mercoledì 31 luglio 2013

Specchia: sguardi sulla città. Dal 24 al 27 luglio Festival del cinema Documentario


Specchia col suo Festival del film documentario come Campi Salentina con la Fiera del Libro e come Melpignano con la Notte della Taranta. Avvenimenti annuali che travalicano i confini del Salento leccese.
Il decimo appuntamento specchiese quest’anno è caduto nel bel mezzo della polemica tra Lecce e Taranto sulla candidatura a capitale europea della cultura per il 2019. Taranto non ne vuol sapere di cedere alla richiesta di Lecce, perché ritiene di avere più titoli a candidarsi a così prestigioso ruolo. Campanilismi più o meno pretestuosi a parte, che porterebbero a elencazione di titoli  per un primato sempre e comunque discutibile, io credo che la percezione in questo caso di città dell’arte, di cui indiscutibilmente gode Lecce, abbia un suo valore, se non dirimente certo orientante. Taranto fa pensare immediatamente alle industrie, alla marina militare, alle tante problematiche ambientali connesse; è una città che delega alla provincia il recupero di attività diverse, come quelle agricole, artigianali e culturali, che pur sono notevoli e di prestigio. 
Lecce è città d’arte per definizione, titolo riconosciuto e ribadito ancora di recente nel 2007, quando è stata inserita in una collana di 24 monografie, “Le grandi città d’arte italiane”, da Electa, la casa editrice specializzata in cataloghi e mostre d’arte, distribuita dal “Sole 24 Ore”.
Ma è nella provincia che Lecce, da un po’ di anni, ha il suo valore aggiunto, la sua estensione, il suo prolungamento vocazionale. E’ sulla provincia che Lecce irradia la sua luce e la sua vocazione alla conoscenza, al confronto e al dibattito; e con essa si completa in una straordinaria contiguità territoriale. Di tanto ormai si è resa conto non solo la nazione, che al Salento leccese dedica attenzioni costanti e importanti, con le sue istituzioni e i suoi media, ma anche l’Europa e il mondo. Il Salento, piccola appendice geografica, è oggi un punto di riferimento mondiale, grazie alle iniziative delle sue amministrazioni locali, dei suoi operatori culturali; alle espressioni artistiche dei singoli protagonisti, dei gruppi, del suo associazionismo.
E’ così che il Salento leccese raccoglie i frutti di una scelta che ogni tanto il Sen. Giorgio De Giuseppe, oggi Difensore Civico della Provincia, fa bene ad ascrivere alla lungimiranza della classe politica degli anni Cinquanta e Sessanta, quando i nostri politici dissero no all’industrializzazione per puntare al territorio, alla vocazione culturale e artistico-artigianale della sua gente; a quelle attività promozionali che non avrebbero alterato l’ambiente e anzi lo avrebbero valorizzato.
