono senza sosta. Il Pd fa sapere che tutto questo minaccia il governo e che senza politica estera non si va da nessuna parte. Dunque le due componenti più consistenti della maggioranza sono in fibrillazione e minacciano – scientemente e incoscientemente – di farlo cadere.

Dall’esterno, dalle opposizioni – ça va sans dire – il governo è attaccato perché cerca di tenere insieme le forze di maggioranza con provvedimenti sui quali esse sono d’accordo, vedi la riforma dei decreti sicurezza. Salvini e Meloni trovano davvero incomprensibile come in tante difficoltà in cui si dibatte il paese, il governo non trovi niente di meglio che aprire i porti ai migranti. L’unica politica “estera” di questo governo credibile è quella contro l’unico “estero” possibile in Italia, quello delle opposizioni. Più si dà addosso a Lega e Fratelli d’Italia e più 5 Stelle e Pd trovano motivi per mettere da parte i contrasti propri e intendersi sulle cose che poi non riescono a fare di comune accordo. Ma si deve anche riconoscere che le manifestazioni inscenate in Parlamento con cartelloni “Conte dimettiti” evocano situazioni assai più gravi e dunque tendono a far apparire la situazione non più sostenibile.

Il governo probabilmente non cadrà. A convincerci di tanto è l’inconsueta fermezza di Giuseppe Conte sulle misure precauzionali anti Covid. Nonostante le varie lamentele da più parti sulle chiusure e sulle aperture, su questo o quel colore di questa o quella regione, egli ha proseguito imperterrito, anche se sempre più chiaro appare che certi provvedimenti nei confronti delle regioni a governo di centrodestra (Lombardia e Veneto) siano più duri rispetto a quelli a governo di centrosinistra (Campania e Puglia). Ma qui non si può non osservare come il medico – in questo caso il governo – finisce per essere più bravo ed efficace proprio nei confronti di chi cerca di colpire di più con provvedimenti duri ma terapeuticamente migliori. Ci sono i risvolti economici, è vero, ma ormai di questa epidemia sappiamo che va affrontata prima di tutto per la sua minacciosità fisica. Il noto detto “finché c’è vita c’è speranza” calza a pennello in questa congiuntura.

Ma se il governo non cade non può evitare di dimostrarsi sempre meno adeguato. Non tanto e non solo per la figura di Conte, sul quale la storia avrà più materiali probatori per giudicarlo, quanto per la mancanza di governance, per la mediocrità della maggior parte dei suoi ministri e vice.  

sabato 28 novembre 2020

Maradona lo comandava il diavolo

In nessuna lingua del mondo come in quella popolare trovi a volte le risposte più giuste e puntuali di fronte ad un fenomeno inspiegabile, naturale ma che naturale non sembra. Ce n’è una nel nostro dialetto che ora, nel caso di Maradona, calza a puntino. Lu cumannava u tiàulu (lo comandava il diavolo). In italiano non rende la stessa idea. Tutto quello che realizzava in campo e fuori era opera del diavolo, che di lui si serviva per entusiasmare e per irritare, per esaltare e per condannare, per innalzare al cielo e per sprofondare negli abissi. Era l’avatar del maligno. Chi ha detto che il diavolo suggerisce solo il male? Fa una cosa e l’altra, il male e il bene, con lo stesso spirito beffardo.

Con Maradona riusciva magnificamente. Quando il calciatore semina come coriandoli sei avversari in un percorso di cinquanta metri e finisce quasi per entrare in rete col pallone dopo aver beffato perfino il portiere è il diavolo in lui. Lo abbiamo visto tutti nella famosa finale tra Argentina e Inghilterra in Messico. Così come quando con la mano segna il gol che farà infuriare gli inglesi per la vita è ancora il diavolo che lo comanda, un diavolo argentino, che si prende la rivincita per la sconfitta militare delle Malvinas.

Lo ricordiamo ancora noi juventini quando in una punizione dal limite, a pochi metri di distanza dalla porta, con la barriera da superare in una famosa partita che vale lo scudetto, beffa il povero Zoff con una micidiale strafottente falciata al pallone fermo.

Ce ne sono tante di simili diavolerie sul campo operate dal diavolo tramite Maradona che è inutile star qui ad elencarle tutte; e, poi, le opere buone del diavolo sono belle se le vedi e dunque corriamo tutti a vedercele ogni tanto. 

Ma il diavolo non è lui se non fa anche il male; e il male lo fa in un modo altrettanto beffardo. Il Maradona degli ultimissimi tempi era una caricatura, qualcosa di grottesco, malfermo su quelle stesse gambe di tante incredibili imprese. Con Maradona si scapriccia e col male che gli fa fare a se stesso riesce perfino ad eguagliare il bene che gli aveva consentito, abbrutendolo in tutti i modi possibili: con la droga, con le donne, con l’alcool, con la malavita, con l’esaltazione di tutti i regimi populistici dell’America latina. Maradona andava con chiunque avesse il potere, specialmente quello diretto, violento, totalitario come in genere quello dei dittatori. A suo modo anche la camorra è un potere diretto e totalitario; e per questo entusiasmava quell’uomo, abituato a convivere col diavolo che aveva in corpo. Trascorrere una nottata in compagnia di potenti camorristi, fra belle donne e fiumi di cocaina, per lui, per il suo demone, valeva una partita di pallone vinta su poveri avversari annichiliti dalle sue imprese diaboliche, a volte su avversari degni del massimo rispetto, bravissimi ma umani. Oggi il termine populismo coi suoi derivati è di moda, è facile usarlo anche per Maradona. Ma così è. Egli è stato l’incarnazione del populismo più bello e chiassoso, più diretto e aggressivo.

Non si potrà mai stabilire se come calciatore è stato lui il più grande di tutti perché ogni confronto non regge, perché gli altri, pur immensi, non “godevano” dell’ispirazione e dell’aiuto del diavolo. Pelè resta per ora insuperato, ma Pelè non ha mai fatto, né in campo né fuori, cosa che possa minimamente far pensare al soprannaturale, all’incredibile. Sicuramente altri ne verranno – è il bello della storia – non tantissimi, ma capaci di far pensare che qualcosa di diabolico si nasconda nei loro piedi, nella loro testa o nelle loro…mani. Allora forse si potrà tentare un paragone. Inutile, peraltro, perché il diavolo, comunque si vesta, è sempre simile a se stesso e come Paganini non si ripete. Per ora a Maradona auguriamo pace e riposo, umanamente intesi.