domenica 29 settembre 2013

Berlusconi è un macigno che rotola giù


Stupisce – ma forse è improprio il verbo – che tanti senatori e deputati, per quanto siano stati nominati e non eletti, si siano messi agli ordini di un uomo, Silvio Berlusconi, che ormai è un macigno che rotola giù a valle e travolge tutto ciò che incontra. Forse si capisce perché lo facciano: pensano che mettendosi davanti come rincalzo riescano a non farlo precipitare. Ma è follia pura, perché ormai ha percorso gran parte del pendio, Berlusconi, e aspetta solo di toccare il piano e fermarsi definitivamente.
Le dimissioni in massa da parlamentari, ad eccezione di Giovanardi, che da buon democristiano ha capito che per Berlusconi è finita, e le dimissioni dei ministri, criticate da Cicchitto, che da buon socialista, è pratico di vie d’uscita, stanno mettendo in crisi mezza Italia, l’Italia del centrodestra, un’Italia che lavora o vorrebbe lavorare, che produce o vorrebbe produrre, che tiene alla libertà o vorrebbe tanto essere libera. Quest’Italia rischia di non avere più, per i prossimi dieci anni, un’adeguata rappresentanza politica.
D’altra parte è superficiale e riduttivo dire che tutta la buriana dipende da un uomo solo, come si vuol far credere. D’accordo, Berlusconi avrebbe potuto compiere un gesto forte e virile – lui che tiene tanto alla virilità! – e dimettersi subito dopo la condanna confermata dalla Cassazione e gestire la sua uscita con dignità. Nella vita accade anche di essere sconfitti. Tutti i grandi della storia, sconfitti, hanno compiuto gesti nobili, pur nella certezza di aver combattuto per una causa giusta. Lui non l’ha fatto perché è espressione di una società malata, la società delle apparenze, dell’immagine, del sembrare a tutti costi anche ciò che non si è più o non si è mai stati; una società non di cittadini ma di guappi. L’Italia è stata guappizzata non solo dalle mafie ma anche dal berlusconismo per un verso e dall’antiberlusconismo per un altro
Non solo Berlusconi, perciò, nell’ostinatezza di una classe politica che facendo cadere il governo dà battaglia a rischio di un disastro politico generale. C’è un’Italia che non vuole essere governata dalla sinistre, che vuole riprendere la sua strada, quella di tanti imprenditori che negli anni hanno fatto l’Italia grande nel mondo coi loro marchi, oggi tutti venduti o svenduti perché non protetti da una chiara politica nazionale e travolti dalla globalizzazione selvaggia. E’ l’Italia che vorrebbe conservarsi in tutta la sua dimensione politica, sociale, culturale e produttiva. Quella che potrebbe definirsi dei conservatori, dei moderati, che nella sua storia ha trovato forme diverse di organizzazione del potere ma ancorata agli stessi valori di fondo: l’Italia liberale, l’Italia fascista, l’Italia democratica. L’Italia che non vuole avere nella magistratura il braccio armato di una parte politica, ma un importante ramo dello Stato di diritto, forte e separato dagli altri, a garanzia di tutti.