Specchia, oggi uno dei borghi più belli d’Italia, periodicamente proposto dalla Rai, non è che uno dei tanti centri di forte impegno culturale; diventato una categoria nello specifico della filmografia. Il suo Festival del cinema del reale, ovvero del documentario, giunto alla sua decima edizione, è una scadenza nazionale importante, a cui aderiscono istituzioni di livello nazionale e internazionale. L’evento specchiese, che ha come direttore artistico Paolo Pisanelli, vede impegnati soggetti come la “BigSur Immagini e Visioni”, il “Cinema del Reale” e l’Associazione Culturale “Officina Visioni”; è cofinanziato dall’Unione Europea, dalla Regione Puglia, da Apulia Film Commission, sostenuto, come è ovvio, dal Comune di Specchia e patrocinato dalla Provincia di Lecce.
La quattro giorni di Specchia porta alla conoscenza di un pubblico di operatori, di studiosi, di turisti e di curiosi, lo straordinario universo di spazi e di tempi, di fatti e di fenomeni, ripresi e immortalati in pellicola, momenti di vita reale, apparentemente minori, marginali. Materiali di conoscenza, fonti documentarie, che non soddisfano solo la curiosità dello spettatore ma servono allo storico quando ricostruisce e spiega e perciò ha bisogno di documenti, da cui “documentario” mutua la base semantica.
Specchia è l’occasione per gli specialisti della materia di incontrarsi tra di loro, per scambiarsi conoscenze ed esperienze, ma anche per i visitatori di vedere da vicino e di ascoltare dal vivo. Quest’anno si è potuto vedere il cortometraggio dei fratelli Bertolucci, Giuseppe e Bernardo, un omaggio alla città di Bologna inserito nel progetto “12 registi per 12 città”.  Tra gli incontri più interessanti quello con Enrico Ghezzi al Castello Risolo nel corso di “lezioni-colazioni con gli autori”, accorsi numerosi. Tra di essi, oltre a Ghezzi, Cecilia Mangini, Cristina Torelli, Daniele Vicari, Andrea Segre, Costanza Quatriglio, Michele Mellara, Michele Riondino, Matteo Garrone, Marco Spoletini, Alessandria Celesia, Pinangelo Marino, Vincenzo Susca, Claudia Attimonelli. Si è potuto apprezzare il documentario “Searching for Sugar Man”, Oscar 2013, che racconta l’esperienza di successo del musicista statunitense Sixto Rodriguez, noto anche col nome di Jesus, che ha prestato la sua musica alla colonna sonora delle lotte anti-Apartheid. Si è potuto visitare la mostra “Taranto rooms”, in cui sette artisti hanno realizzato una pluralità di rappresentazioni sulla Città dei due Mari. L’insistenza di documentari sulle città ha elevato il tema come dominante nell’intera kermesse. “Storie di città”, infatti, è il titolo della sezione che racconta città invisibili e reali, spesso ignorate dai loro stessi abitanti. In particolare “Il libraio di Belfast” di Alessandra Celesia.
Ma anche tanto altro. Tra i prodotti di qualità “Il Divino amore” di Cecilia Mangini, pioniera del documentario europeo, opera di cinquant’anni fa che si pensava fosse andata perduta, con cui è stata inaugurata questa decima edizione del Festival; “La Croce” e “Fazzoletti di terra” del regista Giuseppe Taffarel sulla vita dei montanari di Vittorio Veneto e sui contadini della Valbrenta.
E poi i premi “Cinema del reale” e “Culturanze”. In chiusura “La festa della festa” con musica, cibo, poesia.

