domenica 31 ottobre 2010

Berlusconi è malato. E gli altri?

“Famiglia Cristiana” ha detto che Berlusconi è malato, riprendendo la vecchia tesi dell’ex moglie del premier Veronica Lario, che, ai tempi della Noemi, così diagnosticò. Lo ha detto dopo l’ennesimo caso di sex-gate che lo ha coinvolto, quello relativo a tale Ruby, ragazza marocchina minorenne-maggiorata, che il Presidente del Consiglio avrebbe avuto sua ospite ad Arcore. In verità l’aspetto sexy è complicato dal fatto che Berlusconi sarebbe intervenuto presso la Questura di Milano a togliere dai guai la ragazza accusata di furto. Il profilo privato si è intrecciato così a quello pubblico. E se già quello privato non era edificante, quello pubblico è estremamente grave. Berlusconi ha rilanciato: “è spazzatura mediatica e comunque io amo la vita e le donne e non intendo cambiare”, aggiungendo così alla matassa un terzo filo, quello appunto della “salute”.
Inutile negarlo: i suoi comportamenti provocano disagio a tutto il Paese, probabilmente non a tutti i suoi elettori. Per ora i suoi sostenitori più razionali fingono una netta distinzione tra ciò che Berlusconi fa per così dire nei “fatti suoi” e ciò che fa nell’azione politica e governativa. Ma la finzione potrebbe venir meno e la verità snebbiarsi, anche per ragioni politiche, economiche e sociali, in cui il Paese sempre più gravemente si dibatte. Allora per coloro che non vogliono guardare ad un inguardabile centrosinistra, fatto di relitti della vecchia partitocrazia, che Matteo Renzi, giovane sindaco di Firenze, irriguardosamente ma giustamente dice di voler rottamare, il problema di un nuovo o diverso punto di riferimento si porrebbe. E, al pensiero, non c’è da stare allegri. Ci sarebbe Fini, potrebbe dire qualcuno. Ma Fini è fluido, liquido, assume la forma del contenitore dei suoi più immediati interessi; e quasi sempre sono interessi di carriera personale. Probabilmente non è neppure per calcolo consapevole. Gli è che non ha altro con cui sostanziare la sua azione politica. Per queste ragioni, non volendo giungere alla conclusione che è meglio non votare, dato che il voto è troppo importante per passarlo a sciacquone, il centrodestra deve cercare soluzioni coerenti e credibili, per il Paese prima di tutto e per i suoi sostenitori.
Ma, per tornare a Berlusconi e alle sue mattane, allo scopo di capire l’uomo e il politico, ma anche per capire perché nonostante tutto goda del favore di tanti italiani, bisogna riflettere su una vecchia categoria del politico. E’ la “dissimulazione onesta” dettata da Torquato Accetto nel ‘600. Consiste nel comportarsi in pubblico come è lecito (foris ut licet) e in privato come piace (intus ut libet). In questo sono stati maestri impareggiabili nella storia i Gesuiti e nel secolo i democristiani, ma in verità tutti gli esponenti della partitocrazia uscita dai Cln resistenziali sia di destra che di sinistra. Essi ne hanno combinate che ne hanno combinate! Ma lo hanno fatto nel chiuso, nel privato, protetti il più delle volte da un silenzio complice della stampa in una sorta di tacita intesa, solo raramente violata. E’ la prassi di tutti i politici di tutti i tempi e di tutti i luoghi della Terra, tranne che per tiranni e despoti. Imperatori ed imperatrici a Roma, per esempio, uscivano nottetempo con le loro scorte e travestiti si recavano nei lupanari, i postriboli di quei tempi, e si abbandonavano a schifezze irriferibili. Alla luce del sole, divinità smaglianti di simboli regali; al buio della notte lordure umane. Se sia giusto o solo conveniente comportarsi in questo modo lo dice la storia. L’etica lo impone. Chi viola la categoria della dissimulazione onesta è un “malato”. Berlusconi la viola. E’ dunque malato? Premesso che dovrebbero guardarsi dentro un po’ tutti, dall’ex attricetta Veronica Lario al direttore di “Famiglia Cristiana”, all’insegna del dettato evangelico, non si commette reato a voler capire i fatti e le persone.