Berlusconi a parte, il problema della magistratura è di una dimensione enorme. Questo terzo potere dello Stato ormai si è arrogato il diritto di interferire nella politica e nell’economia senza avere né al di sopra né al lato altro potere che lo bilanci o lo controlli. In questa fase la magistratura si è posta al servizio di una parte politica, di cui è espressione e filiazione. Verrebbe di paragonare i parlamentari al servizio di Berlusconi ai magistrati al servizio delle Sinistre. E’ inoppugnabile – solo armati della più legnosa malafede si potrebbe negarlo – che essa si è avventata, come un cane aizzato dal padrone, contro l’ospite indesiderato per ridurlo a brandelli. Non si è lasciata sfuggire occasione di dimostrarlo nei cinquanta e passa processi contro Berlusconi, fino alle eclatanti sentenze risarcitorie nei confronti del comunista miliardario ed evasore fiscale De Benedetti e della moglie divorziata Veronica Lario, subissati di danaro berlusconiano.
La differenza che passa tra un magistrato corretto ed un magistrato deviato è che il primo assolve l’imputato, anche quando è convinto della sua colpevolezza ma non ha le prove; il secondo lo condanna a prescindere e in difetto dei reati da contestargli e delle prove s’inventa gli uni e le altre. E’ quanto accaduto con Berlusconi: alle leggi ad personam si è risposto con sentenze contra personam.
Questa magistratura fa paura al cittadino. Nessuno in Italia nega il conflitto di interessi di Berlusconi, i suoi eccessi di vita, il suo ostentare ricchezze e potere, le sue indecenze e stravaganze, che a volte lo hanno reso odioso a tanta gente; ma gli italiani convinti della bontà dello Stato di diritto avrebbero voluto che Berlusconi venisse condannato per reati veri e non inventati, con prove vere e non immaginate. Berlusconi doveva rimanere una questione politica, come più volte a parole hanno dato ad intendere che volessero i suoi avversari dello schieramento opposto.
Nei confronti di Berlusconi si è creato un fronte non tutto visibile. Come sa chi frequenta la storia, sempre e in tutte le società il potere politico ha avuto due livelli: uno è quello delle regole, degli ordinamenti, dei fatti che si sentono e che si vedono; l’altro è quello della cosiddetta ragion politica, è il livello in cui si fa non quello che la costituzione e le leggi dicono ma quello che in quel momento è più importante per gli interessi concreti del Paese. Per fare un esempio: l’accordo Stato mafia per porre fine agli attentati terroristici dei primi anni Novanta, per il quale oggi la Procura di Palermo vuole ascoltare come testimone il Presidente Napolitano. Cosa è accaduto in questo secondo livello: si è ordito anche lì contro Berlusconi o improvvisamente, in questo strano “Eldorado” che è l’Italia di oggi, il secondo livello non c’è più?
Chi della politica ha una conoscenza scientifica sa che il secondo livello, quello della ragion politica, c’è e non potrebbe non esserci. Si arguisce pertanto che la ragion politica non è andata in direzione di quello che si dice e si ostenta: il bene dell’Italia, ma in direzione dell’annientamento di quello che da vent’anni è considerato il male assoluto dell’Italia.
La ragion politica avrebbe potuto salvare Berlusconi e il Paese; la ragion politica lo ha annientato. Che sia questo il bene superiore per l’Italia è da dimostrare. Il resto è solo un vociare confuso come il frinire delle cicale che si scatena in un assolato meriggio d’estate.