Ancora una volta e direi più di altre volte l’evento specchiese si è rivelato un contenitore di conoscenze, a testimonianza dell’indole di un popolo, il salentino, amante dell’arte e della comunicazione; ma anche attrazione, che ben s’inserisce e risponde alla domanda turistica, che da qualche anno è cresciuta in quantità ma soprattutto in qualità.

domenica 28 luglio 2013

Napolitano e le patologie della politica


Giorgio Napolitano considera il frequente ricorso ad elezioni anticipate “una delle più dannose patologie italiane” (Corriere della Sera, 24 luglio 2013). Lo ha scritto in risposta a Fausto Bertinotti, ex segretario del Partito della rifondazione comunista, che il giorno prima gli aveva rivolto una lettera aperta, in cui gli aveva detto “Lei non può congelare d’autorità una delle possibili soluzioni al problema del governo del Paese, quella in atto, come se fosse l’unica possibile, come se fosse prescritta da una volontà superiore o come se fosse oggettivata dalla realtà storica. Lei non può, perché altrimenti la democrazia verrebbe sospesa” (Corriere della Sera, 22 luglio 2013).
E’ di tutta evidenza che i due duellanti, pur provenendo dalla stessa parte politica, la comunista, hanno idee diverse su che cosa debba essere la “politica” in un corretto sistema democratico, posizioni radicalizzate dalla contingente diversità dei ruoli che attualmente i due occupano.
Per Napolitano la politica italiana soffre di “dannose patologie” e ritiene che il frequente ricorso ad elezioni politiche anticipate sia una delle più dannose, perché crea problemi di instabilità ed incertezza al Paese specialmente quando già esso si trova in difficoltà. Per Bertinotti il ricorso alle elezioni anticipate risponde ad un’esigenza di democratica conflittualità politica. Per l’ex sindacalista e segretario politico quando al governo c’è la parte avversa fine di chi sta all’opposizione è di mettere in difficoltà la maggioranza e di far cadere il governo. Una posizione assai condivisa a sinistra. Patologia tipicamente italiana, dice Napolitano; e io aggiungerei di tradizione comunista.
Viene di chiedersi quali sarebbero le altre “dannose patologie” politiche di cui soffre l’Italia e di cui parla Napolitano. La prima e più immediata da associare alle elezioni anticipate è appunto il considerare lo scontro politico per la conquista del potere, che si prolunga oltre la campagna elettorale, l’obiettivo prioritario se non addirittura esclusivo della politica. Un obiettivo per il quale si sacrifica perfino il bene comune della Nazione e dello Stato; ciò che dovrebbe costituire invece la ragione stessa della politica.
Lo vediamo nell’attuale congiuntura col governo di Larghe Intese tra Pd, Pdl e Lista Civica guidato da Enrico Letta. Tutti sanno che questo è stato l’unico possibile dopo il risultato elettorale di no contest, il rifiuto del Movimento 5 Stelle di accordarsi col Pd per un governo Bersani, a cui il Presidente Napolitano aveva dato l’incarico di formarlo, e il non poter tornare al voto con una legge, il Porcellum, a cui si attribuiscono tutti i mali della politica italiani di questi ultimi anni. Ma, nonostante la mancanza acclarata di alternative, tutti i protagonisti di questo governo dicono di provare il voltastomaco quando pensano di farne parte, tranne quelli della Lista Civica; i quali se non dicono di sentirsi bene neppure dicono di sentirsi male. Molti, da una parte e dall’altra, mentre dicono di lavorare lealmente per il governo, nei comportamenti gli creano ostacoli e fastidi per farlo esplodere, senza sapere e neppure senza porsi il problema di cosa potrebbe accadere dopo.
I più ostinati di tutti – ma questi dichiaratamente e programmaticamente ostili – sono quelli del Movimento 5 Stelle, i quali, forse pentiti di non aver accolto l’invito insistito di Bersani, ora danno randellate dalla mattina alla sera ad un governo di cui sono causa. Una formazione politica, il Movimento 5 Stelle, solo apparentemente diversa, in realtà è la solita formazione di radicalismo disfattivo, che dai radicali di Cavallotti, ai missini di Almirante, ai radicali di Pannella, ai giustizialisti di Di Pietro, è stata sempre presente nel parlamento italiano. Con l’aggravante per il Movimento di Grillo di essere nato vecchio, in quanto presenta tutte le astuzie, i calcoli, i vizi dei partiti italiani antigovernativi e perfino antiparlamentari.  
Un esempio lo hanno dato in occasione del Decreto Legge del fare. Per impedirlo, perché ritenuto inadeguato ai bisogni del Paese, hanno presentato centinaia di emendamenti e di ordini del giorno. A discuterli tutti, il Decreto non sarebbe stato approvato entro i termini. Ragione per la quale il governo, dopo aver tentato di convincerli a ridurli per consentire un sereno e proficuo dibattito prima di giungere all’approvazione, ha messo il voto di fiducia. Apriti, cielo! Come se i passaggi osservati non fossero scontati. I 5 Stelle hanno accusato il governo di aver esautorato il Parlamento impedendo il dibattito. Ovviamente sarebbe bastato ridurre gli emendamenti e il dibattito ci sarebbe stato. Ma ai nuovi radicali non interessava né il Decreto, né il dibattito, né il Parlamento; ma semplicemente mettere il governo tra il non approvare il decreto e il non consentire il dibattito. Il classico esempio di come in Italia la politica non è concorso corretto tra soggetti politici diversi col comune intento di amministrare il Paese, ma è lotta continua tra di loro, aspra, senza esclusione di colpi, da muore Sansone con tutti i Filistei, fino a rovesciare il governo e gettare il Paese nel caos e nel disastro.
Inutile, tuttavia, piangerci addosso. Noi italiani siamo fatti così. A questo punto se la medesima democrazia, così bene osservata da tedeschi, francesi, inglesi e via di seguito, da noi produce patologie, quali le descritte ed altre ancora, potremmo cercare di cambiarla, di adattarla al nostro carattere. Ogni tentativo di farlo, però, naufraga nell’ipocrisia, nei complessi di inferiorità, nello scarso senso di pragmatismo.