Berlusconi non ha fatto gavetta politica, non ha perciò adeguata educazione. Per quanto il suo consigliere Gianni Letta somigli più ad un mandarino cinese che ad un viveur da riviera romagnola, è rimasto il milanese tipo: brillante, ottimista, affarista, vantoso e vanitoso, pronto ad esibire i suoi piaceri, sapendo di avere l’approvazione degli italiani, che nei suoi vizi e vezzi si riconoscono. Lui vuole far sapere di avere molti soldi, molte ville, che può realizzare tutti i sogni proibiti di tanti suoi connazionali e non solo, avere cioè ville di lusso in lusso, sedicenni di bellezza in bellezza. Avere tutte queste cose e non farlo sapere, secondo lui, non è da uomo normale, soprattutto da italiano medio, ma da politico, come lo teorizzava il Castiglione o il Della Casa, l’Accetto o il Mazzarino, che pur italiano era. Berlusconi è “malato” per questo. Se non amasse esibire i suoi piaceri sarebbe normale; sarebbe un vecchio democristiano, un ciellenista appena dismesso il fazzoletto al collo e il mitra a tracolla.
Altro discorso è quello dei suoi dichiarati avversari o nemici, i quali è da sedici anni che gridano “al lupo! al lupo!” anche quando in giro c’è solo un barboncino o un coniglio, una capretta o una gallina. Da sedici anni Berlusconi è assediato da avversari accaniti, arrabbiati, di ogni categoria: politici in primis e collateralmente magistrati, confindustriali, giornalisti, registi, attori e comici, e in fine famigliari e amici. Un altro sarebbe scoppiato. Lui resiste. Certo, il tradimento della moglie, che scrive a “la Repubblica” per accusarlo e dar ragione ai suoi avversari, e quello di Fini, che gli si è messo alle costole per meglio pugnalarlo, hanno lasciato in lui il segno e lo hanno peggiorato.
Forse qui s’innesta il principio di quella “malattia”, provocata e aggravata dai suoi avversari. In lui emerge sempre più la sindrome di quegli imperatori romani, per capirci alla Caligola e alla Nerone, che finirono per diventare, come ci ha tramandato Suetonio, esattamente quello che i loro nemici volevano che diventassero: despoti, folli e sanguinari.
Nulla di tutto questo per Berlusconi, per fortuna. Berlusconi è l’uomo di lusso ipotizzato dal Verga nel suo “Ciclo dei vinti”; e sarà anche lui un vinto. Ma è pur sempre un uomo di valore, un produttivo, uno che fa la ricchezza di un Paese. Lui è un buono e un generoso. Ma ciò detto, va aggiunto che i suoi vizi umani piuttosto che vigilarli, come sarebbe giusto e opportuno, non solo li aggrava in progressione, ma li ostenta in pornografico piacere. Come a dire: e la prossima volta, toccherà ad una quindicenne! Che, date le sue condizioni fisiche e anagrafiche, sarebbe come dire: e la prossima villa me la farò sulla Luna!
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domenica 24 ottobre 2010

Il turismo degli idioti fa tappa ad Avetrana

Il sindaco di Avetrana, comune nel Tarantino, dove si è consumata la triste vicenda di Sarah Scazzi, ha chiuso le vie d’ingresso del paese per impedire che pullman di turisti provenienti da altre regioni – si dice dalla Basilicata e dalla Calabria – continuassero un pellegrinaggio sui luoghi della tragedia: la casa dei Misseri, la casa degli Scazzi, il pozzo dove era stato nascosto il cadavere della fanciulla assassinata, il cimitero.
Il fenomeno del turismo macabro è nuovo, inventato ed alimentato dai massmedia, che dal 26 agosto non fanno che parlare della vicenda. Nessun caso in precedenza è stato così al centro dell’attenzione nazionale. E’ certamente un’anomalia, che esperti di sociologia e di psicanalisi sociale non mancheranno di spiegare. Ma è anche un fatto dal quale trarre spunti di riflessione diversi, applicabili ad altri campi, per capire in che mondo viviamo.