domenica 22 settembre 2013

Situazione politica: Pronti, via al nulla!


Nei giorni scorsi abbiamo visto e ascoltato quattro illustri personaggi della nostra quotidianità politica esprimere il proprio punto di vista su un medesimo argomento con incredibile difformità di valutazione e di giudizio. Argomento: rapporto tra politica e giustizia.
Abbiamo sentito Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, difendersi dalle condanne penali, aventi ricadute politiche, attaccare la magistratura che, a suo dire, da vent’anni lo perseguita (50 processi). Abbiamo sentito Guglielmo Epifani, segretario del Pd, difendere lo Stato di diritto dagli attacchi di Berlusconi, che, a suo dire, non è più nella condizione di doversi difendere ma semplicemente di doversene andare. Abbiamo visto e sentito Enrico Letta, presidente del consiglio, difendere la magistratura, che fa il suo dovere e non perseguita nessuno. Abbiamo visto e sentito Giorgio Napolitano, presidente della repubblica, che dice basta contrapposizione tra magistratura e politica: vogliatevi tutti bene.
Tra i quattro, Berlusconi è isolato: gli altri tre gli danno torto, la magistratura ha ben operato, dunque nessuna persecuzione nei suoi confronti, si metta l’animo in pace e non se ne parli più.
Ma possono i tre illustri interlocutori fare questo ragionamento? Se lo hanno fatto e lo fanno significa che possono. Che domande! Ma la politica non è il regno della ragione e i collegamenti con l’intelligenza universale, di cui parlava Aristotele, si sono interrotti da tempo.
E, allora, no; non possono fare ragionamenti così drasticamente antiberlusconiani. Se non altro perché Berlusconi  sta saldamente nel gruppo dei quattro personaggi, tutti protagonisti e sostenitori, a vario titolo, del governo attuale, e dicono di essere d’accordo su un punto: il Paese prima di tutto. Se Berlusconi è organico al bene del Paese, come par di capire, nel momento in cui si sfilasse dal gruppo di “benefattori”, il governo cadrebbe. Se ciò accadesse, stando a quanto dicono tre volte al giorno ognuno di essi, sarebbe la rovina. Un rompicapo: tutti dicono che bisogna stare insieme per il bene del Paese e tutti, poi, fanno di tutto per dividersi.
Si dà il caso che in questo perseguire prioritariamente il “bene del Paese” il più pesto di tutti è Berlusconi; gli altri, Napolitano non rimette niente, è super partes, Letta ci guadagna, Epifani spera di guadagnarci.
Berlusconi, benché indicato e trattato dai suoi “sodali” come il nemico di sempre, non si sfila, non se ne va, anzi proclama il suo impegno per il suo partito, per il governo e per l’Italia. Forse Berlusconi sotto sotto sa di aver torto? Forse pensa che alla fine chi la dura la vince, come dice un proverbio, non estraneo al suo modo pensare? Questi forse e molti altri forse non aiutano a capire. Ci sono elementi di relativa oggettività per fortuna che illuminano la scena. Uno in particolare: Berlusconi si sente il meglio piantato di tutti.
Paradossalmente e a dispetto delle condanne giunte e di altre in arrivo, il più saldo sulla scena è il Cavaliere, tant’è che lui non si preoccupa dei suoi tre compagni di strada, che potrebbero perdersi a breve, ma di uno che al momento è fuori ed è in concorso di entrare nell’agone politico; pensa a Matteo Renzi. Il quale all’Assemblea del Pd di sabato, 21 settembre, ha detto ai suoi che è meglio governare da soli. Ma guarda, anche l’acqua calda gli è seconda!
Napolitano – che il Signore gli dia cento anni altri di vita! – non promette longevità politica, che è altra cosa dalla longevità biologica. Dunque, rispetto a Berlusconi, è più provvisorio. Epifani è geneticamente provvisorio, infatti è nato segretario politico del Pd per preparare il Congresso, cosa che non dovrebbe andare oltre gli inizi dell’anno prossimo. Letta è il più provvisorio di tutti, potrebbe non arrivare a mangiarsi il panettone, come quegli allenatori di squadre di calcio esonerati anzitempo. Lui dice che vuole giocare all’attacco; ma all’attacco di chi? Nel Pd, parole di circostanza a parte, è malvisto. E’ considerato un raccomandato, uno che per una serie di circostanze favorevoli si è ritrovato da grigio vice di Bersani a presidente del consiglio, così senza sapere né leggere né scrivere. Prendiamo le parole nel loro significato gergale, perché poi Letta il fatto suo lo sa, e lo sa bene.
Quel che si vede nelle immediate vicinanze – l’orizzonte è nascosto dalla nebbia – è un centrodestra e un centrosinistra in crisi. Il Pdl di fatto è regredito in Forza Italia. Di quelli che una volta venivano chiamati forse anche con una forzatura, ma senz’altro con immediata comprensione, neofascisti nemmeno l’ombra. La destra moderna ed europea di Fini è archeologia partitica. Gli altri sono gruppuscoli, che messi assieme non raggiungono la percentuale per superare lo sbarramento. Per fortuna c’è il transatlantico berlusconiano che rimorchia tutti; per lo meno è speranza di naufraghi.
Nel centrosinistra le cose non stanno meglio. Dopo il fallimento di Bersani, non si intravede una leadership attendibile. Si sarebbe dovuti andare ad elezioni anticipate alla fine del 2011, ma il partito evidentemente non era pronto. Manca una leadership, nonostante non manchino gli uomini. Per vincere il Pd aveva ed ha bisogno ancora oggi del Sel di Nichi Vendola, che, però, non concede nulla gratia et amore Dei. E, allora, il percorso diventa complicato, come già è accaduto in passato. Forse Renzi, quando dice che è meglio governare da soli non si riferisce soltanto ai nemici-amici del Pdl, ma anche agli amici-nemici vendoliani e sinistri in genere.