Ma i rimedi ci sono. In chiusura mi viene di ricordare il gravissimo ammutinamento del Pd durante l’elezione del Capo  dello Stato e la perdurante anarchia in quel partito. Sarebbe antidemocratico espellere i riottosi e gli sleali? Non lo so. Democrazia o non democrazia, io non avrei esitato a farlo. Uno o cento non cambia, conta il principio.   

domenica 21 luglio 2013

Il caso Calderoli-Kyenge e il silenzio-dissenso


Il massimo per un intellettuale è la banderuola. Non sembri una provocazione! Un intellettuale non  deve cambiare partito in seguito a conversioni d’interessi, come il Girella del Giusti. Dio ce ne scampi! Ma, come la banderuola si muove in ragione del vento, egli deve girare in ragione della verità. La verità è il vento della nostra banderuola. Essa è sempre nei fatti, mai fuori, li segue nel loro succedersi, a volte senza un ordine o una logica. Occorre che si adoperi la discrezione di cui parlava il Guicciardini, la facoltà di analizzare, di distinguere, di giudicare; volta per volta, dato che mai una volta è come un’altra. Che diremmo se una banderuola restasse ferma e insensibile al vento? Diremmo che si è arrugginita, saldata sull’asticella. Diciamo la stessa cosa dell’intellettuale che si esprime per partito preso, che segue una verità fuori dei fatti, precostituita, rispondente ad interessi particolari. 
In Italia la maggior parte degli intellettuali segue il pensiero dominante, è saldata sull’asticella della propria parte politica. Lo ha evidenziato di recente il caso Calderoli-Kyenge, che ha inoltre ribadito l’asimmetricità del confronto politico-culturale.
Il caso. Uno dei punti più controversi oggi in Italia a livello di dibattito è se mantenere la cittadinanza esclusivamente per lo jus sanguinis, ossia per l’appartenenza; o estenderla allo jus soli, ossia per il luogo di nascita, per cui se uno nasce in Italia, ipso facto è italiano. E’ un confronto fra due tesi rispettabili tant’è che se ne discute in ogni paese europeo, il quale si regola secondo le sue ragioni storiche e politiche, secondo le sue esigenze e sensibilità. Aggiungo che l’una posizione e l’altra presentano aspetti positivi e aspetti negativi, nei quali non è facile trovare il punto dirimente. 
In Italia, però, il confronto non è ammesso. Chi è per lo jus sanguinis passa per un retrogrado, un barbaro, un malvagio, un insensibile, un razzista, chiuso alla modernità. Dire che milioni di italiani sono per lo jus sanguinis trova i suoi avversari pronti a considerarli incapaci di ragionar bene e perciò bisognosi di esser presi per mano da chi sta in alto. Dopo più di due secoli da Immanuel Kant e dal suo Illuminismo c’è ancora chi si ritiene in alto non per fare felici i cittadini ma per portarli sulle sue posizioni politiche e ideologiche. Delle due l’una: o l’Illuminismo è una colossale minchiata o i minchioni sono infiniti.