E il mondo in cui viviamo non ha più regole, di nessun genere. Guai, perciò, a parlare di anomalie! Del resto i fatti anomali ormai superano i normali. Gli anomali, i personaggi, si vantano di esserlo e contestano i presunti normali. Abbiamo un Paperon de’ Paperoni che fa il Presidente del Consiglio, in conflitto sempre d’interessi col pubblico bene e coi giudici, e se ne vanta. Abbiamo in alternativa un omosessuale che non nasconde il fidanzato e anzi dice di volere un figlio e se ne vanta. La normalità? E’ rimasta la Chiesa a sostenerla e a difenderla. Anzi, le religioni. L’islam scherza ancora di meno del cattolicesimo in fatto di regole e di normalità!
Ad Avetrana è accaduto un fatto gravissimo, che ha messo in luce ancora una volta la malvagità dell’animo umano e la torbidità che ingramigna nelle famiglie; ma fatti altrettanto gravi accadono purtroppo ogni giorno in Italia e nel mondo. Un ragazzo che ammazza una giovane donna con un pugno, il marito che ammazza la moglie a coltellate davanti ai figlioletti, una madre che mette nella centrifuga della lavatrice il figlioletto nato da pochi giorni, la moglie che fa ammazzare il marito dai suoi amanti e via raccapricciandosi, sono tutti episodi che stanno nell’arco di una settimana a contendersi il primato della nefandezza. Ci fosse ancora la “Settimana Incom”, il giornale che una volta informava dagli schermi cinematografici prima che arrivasse la televisione, avrebbe il suo gran da fare per scegliere quale di questi proporre agli spettatori all’interno di una panoramica comprendente anche altri eventi. Una informazione completa, infatti, vuole che sia panoramica ed equilibrata. Al giorno d’oggi i responsabili delle varie testate giornalistiche e delle emittenti televisive non si pongono più questi problemi. L’informazione panoramica ed equilibrata non esiste più. Esistono i particolari, ipertrofizzati, ingigantiti al dettaglio ripetuto e filigranato in maniera abnorme fino alla deformazione. Al caso di Avetrana sono state dedicate pagine e pagine di quotidiani come il “Corriere della Sera”, la “Stampa”, la “Repubblica”; se ne sono occupati in tutte le ore del giorno le trasmissioni televisive più popolari; gli stessi telegiornali si sono attardati interi quarti d’ora. Ovviamente il tempo e lo spazio per parlare del caso di Avetrana sono stati sottratti ad altre notizie, non so quanto più importanti ed utili allo spettatore e alla società.
Perché accade tutto questo? E’ l’informazione che trova nella notizia l’occasione per catturare l’attenzione del pubblico e anzi a creare il pubblico o è il pubblico che costringe l’informazione a piegarsi ai suoi gusti e a tradire la sua funzione? E’ molto difficile rispondere a questa domanda. Verrebbe di primo acchito di dire: c’è una partecipazione sostanziale ed osmotica, per cui una parte influenza l’altra, fino all’inverosimile.
Ma se il caso Avetrana, inteso nella sua massmediaticità, contiene dei messaggi, allora è giusto e importante vedere quali.
Il primo è che la gente è incapace di far prevalere in sé un sentimento per volta ed è emotivamente disordinata. Di fronte al caso di Sarah si è rivelata incapace di provare in sequenza sentimenti di orrore, di disgusto e di pietà. Secondo, essa si è abbandonata alla morbosità, fino a sentirsi delusa dalla ritrattazione del cosiddetto “zio orco” di aver abusato di lei dopo morta. Terzo, è subentrato in molti il rammarico per essere quasi esclusi da un simile “bene”, dallo spettacolo dell’informazione, abitando lontano da quei luoghi. Di qui, quasi in rivendicazione di un diritto, l’organizzazione di gite per vederli materialmente e magari per farsi una foto ricordo, come si fa con la Fontana di Trevi a Roma o col Duomo di Milano, col cantante amato o col calciatore preferito.