A fronte di questa frammentazione politica c’è la minaccia delle elezioni politiche anticipate, che potrebbero essere più vicine di quanto non sembri. Ma neppure per questa eventualità si è attrezzati. Manca un sistema elettorale adeguato alla circostanza, che dia indicazioni sicure di vittoria, che consenta stabilità governativa e che alla fine, come accade in questo straordinario Paese, non diventi il capro espiatorio di anonime responsabilità politiche. Come accade da un po’ di anni a questa parte col povero porcellum.  

domenica 15 settembre 2013

Letta, per qualche giorno in più


Il governo Letta mi ricorda il titolo di un film e l’agonia di un governo. Il film è “Per qualche dollaro in più”, della serie western di Sergio Leone, con quel grandissimo attore che è Clint Eastwood. Il governo è il secondo di Romano Prodi, che visse qualche giorno in più grazie ai senatori a vita, mai così pietosamente utili, e perciò mai così insulsamente offesi dalla concorrenza del centrodestra.
Il voto della Giunta alle elezioni del Senato che si sta occupando della decadenza o meno di Berlusconi da senatore è stato rimandato a mercoledì sera, 18 settembre, dopo furibonde polemiche. Si è subito detto che il rinvio aveva salvato il governo. Ma, che differenza fa se il governo cade quattro giorni prima o quattro giorno dopo? Non si capisce, come non si capiscono tante altre cose in questo nostro Paese.
Non si capisce, per esempio, perché Letta porti avanti la politica degli annunci, dopo che proprio lui più volte l’aveva rimproverata all’ultimo governo Berlusconi. E sì che il Cavaliere poteva anche annunciare, dato che aveva “davanti” il tempo per far seguire qualcosa e “dietro” un mandato popolare: aveva vinto le elezioni. Mentre lui, Letta, non ha vinto un bel niente, ha una mano davanti e un’altra dietro; è espressione di un partito-arlecchino, che, dopo minacce di sfracelli contro l’odiato nemico Berlusconi, si è accoppiato col suo centrodestra, generando, come la mitica Pasife, un brutto Minotauro.
Ancora, non si capiscono i proclami di Letta sulla funzione storica del suo governo, che, a suo dire, non si limita a galleggiare ma a fare l’Italia vecchia-nuova. A Bari, parlando alla Fiera del Levante, ha detto che l’Italia non si farà dettare da Bruxelles il patto di stabilità, ma che se lo elabora e approva da sé, perché ormai il nostro non è un Paese sotto sorveglianza europea. Peccato che nel mentre lui dice queste cose scorrono sullo schermo televisivo i titoli che riportano i dati del nostro ritardo a uscire dalla crisi, delle nostre insistenti e persistenti difficoltà economiche. Poi, adeguandosi al clima di minacce e ricatti delle forze politiche della sua coalizione, avverte che se cade il governo si pagherà l’Imu e il patto di stabilità ce lo imporrà Bruxelles.
Sparare sul governo, però, è come sparare sulla Croce Rossa. E’ un governo nato per volontà di Napolitano, che a sua volta, come presidente rieletto, è figlio dell’impotenza politica. Sono cose che sappiamo, le abbiamo vissute solo alcuni mesi fa. Nessuno ce le ha raccontate, magari falsandole; no, le abbiamo proprio viste coi nostri occhi, sentite con le nostre orecchie, toccate con le nostre mani. Si tratta di una serie di provvisorietà, ad incominciare dalla presidenza della repubblica, per passare al governo. Provvisorietà pianificate e accettate, anche se avvolte da una normalità funzionale a farsi credere di lunga durata.
Il percorso è scoperto: presidenza della repubblica e governo durano giusto il tempo per far fuori Berlusconi e possibilmente fare una legge elettorale per votare subito dopo. Se così non fosse, la presidenza della repubblica, come tante altre volte è accaduto nella storia di questo Paese, avrebbe rimosso la causa che rende precario questo governo, ossia la condanna di Berlusconi. Berlusconi, assolto per non aver commesso il fatto o per prescrizione, avrebbe garantito lunga vita al governo Letta o avrebbe costretto gli “abatini” del Pd a impuntarsi contro di lui, per aprire ad una nuova fase. Nota 1: gli abatini, termine coniato da Gianni Brera, erano quei calciatori bravi e geniali ma gracili e vigliacchetti come Rivera, Mazzola, Bulgarelli, che spesso e volentieri tiravano la gamba indietro. Proprio come sono i tanti candidati a tutto che si aggirano oggi nel Pd. Niente da paragonare, sempre usando il lessico di Gianni Brera, a Riva “Rombo di tuono” o al duro Boninsegna detto “Bonimba”.
Forse Letta pensa di stare in una botte di ferro proprio perché a metterli insieme tutti, gli abatini del Pd, non fanno un discreto politico vero. Forse Letta si sente al sicuro per l’inconsistenza del gran chiacchierare di Grillo e dei suoi pentastellati. Nota 2: Li chiamano così i giornalisti amici, con un termine davvero spropositato, probabilmente con intento risarcitorio, dato che sono delle meteoriti vaganti in cerca di aggregarsi e formare davvero qualcosa. Forse Letta Enrico spera nella protezione dello zio Letta Gianni, uomo di grande influenza su Berlusconi. Non è un rapporto da niente. Berlusconi è un sentimentale. Fosse stato per lui avrebbe fatto Apicella ministro e don Verzè santo subito. Un dispiacere al suo fido Gianni non lo farà a cuor leggero.   