Per lo jus soli sono le quattro massime autorità dello Stato: Napolitano (Presidente della Repubblica), Grasso (Presidente del Senato), Boldrini (Presidente della Camera) e Letta (Presidente del Consiglio), che – guarda caso – sono della stessa parte politica. Ad esse addirittura è stata aggiunta la Kyenge, Ministro dell’Integrazione. Come ognuno può vedere non c’è confronto, non c’è partita, chi dissente rischia, se alza la voce e i toni, di essere denunciato per razzismo. Ragion per cui nessuno dissente. I media sono tutti sulle posizioni del pensiero dominante. Chi non lo grida, tace. Un simile sistema può anche essere detto democratico, e così è considerato, ma l’intellettuale dovrebbe vedere che invece è molto simile a quello fascista nel creare nel paese un pensiero unico e nel non favorire condizioni di dissenso, anzi le sanziona.
Ma non è difficile smascherare l’inganno. Il sillogismo è semplice. Siccome ieri il fascismo condannava l’antirazzismo e oggi questa democrazia condanna il razzismo, fascismo e democrazia si ritrovano perfettamente uguali nella condanna di ciò che non è condiviso. Si dirà, ma razzismo e antirazzismo non possono essere messi sullo stesso piano, non si può prescindere dalle loro finalità. Convengo, ma è questione di opportunità. L’intellettuale-banderuola deve girare non secondo opportunità ma secondo verità.
Il caso Calderoli-Kyenge è assai serio, non solo per la doppia figuraccia di Calderoli, che è apparso assai più simile lui all’orango che la Kyenge, persona colta, equilibrata, squisita nei modi e nel proporsi, poi costretto alla solita manfrina delle scuse; ma soprattutto perché questo governo cosiddetto delle larghe intese ha voluto nell’esecutivo un ministro come la Kyenge col chiaro proposito di mettere un carico da novanta su una questione che dovrebbe essere più serenamente discussa. Se di larghe intese si è davvero trattato, vuol dire che il Pdl ha negoziato le cose, vuol dire che è stato d’accordo per la Kyenge e per lo jus solis in cambio di qualcosa. Un commercium, insomma.
Ma è proprio questo ciò che vuole il popolo in Italia? Liberi di credere o di non credere, ma molta gente nei giorni più caldi del caso Calderoli – probabilmente di destra e di sinistra – ha ripetutamente stigmatizzato le forze politiche di maggioranza di aver fatto ministro una come la Kyenge. La scelta è stata recepita come una forzatura, una prepotenza, una imposizione. Colta o incolta, incapace o meno di ragionare, che però vota, questa gente non se l’è presa né con Calderoli né con la Kyenge, se l’è presa con chi l’ha fatta ministro.
Purtroppo oggi in Italia non conta nulla chi non è in rete, chi non fa rimostranze presso le sedi istituzionali, chi non appare in televisione. Oggi in Italia contano le minoranze mediatiche. Gli altri non esistono. Gli altri, che perciò non vanno più a votare.  
Chi non è d’accordo con l’evidente forzatura politica della Kyenge non ha molti mezzi e opportunità a disposizione per manifestarlo, pesante com’è il clima di santa inquisizione che c’è nel paese su alcune problematiche, per le quali addirittura si scomoda il codice penale. Bene che gli vada chi dissente finisce per ritrovarsi dalla parte di chi ingiuria, come ha fatto finora e come continuerà a fare Calderoli, e di chi agita cappi, come hanno fatto quelli di Forza Nuova.

Anche qui mi viene di ricordare che durante il fascismo chi dissentiva veniva emarginato, associato a gente di malaffare, anche quando era un intellettuale e persona perbene, che non è – a riflettere – la meno grave delle condanne. In ogni dittatura, mascherata o meno, il silenzio non è assenso né consenso, è dissenso.