Questo desiderio di partecipare al grande evento mediatico, oltre che a condizionare i protagonisti stessi della disgraziata vicenda, avvocati compresi, ha coinvolto i semplici cittadini dello sterminato anonimo pubblico televisivo. Un desiderio di poter dire “io ci sono stato e toh questa è la prova”, esibendo una foto, ha prevalso su un normale sentimento di pietà per la giovanissima vittima e di compassione per la sua famiglia.
Si dice che la società democratica sia fatta di questo tipo di informazione. Infinite emittenti, zero censura, libertà assoluta non tanto di provare o non provare sentimenti quanto di abbandonarsi a comportamenti consequenziali. Provo dolore e pietà per Sarah? Mi chiudo in me stesso e piango. Sono travolto dal desiderio di andare sui luoghi della sua tragedia? E allora prendo l’auto, il pullman e vado a togliermi il capriccio. Libero l’uno e libero l’altro; nulla da dire all’uno e nulla da dire all’altro. Ma, almeno non si accusi di antidemocrazia chi la pensa diversamente e ritiene idioti i turisti del macabro, i gitaioli della stupidità. Perché, in questo caso, avrei qualche difficoltà a riconoscermi democratico.
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domenica 17 ottobre 2010

Ahi Serbia Italia...

E’ assai sconveniente in democrazia procedere per elogi sommari o condanne indistinte; modo tipico delle dittature. L’impresa compiuta dai tifosi serbi, in occasione della partita di calcio Italia-Serbia a Genova di martedì 12 ottobre, valida per la qualificazione alla fase finale degli Europei del 2012, è senz’altro da condannare sul piano sportivo e civico. Non si va allo stadio per mettere in atto comportamenti tali da impedire il normale svolgersi della gara fino al punto da minacciare l’incolumità dei calciatori e di migliaia di tifosi e spettatori; e poi mettere a ferro e a fuoco una città. Quei bravacci e delinquenti andavano affrontati sul “campo” e non lasciati fare per aspettarli poi per un pestaggio che aveva tutto il sapore della vendetta postuma.
Probabilmente in qualche altro paese europeo si sarebbe proceduto diversamente: con gli idranti, coi cani, con qualche carica, dopo aver invitato gli “estranei” ad allontanarsi da quel settore-gabbia. Noi invece abbiamo lasciato che un energumeno lavorasse tranquillamente con la tronchesina a tagliare la rete di protezione per poter poi lanciare petardi e bengala sul terreno di gioco come se fosse un operaio chiamato a fare delle riparazioni. Siamo in Italia, che diamine! Appena una ventina di poliziotti, fra cui alcune donne, a fare la guardia davanti alle due porte della rete di protezione. Intorno alla statua del Santo Patrono durante la processione se ne vedono di più. Ci è andata di lusso che quelli erano già soddisfatti della dimostrazione. Fossero entrati sul terreno di gioco, chissà che cosa sarebbe successo.
Dicono testimoni che i tifosi italiani erano perquisitissimi all’ingresso dello stadio, che ad un bambino che voleva portare con sé una bottiglietta di acqua gliel’avevano impedito. I tifosi serbi, invece, erano attrezzatissimi di tutto. Spiegazione ufficiale: erano talmente pericolosi per quello che avrebbero potuto continuare a fare in città che erano stati fatti entrare tutti nello stadio in fretta e furia. Vigilanza, insomma, zero. E zero vigilanza perfino alla frontiera, dopo che qualche giorno prima gli stessi tifosi avevano dato l’assalto al Gay Pride di Belgrado, provocando numerosi feriti. Spiegazione ufficiale: la polizia serba non aveva informato quella italiana della presenza tra i tifosi di elementi pericolosi. Siamo alle comiche. Polizie efficienti avrebbero impedito, quella serba di farli uscire; quella italiana di farli entrare, pur in difetto di informazioni preventive.
Giustamente le autorità calcistiche europee hanno fatto sapere che a termini di regolamento anche l’Italia è responsabile di quanto è accaduto. Saranno diverse le sanzioni, ma sanzioni ci saranno pure per l’Italia. E intanto non si è svolta la partita, circa centomila euro di danni allo stadio ed una figuraccia dell’Italia in mondovisione. E dire che ci proponiamo per organizzare Olimpiadi e Mondiali!