Dunque Letta aspetta e spera che dopo un giorno viene l’altro e l’altro ancora. Ma non c’è catena che non esaurisca i suoi anelli. La condanna di Berlusconi segnerà la sua fine, inevitabile. Può anche succedere che considerato decaduto dalla Commissione, Berlusconi venga poi salvato dal Senato che voterà in segreto, come vuole il regolamento. Ma qualora tanto si verificasse, il governo cadrebbe lo stesso, perché questo governo è nato con uno scopo, non dichiarato e perciò non manifesto. Se raggiungerà lo scopo tanto meglio, se non lo raggiungerà tanto peggio. Ma nell’uno come nell’altro caso per Berlusconi è la fine e per Letta nipote quanto meno la fine di questa esperienza. Rimarrà probabilmente come risorsa per altre similari soluzioni, perché Letta è di quei politici “a Dio piacenti e agli amici sui”, figura tipica di quella grande famiglia che è stata la Democrazia cristiana.

domenica 8 settembre 2013

Napolitano e i Senatori a vita


Chi è al potere in Italia – la precisazione è d’obbligo – può anche rubare, uccidere, dire il falso, violare tutti i comandamenti di Dio e degli uomini, senza mai apparire minimamente sporco, come se l’atto fosse nato già battezzato. In vena di andreottiani aforismi dico che il potere è sporco per chi non ce l’ha.
Mi è capitato più di una volta di parlar bene del Presidente della Repubblica Napolitano. E’ accaduto quando coi suoi atti e comportamenti ha dato dimostrazione di saggezza e di autorevolezza. Da buon italiano, conosca o meno Dante, egli si sente sempre risuonare nelle orecchie l’apostrofe metaforica della “nave senza nocchiero in gran tempesta”. Che non si debba mai dire che con Napolitano al comando la nave Italia è senza nocchiero!
Ora, all’insegna, del giornalismo “banderuola”, da me propugnato, devo dir male, perché dal male spira il vento degli ultimi suoi atti presidenziali, sempre più pontificali, decisioni in stile motu proprio.
Mi riferisco alla nomina dei quattro senatori a vita. Nulla da dire sulle straordinarie personalità “nominate”. Avrei difficoltà a trovarne una quinta che stesse alla pari. Qualche perplessità per la scienziata Cattaneo, ma solo per la sua giovane età. Si può dire che essa abbia vinto un vitalizio – e che vitalizio! – senza grattare. Gli altri sono veramente al top del merito e del lustro internazionali: Abbado, Rubbia, Piano. Abbiamo di che vantarci in assoluto. Non è sulla scelta degli uomini, dunque, ma sull’opportunità di nominarli in questo momento che nascono i dubbi, le perplessità e, diciamolo pure, i sospetti. Ritengo che sia stata una furbata presidenziale. Ne spiego le ragioni.