venerdì 19 luglio 2013

Zizzi e la sua cornice poetica. A Sud del Sud dei Santi


Per pubblicare l’antologia A Sud del Sud dei Santi. Sinopsie, Immagini e Forme della Puglia Poetica. Cento anni di Storia Letteraria Michelangelo Zizzi è andato al Nord del Nord dei Santi: Faloppio in provincia di Como, dove un altro Michelangelo – tal Camelliti – è titolare della casa editrice “LietoColle”, dantesco alquanto. Una cornice davvero “nazionale”, una autentica consanteria, variazione di confraternita-consorteria. Consanteria (neologismo).
Ora, le antologie, in genere, irritano e fanno discutere per inclusioni ed esclusioni. Che antologia sarebbe quella che tenesse tutti contenti? Non vale perciò inquietarsi per l’ennesima inclusione-esclusione. De gustibus! E, del resto, non mi azzarderei a dire: questo non andava incluso e quest’altro non andava escluso. Non conosco tutti gli uni e non conosco tutti gli altri. In ogni antologia c’è chi c’è, non c’è chi non c’è, versione letteraria di quella calcistica dell’allenatore Boskov: è rigore quando arbitro fischia.
Zizzi ha detto in apertura che lui ha voluto monografare i quattordici migliori poeti della Puglia, con un criterio, quello che lui ha della lingua poetica, poi spiegata in prefazione. “La scelta relativa a quali autori monografare è interamente mia – dice il curatore – e l’ho effettuata con coscienza, consapevolezza critico-storica e fierezza”; per poi aggiungere: “questo non deve essere considerato un saggio accademico, ma un’altra cosa, quindi molto di più” (Piano dell’opera). Cosa, Zizzi?
Su che cosa sia questo libro torna Stefano Donno nel saggio introduttivo della Prima parte: il Salento. “Non è possibile – dice Donno – avere pretesa di scientificità, perché sovente un sentimento o una vicinanza verso questo o quel poeta, la voglia di uscire da una profonda infatuazione verso questa terra stride con lo sforzo di avere sempre sottomano quello che accade anche nel resto d’Italia. E limitante o piuttosto miope sarebbe inoltre il tentativo, in un contributo di questo genere, di farsi testimoni di un percorso meramente storico” (p. 37). Una professio fidei laica. Bravo!
Insomma, non mi piace menarla: questo libro non ha scientificità critico-letteraria e non è neppure un racconto storiografico, come pure si sottotitola, ma una raccolta di materiali per la storia, quella che altri scriveranno, i quali non potranno non tener conto che è stato scritto, come il curatore confessa “un po’ di qui e un po’ di là”, che qualcun altro potrebbe dire – locuzione per locuzione! – alla cazzo di cane. E’ risibile fare un indice analitico come fosse una tabula gratulatoria, senza il rimando alle pagine. Per evitare rapide consultazioni in libreria? Beh, il libro è pur sempre un prodotto commerciale.
Pignoleria, verrebbe di dire, per il piacere di dispiacere; ma dico di no, semplice osservanza di una legge non scritta, che corrisponde a quella scritta che obbliga chi produce marmellata o insaccati di indicare gli ingredienti. Un libro è un insaccato, un’antologia lo è ancora di più, deve presentarsi con correttezza e aggiungo con garbo, che difettano, invece, A Sud del Sud dei Santi. Dove si legge, peraltro, con gratuito cattivo gusto, di aver incluso “anche alcune claudicanze, i minori, i critici da quattro soldi che sovente si aggregano nella lussuria autoreferenziale delle accademie poetiche salentine, tarantine, baresi, foggiane. […] Così non abbiamo escluso i modi cortilenanti (neologismo) o comunque opachi di fare saggistica: dalla salumeria critica di un Giannone all’ordinaria analessi dell’ordinario Valli, alla balbuzie…di un Augieri”. (p. 33) Grazie, politica, che mi hai tenuto lontano dalle zizzerie!
Ma veniamo ad alcune futili osservazioni. Futili perché il duo Zizzi-Donno si è spiegato: nulla di scientifico, nulla di accademico. Diversamente sarebbero importanti.
La materia è vasta ed io, come dicevo, non li conosco tutti i monografati e gli antologizzati. Qualcuno, però, sì, mi è capitato di conoscerlo, benché di sguincio. Come professore di storia della letteratura italiana mi è stato giocoforza fermarmi alla prima metà del Novecento; come giornalista mi è capitato di varcare il Rubicone fino alle acque dei nostri tempi e luoghi. Ma neppure qui mi permetto di chiedere perché certi critici importanti neppure figurano nominati una sola volta. No, non mi metto neppure a segnalare le zoppìe di questo o quell’autore, l’assenza di quel saggio o di quell’articolo. Non servirebbe a niente. Non hanno detto Zizzi e Donno che non hanno fatto un lavoro scientifico? E, allora…
Una considerazione, però, va fatta. Possibile che noi salentini, per darci delle arie, dobbiamo ricorrere al solito barocco? La prosa di Zizzi, a partire dal titolo del libro, è pantagruelica, un’abbuffata di termini tecnici, il più delle volte inutili, spesso inventati e rivendicati come neologismi: le solite perle strane, baroque, appunto. Riemerge il solito provincialismo, il gusto e la ricerca di nascondere il vuoto, l’horror vacui, la furbizia di nascondere sotto un linguaggio astruso il vuoto di idee, la capacità di cogliere l’essenziale e di rappresentarlo con immediatezza e sintesi. Non per nulla Zizzi esalta la lentezza o come lui dice il “rallentamento”. Si potrebbe dire che in fondo valorizza e vende la sua merce. Ma rendiamoci conto che poesia – o lingua più in generale – non è lentezza, è rapidità, è chiarezza, è limpidezza, lampo, fulgurazione. Il rallentamento nasconde. La rapidità rivela. Con la rapidità si parla agli altri, col rallentamento ci si parla addosso.