Questo è un aspetto. Ne vogliamo esaminare separatamente altri? Un altro è l’opportunità mediatica colta dai tifosi serbi per qualcosa che col calcio non ha niente a che fare. Nazionalisti ed estremisti volevano portare davanti ad una vasta platea il problema del Kossovo. Lo stesso energumeno, battezzato dai media italiani, in cerca sempre di personaggi da mitizzare, Ivan il Terribile, aveva tatuato sul braccio fra le altre cose una data, 1389, l’anno di una famosa battaglia dei Serbi cristiani per arginare l’invasione balcanica dei Turchi mussulmani, una sconfitta per la cristianità, ma rimasta nella tradizione serba come una data sacra. Ma neppure questa ragione può giustificare i comportamenti dei tifosi serbi. Uno stadio non è il luogo per fare dimostrazioni simili, certo non per scatenare una guerriglia, inscenare proteste violente e impedire che si svolgesse un evento sportivo per un evento politico. L’obiettivo è stato rggiunto, ma è stato controproducente.
Un terzo aspetto, che non è meno importante degli altri due e che dal secondo discende, è appunto politico. Oggi il Kossovo è stato dichiarato stato indipendente sotto la protezione della Nato e dei nostri soldati. Gli abitanti di etnia albanese mussulmana ne stanno combinando di tutti i colori, fino a distruggere chiese secolari, testimonianze di civiltà, a violare e distruggere tombe, a perseguitare la gente serba, lì ormai in minoranza. Si dirà: loro ne hanno subite tante dai Serbi nel corso di alcuni secoli. E allora, che facciamo? Ieri a noi ed ora a voi? E le grandi organizzazioni politiche e militari si prestano a favorire forme di revanscismo selvaggio?
L’Italia, peraltro, fu tra gli stati che nel 1999 bombardarono la Serbia, in seguito agli ultimatum dell’Onu, ed è stata tra le prime a riconoscere l’indipendenza del Kossovo. Si può essere d’accordo o meno con le ragioni dei Serbi, ma non si può non riconoscere che le loro ragioni sono comunque da rispettare. Invece, da parte della stampa italiana, si è fatto di ogni erba un fascio e la condanna è stata sommaria e totale in un mix di tifo calcistico, delinquenza comune ed estremismo politico.
La gran parte dei nostri commentatori, sempre pronti ad adeguarsi al vento che tira, hanno scritto che i nazionalisti serbi, rivendicando il Kossovo, perseguono obiettivi antistorici, senza peraltro spiegare perché “antistorici”. Le ragioni dello spirito non sono soggette a scadenza e valgono assai di più di quelle del corpo. Queste sì soggette a scadenza: riempita la pancia si può andare a dormire.
Siamo forse noi antistorici quando chiediamo che la scuola di Adro, nel Bresciano, torni ad intitolarsi ai Fratelli Dandolo, eroi del Risorgimento, dopo che era stata intitolata al professor Gianfranco Miglio? O non è legittima difesa di una identità storica e politica insieme? E che cosa diremmo noi se ad un certo punto, in seguito a sommosse e a guerre civili, venissero da fuori, armati di tutto punto, e ci imponessero questa o quella regione come indipendente? E permettessero che monumenti e tracce di italianità venissero cancellati dai nuovi padroni?
Stupisce e indigna in questo paese la superficialità di tanti intellettuali che non riescono, per difetto d’intelligenza, per opportunismo o per viltà, a capire che ci sono anche le ragioni degli altri e che queste vanno analizzate e rispettate piuttosto che incartate e buttate come pesce putrido.
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domenica 10 ottobre 2010

Sarah, l'ultimo Cappuccetto Rosso

La tragedia di Avetrana, dove una ragazzina di quindici anni il 26 agosto fu strangolata, violentata e nascosta in un pozzo in aperta campagna da uno zio-bestia, reo confesso, e ritrovata quarantuno giorni dopo, ripropone in termini nudi e crudi la difficoltà di chi vive, in ogni tempo, la condizione di Cappuccetto Rosso, il personaggio della celebre fiaba di Charles Perrault e dei Fratelli Grimm. Differenze di sensibilità culturale delle due versioni a parte, che concludono la fiaba in maniera diversa, resta costante il personaggio nella sua dimensione di ignara vittima designata.