Primo. Napolitano è stato rieletto, caso unico nella storia della Repubblica, perché c’è stata una crisi politica che non ha consentito di eleggere normalmente un nuovo presidente. Non è questione di forma, ma di sostanza; se vogliamo, di politica. Napolitano II dovrebbe sentirsi un presidente di ripiego, perché tale lo qualifica la storia. Se avesse considerato il suo status non giuridico ma politico non avrebbe nominato i quattro senatori a vita. Tanto più che queste nomine seguono quella di Monti per la manovra politica che tutti conosciamo. Non è politicamente corretto servirsi per calcolo politico di una facoltà che la Costituzione concede per nobili motivi. Ma va da sé che in politica è corretto tutto ciò che serve al perseguimento dei propri fini.
Secondo. Gli Italiani boccheggiano, non hanno lavoro, si vedono tagliati gli ospedali, i tribunali. Le carceri alcune sono chiuse, altre sovraffollate e in attesa di graziosi svuotamenti. Le scuole sono alle prese con insegnanti precari e supplenti nonostante i vincitori di concorso. I servizi pubblici sono ridotti. Gli italiani temono e tremano ad ipotesi greche, che non sembrano lontane. E Napolitano, come se fosse il Presidente della Repubblica di Platone, nomina senatori a vita quattro persone degnissime ma altrettanto ricche di proprio. Via, un po’ di rispetto per chi tra la bocca e lo stomaco misura un miglio di via, come un vecchio modo di dire popolare rappresenta il digiuno.
Terzo. C’è una ragione per la quale i quattro sono stati nominati, che l’excusatio non petita del Presidente ha rivelato. Di qui a non molto il Senato si troverà a pronunciarsi sulla decadenza di Berlusconi. Quattro altri voti contro di lui sono come la manna piovuta dal cielo. Quanto deve ai senatori a vita Romano Prodi lo dicono le cronache del suo rantolante ultimo governo. Napolitano ha fatto capire, rivelando la ragione della nomina, che si tratta di quattro personalità politicamente al di sopra di destra e sinistra. Forse ha confuso la scienza e l’arte con la destra e la sinistra, dato che Rubbia e Cattaneo sono due scienziati, Abbado e Piano due artisti. Ma non è questione di essere al di sopra o al di sotto, questi signori, pardon, senatori dovranno votare e allora voteranno come quel venticello proveniente dal Quirinale suggerirà.
Non siamo ancora diventati tutti fessi in Italia. Napolitano lo sa, ma è un uomo di potere, oggi pressoché insindacabile. E se il potere è di per sé “pulito”, quando è insindacabile è addirittura “splendente”. Se veramente i quattro senatori nulla hanno a che fare con la politica, il giorno in cui si voterà per far decadere Berlusconi dovrebbero non presentarsi in aula. Se si presenteranno e voteranno vuol dire che sono certamente delle personalità eccezionali nei loro rispettivi ambiti, ma che avranno barattato la loro dignità. Il che francamente non è una bella cosa, di cui il Presidente della Repubblica si rende complice. Ce lo insegna quella bellissima favola di Apuleio, Amore e Psiche: qualsiasi desiderio, sessuale o politico, quando diventa irresistibile tentazione fa scomparire qualsiasi bellezza e purezza.