Non lamentiamoci poi se i nostri poeti, compreso quello che Zizzi considera il dominus in assoluto, Carmelo Bene, dagli antologisti del Nord non sono neppure citati. O si è poeti o ci si atteggia. Se proprio non riusciamo a smettere di essere poeti, smettiamo almeno di atteggiarci.          

domenica 14 luglio 2013

Italia, la normalità e il nulla


Nessuno s’indigni! Tu pure, giornalista, che nella tua fredda ipocrisia fingi d’indignarti. E tu pure, cittadino, che segnali cacca dappertutto e neppure ti accorgi di quella che ti sei fatta nei pantaloni. L’Italia è da sempre questa: il paese delle normalità ampie, infinite, straripanti; diverse, ma pur sempre normalità. In Italia non esiste il concetto di anormalità e neppure di subnormalità. Ci sono – questo sì – fenomeni ed episodi che possono far risaltare i dati di una particolare situazione, evidenziare le sensibilità convenzionali; ma nulla di più.
E’ il caso della fine di Berlusconi, stretto ormai nella morsa della giustizia, della politica, della stampa e dell’opinione pubblica abbondantemente plagiata, come lo era nella sua stagione berlusconiana. Che qualcuno trovi poco o affatto normale il dettaglio o il tutto di questa vicenda e faccia finta di indignarsi è francamente uno sproposito. Se costui cerca qualcuno che gli creda, lo cerchi nello specchio più vicino. Ce lo dice l’excursus ultraventennale di Berlusconi. Una vicenda che più italiana e perciò più normale non potrebbe.
E’ normale che un grosso imprenditore in quattro e quattr’otto metta su un partito e conquisti più volte il potere politico? Sissignori, è normalissimo. Normale che un Presidente del Consiglio organizzi in casa sua festini ed ospiti puttane di ogni tipo e taglia, d’ogni colore di pelle e di capelli? Normalissimo. Qualcuno, che non ci crede, si legga la storia d’Italia, e non solo quella. Vittorio Emanuele II aveva la reggia e la …reggina, che non è un refuso ma proprio una piccola reggia per la sua Bella Rosina. L’americano Clinton nello studio ovale della Casa Bianca non pensava solo ai destini del suo paese e del mondo. Normale che un commerciante cerchi, benché capo di governo, di realizzare affari ai limiti del lecito ed oltre per la propria azienda? Normalissimo, anzi sarebbe anormale – se l’anormale esistesse – se non ne approfittasse.
E’ normale che una giustizia solitamente distratta, lentissima, autoreferenziale, infingarda, che trascina per decenni cause da ridere, che tiranneggia avvocati e testi, accusatori e accusati, senza distinzione, trovi la seriosità, la grinta e la determinazione di perseguire – non perseguitare, ma sarebbe normale lo stesso – un uomo politico di idee avverse alla vulgata comunista, o chiamatela come cazzo volete, di quel partito comunista che aveva le sue scuole di magistratura e preparava gli adepti a “vincere” i concorsi? E’ normale che piccoli, medi e grandi magistrati siano naturalmente vocati ad operare di concerto coi poteri forti dello Stato? Per Dio! Normalissimo: basta vedere certe foto del regime fascista con anziani e panciuti magistrati tutti sull’attenti ad accogliere il Duce col braccio levato nel saluto fascista e la bocca spalancata nel gridare Alalà! Perché non considerare normale che gli eredi di quei magistrati facciano lo stesso con altri duci di stagione?