E’ possibile che una ragazzina nella società odierna debba correre gli stessi pericoli di Cappuccetto Rosso? E’ possibile che progresso e civiltà nulla hanno potuto e nulla possono contro gli impulsi animaleschi che si annidano nell’umano? Se Cappuccetto Rosso è una fiaba ed universalmente valido il suo messaggio, evidentemente sì.
Le ragazzine oggi non vanno per prati a raccogliere fiori o per boschi a raccogliere frutti; e non hanno sulla testa un cappuccetto rosso. Tutte metafore, facilmente decodificabili. I prati e i boschi di oggi sono le discoteche, i pub, i bar, i facebook e i tanti luoghi d’incontro, reali e virtuali, dove i giovani amano incontrarsi per divertirsi; a volte solo per chiacchierare, in quel piacevole raccontarsi aneddoti di vita propria, storielle sentite, barzellette. Gioia e piacere dei giovani, di oggi come di ieri, come di sempre. Immortale testimonianza il Decameron del Boccaccio, dove dei giovani lasciano la città morta per la peste e si rifugiano in aperta campagna per trovare la vita nella piacevolezza dello stare insieme e del raccontarsi storie.
Il cappuccetto rosso è la metafora della disinvoltura, della freschezza di adolescenti, di quel loro modo di vestirsi, di comportarsi, di adornarsi di piercing, di equipaggiarsi di telefonini, di iPad, che allontana gli adolescenti dal mondo degli adulti, specialmente di certi ambienti, e li rende a volte incomprensibili e maliziosamente appariscenti e attraenti. La metto al plurale maschile, ma va da sé che a correre certi pericoli sono soprattutto le ragazzine. Cappuccetto Rosso è stato inventato al femminile.
Ma Sarah ha trovato il suo bosco e il suo lupo in famiglia, il più insidioso dei luoghi, proprio perché ritenuto il più sicuro.
“L’avevo già toccata”, ha confessato lo zio assassino. Quella ragazzina, così bella, delicata, una farfalla in volo, così l’hanno mostrata i tanti fotogrammi ripresi in diverse circostanze; quella ragazzina – dicevo – per quanto sua nipote, lo ossessionava. Chissà che cosa pensava di lei quel fauno con le mani legnose e contorte quasi quanto il cervello! L’incapacità di leggere correttamente gli atti lievi e spensierati di Sarah apre un altro fronte di conoscenza delle ragioni per le quali tra generazioni ci debba essere incomprensione e incomunicabilità. I comportamenti di Sarah non potevano che rispondere a desideri, sogni, pulsioni e mode legati alla sua età e al tempo. Le voglie di quel contadino non potevano che rispondere ad istinti naturali e selvaggi, legati alla sua condizione, alla sua età e ad un tempo ormai remoto. Tra i due mondi, tra le due condizioni non poteva che scatenarsi il dramma.
E’ proprio impossibile giungere ad un linguaggio comune, che consenta agli adulti di comprendere quanto meno che certi comportamenti possono voler dire qualcosa di diverso da quello che essi comunemente intendono? E’ proprio impossibile che i giovani, da parte loro, capiscano che la società è un bosco dove c’è di tutto, dove si nascondono ancora tanti lupi e che loro, anche ingenuamente, possono trasformarsi in esche e finire nelle loro gole?
Purtroppo perfino la bellezza in sé è motivo di incomprensione sociale, di incomunicabilità, di rischio. Il mito di Euridice è ancor più vecchio di Cappuccetto Rosso. E allora all’eterno male occorre rispondere con l’eterno bene e cercare di trarre una lezione da quanto per l’ennesima volta è accaduto.
Se è impossibile giungere ad un codice condiviso, si cerchi almeno d’imparare a vivere, sapendo di stare tra lupi ed agnelli, tra falchi e colombe, tra serpenti ed aquile, tutte metafore delle infinite varietà umane. A volte può anche non bastare. Ma la prudenza è il minimo che si possa usare per difendersi dalle insidie del mondo.