Dire queste cose è facoltà di ogni cittadino, diventa dovere per un intellettuale, il quale deve svelare gli inganni del potere. Il che si fa ardua impresa quando ad architettare tutto è il re o qualcosa che gli somiglia. Pazienza che a svelare gli inganni ci si sporca! Chi svela lo fa da una posizione che si contrappone a quella di chi inganna, dove non c’è battesimo o candeggina che tenga. Come in alto omnia munda mundis, come fa dire il buon Manzoni a Fra Cristoforo, così in basso omnia immunda immundis. Un intellettuale non gode a stare tra cose immonde, ma neppure si spaventa. Perché è il pulito che insospettisce; non lo sporco, che qualche volta riserva interessanti sorprese.   

domenica 1 settembre 2013

Siria: un plauso al governo italiano


Quando ci vuole, ci vuole! Il governo italiano merita un plauso, ha detto no all’intervento in Siria quando i venti di guerra soffiavano forte dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Francia. Poi si sono tutti placati. Ha detto no il Parlamento inglese, mettendo in crisi il premier Cameron che era per l’intervento; ha detto no la Nato; ha detto quasi no perfino la Francia della sempre proverbiale “furia francese”; e perfino gli Stati Uniti non sono più così certi, anche se per “parola detta” continuano a minacciare. Sia negli Stati Uniti che in Francia l’opinione pubblica si sta mobilitando per scongiurare l’intervento.  Solo la Germania con noi, fin dall’inizio. Fa piacere che il proprio paese faccia scelte giuste, che portano bene e prestigio.
Ma perché no all’intervento? Per paura? Anche! In Libano ci sono i nostri militari, che sono lì a garanzia della pace. Per prudenza? Certo! Il conflitto potrebbe deflagrare perché Russia e Cina sono contrarie all’intervento e perché l’Iran altro non aspetta per colpire Israele, a cui è estranea la filosofia cristiana del porgere l’altra guancia. La Turchia, che ha problemi interni, è pronta a colpire e a trasferire fuori i guai di casa. Ci piace pensare che il no italiano abbia avuto anche un motivo economico. Nelle condizioni in cui si trova il nostro paese, spendere altri soldi, che peraltro non ci sono, per partecipare all’intervento armato contro la Siria sarebbe stato uno sproposito.  
Ma “no”, soprattutto perché le ultime lezioni di politica internazionale, a partire dall’Iraq fino alla Libia, attraverso la Tunisia e l’Egitto, hanno insegnato una cosa semplicissima. Le vicende interne di un paese non sono mai così chiare come si vuole dar ad intendere; non lo sono in origine e meno ancora nell’epilogo. La cosiddetta primavera araba dei soliti visionari occidentali che vedono primavere ad ogni scàzzica di vento si è rivelata come la più rapida e ingestibile destabilizzazione dell’intera Africa mediterranea, con gravissimi problemi per i paesi colpiti. Si capisce niente in Tunisia? Si capisce niente in Libia? In Egitto s’incomincia a capire qualcosa perché è scattata la reazione militare per recuperare il paese alla sua tradizionale posizione. 
A noi italiani sarebbe convenuto che Gheddafi campasse mille anni. Lo prendevamo per “fesso” come volevamo, con qualche pagliacciata in casa nostra, ma allo stesso tempo ci assicuravamo mercato e stabilità dirimpettaia. Con Gheddafi non arrivavano in servizio di linea tutti i profughi, chiamiamoli così, dall’intero continente africano ed ora dal Medio Oriente, che sono arrivati dopo la sua scomparsa. Gheddafi era per noi italiani e occidentali un punto di riferimento sicuro. Ed oggi viene il sospetto che sia stato fatto fuori proprio per questo. Se Berlusconi non fosse stato il leader azzoppato e screditato che era presso i suoi colleghi europei e l’opinione pubblica internazionale si sarebbe opposto all’attacco alla Libia, perché in politica si fa ciò che è utile al proprio paese, non si fa ciò che piace agli altri. Uno statista applica Machiavelli non Superman. In politica, tra alleati, non si deve imporre ma neppure subire. L’eliminazione di Gheddafi noi l’abbiamo subita e oggi ne paghiamo le conseguenze.  