E’ un discorso repressivo, che soffoca la spontaneità, che depriva l’individuo della sua libertà? Può darsi. Ma, dopo che tu hai fatto la barbara e atroce fine della povera Sarah, che rimane? E’ forse un risarcimento la punizione, per quanto dura, se ci sarà, dello zio-bestia? Nooo!
Nella fiaba dei Grimm finisce che il cacciatore trova il lupo, lo uccide, gli apre il ventre e tira fuori Cappuccetto Rosso e la nonna, ancora vive e in attesa di essere liberate. Ma è una fiaba, è rivolta ai bambini, con lo spirito di educarli senza spaventarli; ma anche agli adulti, col mandato preciso di fare giustizia, di stanare i lupi malvagi e di eliminarli. Nella realtà tutto è terribilmente diverso. La povera Sarah non c’è più, nessuno la può richiamare in vita e fare giustizia è un dettaglio sociale, una necessità degli altri.
A condurre Sarah a quell'atroce esecuzione è stata la sua bellezza, la sua avvenenza, la sua grazia, la sua leggerezza, interpretate dal malvagio come disponibilità alla sporcizia, all’abominio, all’animalità; ma soprattutto a condurla a morte è stato il suo rifiuto, l’aver voluto dimostrare che non era ciò che agli altri, allo zio-bestia, poteva sembrare, che lei era se stessa e per se stessa. “Queste cose non si fanno” gli aveva detto prima che su quella luce e quel candore calasse il buio, per sempre.

domenica 3 ottobre 2010

In principio è il potere...e il potere è Dio

“In principio Dio creò i cieli e la terra. Or la terra era informe e vacua e c’erano tenebre sulla superficie delle ondeggianti acque…”. Inizia così la Genesi, primo libro della Bibbia attribuito a Mosè. Quale messaggio contiene questo esordio biblico? Dante ci insegna che le scritture possono essere lette in senso letterale e in senso allegorico. Lasciamo stare quello letterale. Non ci serve in questa sede. Se Dio mise ordine dove non c’era e diede forma a ciò che non ne aveva, creò la luce per rischiarare le tenebre e diede quiete alle “ondeggianti acque”, vuol dire che Dio è allegoria del potere, e che questo è in principio di tutte le cose. Senza il potere attivo tutto precipita nel caos primordiale.
Caliamoci nella realtà politica. Chi parla e opera contro il potere parla e opera contro l’ordine, contro la forma, contro la luce. Ordine, forma, luce sono presupposti di benessere e sicurezza. Abbattuto il potere, tutto il resto viene giù e tutti si cade nel disordine e nella prepotenza. Non c’è più chi provvede a fare le leggi e a farle rispettare, a garantire il patto sociale. Dai diritti più importanti alle esigenze più spicciole e quotidiane, tutto è in discussione. Così posta la questione, anche il più brutto dei poteri appare preferibile alla vacatio del potere.
Il potere, a volte, però, può diventare tirannide insopportabile; tirannide lo è sempre, ma solo in talune circostanze abbatterlo conviene più del conservarlo.
Veniamo al dunque. Siamo noi oggi in Italia in una circostanza in cui abbattere il potere conviene più del conservarlo?
Non è facile rispondere a questa domanda perché il potere non si identifica senz’altro col governo, che è sommariamente personificato da un uomo discusso e discutibile: Silvio Berlusconi. Anche se non è totus suus. Il potere dura finché da un governo si passa ad un altro; cade se invece si passa ad un non governo. Perciò, bisogna stare molto attenti.
In Italia, da quando è comparso Berlusconi sulla scena politica non c’è stato più bene; non c’è stato più ragionamento politico. Dimentichi dell’importanza del potere e condizionati dall’essere contro chi ne detiene il governo, ogni impegno ad abbatterlo è stato prioritario. Nessuno si pone il problema: abbattere Berlusconi non vuol dire anche abbattere il potere? La risposta sarebbe semplice se, abbattuto Berlusconi, ci fosse pronto un altro governo a prenderne il posto, a farsi titolare del potere ed esercitarlo per garantire ai cittadini i loro diritti e soddisfare le loro esigenze. Ma così non è. Fuori del brutto governo di Berlusconi nell’immediato non ce n’è uno più bello o più brutto; non c’è proprio un governo.
Ad appena due anni dalle elezioni quella che appariva l’invencible armada di Berlusconi è prossima a fare la fine dell’armata Brancaleone di Prodi; un numero notevole di parlamentari, come ondeggianti acque, vanno e vengono dai gruppi e dagli schieramenti, sospinti dal vento dell’interesse personale. Ancora una volta, democraticamente, ossia irresponsabilmente, i rappresentanti del popolo agiscono senza nessun vincolo. Come dice la Costituzione, ma non nello spirito della Costituzione. A riprova che questa nostra magna charta può essere usata come si vuole, per incartare qualsiasi cosa.
Sorprende non tanto il politico avversario di chi oggi detiene il potere quando lancia proclami e assesta colpi per abbatterlo senza neppure preoccuparsi del poi. In democrazia c’è una irresponsabilità diffusa, per cui non necessariamente chi è contro il potere e lo vuole abbattere ne ha uno in sostituzione. Si dice: per ora abbattiamo questo, dopo si vedrà. Sorprende, invece, chi, come Giovanni Sartori, un politologo, uno scienziato della politica, si mette a scimmiottare i politici avversari del potere, come un medico piuttosto che curare il malato si mette a scimmiottarlo. Sartori non è il solo, come lui si comporta la stragrande maggioranza di chi dovrebbe mettere in guardia il paese dal non precipitare nel disordine e nell’anarchia. L’Italia è malata, ma i medici lo sono più di lei.
Berlusconi è davvero così importante che ipotizzare un’Italia senza di lui sarebbe il disastro? Assolutamente no, come no è la risposta alla domanda: ma davvero Berlusconi è il male assoluto, da eliminare prioritariamente senza porsi nessun problema del dopo, che sarebbe senza ombra di dubbio migliore del prima?
Dico che il problema politico italiano sarà pure Berlusconi, e non lo dico per comodità di ragionamento, ma sono anche gli altri, i suoi oppositori. Berlusconi è a capo del governo perché lo hanno voluto gli italiani, che hanno votato in base ad una legge approvata sia dal centrodestra che dal centrosinistra. Governa e propone riforme. Sono brutte? Perché, allora, gli altri non fanno la loro parte, opponendosi nel merito delle proposte di Berlusconi e avanzando proposte a loro volta? No, essi pongono una pregiudiziale: niente governo, niente politica finché c’è lui al potere.
Essi perciò sono politicamente latitanti, non affrontano i problemi, non hanno nulla da dire all’infuori delle solite frasi, che ripetono ogni giorno, senza nessuna variante. Sono inadempienti e incoerenti. Tutto ciò che prima rientrava nel loro strumentario politico è rivisto alla luce della funzionalità o meno all’utile berlusconiano. La Costituzione è stata sempre criticata per i suoi difetti di fabbrica; ma oggi la Costituzione, siccome può essere brandita contro Berlusconi, è la più bella del mondo. Da sempre si dice che la giustizia in Italia non funziona, che i processi non finiscono mai; ma oggi, siccome il processo breve è funzionale all’utile berlusconiano, ecco che tutto va bene come va. Lungi dal fare politica a prescindere dall’utile berlusconiano i suoi oppositori non sanno andare oltre la “morte” di Berlusconi, che vorrebbero venisse inflitta dal popolo, ma in cuor loro si accontenterebbero anche se a provvedere fosse il Padreterno.
I cittadini hanno capito, però, che Berlusconi in qualche modo i problemi del paese li affronta e li risolve, mentre chi lo vuole “morto” non ha né la forza politica né le idee per proporsi al suo posto. Essi, perciò, non sono così allocchi da rinunciare ad una forma, che magari non piace, ad una luce che magari non è molto chiara, ad una calma delle acque che magari sarà pure apparente, per precipitare in una terra politica “informe e vacua”, neppure promessa. Verrebbe da dire neppure Deo lo vult!
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