L’attacco chimico a Damasco, che è cosa assolutamente intollerabile, non è certo e purtroppo non è accertabile chi sia stato ad effettuarlo, se il regime di Assad o i ribelli, che finora hanno dimostrato di saper tenere testa al regime e di avere anche teste pensanti per adottare politiche militari fuorvianti. Nessuno oggi si sogna di pensare che i ribelli siano forieri di primavere. Sono i rappresentanti più fanatici del mondo musulmano, di Al Quaeda, ossia dell’organizzazione terroristica mondiale più attrezzata, diffusa e pericolosa. 
Gli americani si son risentiti per i toni del nostro ministro degli esteri, la radicale Emma Bonino, perché non sono abituati alle posizioni ragionate, non sono abituati a contare almeno fino a dieci prima di prendere la corda e appendere il presunto colpevole all’albero, come facevano nel Far West i loro progenitori. Ora gli Americani rischiano di perdere la faccia un’altra volta, dopo le tante nel corso del Novecento e di questo inizio di millennio. Dicono di lavorare per la pace. Obama ha addirittura ricevuto il Nobel della pace, ma intanto accendono focolai di guerra in tutto il mondo. La guerra, comunque accada, è la sconfitta della politica. E gli Americani dovrebbero interrogarsi sulle ragioni della loro incapacità politica di tenere buono il mondo. La loro superiorità militare ed economica ha imposto una superiorità politica che non hanno.
A certe situazioni, come l’uso della armi chimiche, non si dovrebbe arrivare. Purtroppo né gli Stati Uniti né l’Europa riescono ad avere una politica di buoni ed efficaci rapporti con i vari Stati sparsi nel mondo, specialmente con quelli che una volta venivano definiti “canaglia”. Gli Occidentali hanno smarrito le doti politiche che avevano una volta. Quel che sanno pensare e fare oggi è muovere subito portaerei e minacciare ogni qual volta scoppia una scintilla, oggi in Siria, ieri in Corea, l’altro ieri in Libia e domani chissà. Non ci sono più rapporti confidenziali, fiduciari tra uomini politici di paesi diversi, per cui, a volte, bastava che essi si parlassero per trovare la soluzione di un caso anche spinoso.
In Siria si combatte da due anni. Una cosa orribile e terribile, una guerra civile che né gli Stati Uniti d’America né l’Europa sono riusciti a fermare, a ricomporre. Hanno assistito con le mani in mano, come se la questione non li riguardasse. E invece li riguarda, ci riguarda. Come ci riguardava la Tunisia, come ci riguardava la Libia, come ci riguardava l’Egitto.
In Siria sta accadendo quanto accadde in Libano un po’ di anni fa, tutti contro tutti, con un regime, che sarà anche duro e odioso, ma è pur sempre il governo legittimo, che cerca di salvare lo Stato e le sue istituzioni. Perché aspettare il momento per giustificare un intervento al buio, che non si sa dove porti, e non intervenire con la diplomazia per aiutare il popolo siriano a ritrovare la pace di cui ha goduto per tanti anni? La risposta probabilmente sta nella crisi non solo di uomini all’altezza delle situazioni ma anche delle istituzioni internazionali che durano ormai da troppi anni e conservano strutture e regole vecchie di settant’anni. Il diritto di veto che hanno le cinque potenze mondiali che compongono il Consiglio di Sicurezza, le vincitrici della seconda guerra mondiale, è anacronistico e invalida un’istituzione che potrebbe invece essere più puntuale ed efficace nell’azione dissuasoria.
Il no dell’Europa all’intervento in Siria potrebbe essere l’inizio di una svolta anche nell’ambito delle Nazioni Unite. Anche per questo il governo italiano si merita un bravo in condotta.