E’ normale che ci sia una stampa asservita ad un padrone o ad un’opinione comune dominante – è lo stesso se la motivazione è la stessa – che non riesce ad operare un minimo di distinguo critico per cercare un metro d’informazione che non sia quello di stare nel piccolo cesso dei suoi bisogni immediati? Normalissimo! Il famoso J’accuse di Zola nelle redazioni italiane è come l’immagine di Padre Pio nel regno dei casalesi.
Ed è normale che una classe politica trovi il suo leader in un comico scaduto, un professionista mancato, un offeso e risentito, che scopre il più stupido e subdolo metodo di reclutare adepti, che sembrano usciti dalle uova di Bulgakov? Ignoranti di tre cotte che non sanno se il Po sfocia nell’Adriatico o nel Tirreno, che parlano di dittatura e di democrazia come di preservativi? Certo, che è normale…di più: è reale!
Ed è normale che un partito, come il fu comunista, dal ferreo centralismo democratico passi alla  democrazia decentralizzata, frantumata, al punto che per ogni piccola o grande scelta si formano percorsi a raggiera, in un movimento centrifugo? Normalissimo, mai così normale: siamo nel paese dove non c’è limite alla normalità, dove l’anormalità non è neppure il conio sbagliato di una moneta di un cent.
Ed è normale che nemici giurati di Berlusconi gongolino all’idea della sua fine fingendo dispiacere che sia la magistratura a toglierlo di mezzo, per potersi sentire la squallida coscienza a posto? Oh, sì che è normale. Sarebbe normale perfino se qualcuno si mettesse a versare lacrime di dispiacere. A molte puttane basta la faccia!
Ed è normale che uomini e donne di un partito, giovani e anziani, non riescano a convincere il loro capo ad avere comportamenti meno spendibili sul piano della indignatio altrui, e poi s’infurino, diano ad isterismi, a comportamenti assurdi quando lo stesso capo sta per essere accoppato dalle orde nemiche? Che normale e normale! In Italia è il menu quotidiano. 
Ed è normale che uno che per quarant’anni ha fatto il professore ed ha passato il suo tempo a dire ai ragazzi: questo si fa e questo non si fa, ora non si scandalizzi e non s’indigni neppure lui? Ahimè, quarant’anni di insegnamento portano la coda. E ancora oggi mi provo di predicare speranza e fiducia nelle cose buone, condanna senza appello per le cattive.   
Siamo irrimediabili, se pensiamo che ci possa essere un rimedio per cambiarci di natura. Rimediabilissimi, se pensiamo a qualche intervento forte, anche questo normale, mirato a far capire agli italiani come è giusto e normale che ogni tanto s’induca la gente, con le buone o con le cattive o con le cattive soltanto quando le buone sono come pile scariche,  che oltre il normale non si può andare in un paese in cui, come si diceva, oltre il normale c’è il nulla.

Da dove dovrebbe partire questo moto di difesa? Forse da coloro che il problema della normalità non se lo pongono affatto ed operano nella società con l’istinto della sopravvivenza. Qualcuno prima o poi in Italia si renderà conto che è giunto il momento di sopravvivere. Confidiamo in lui.

domenica 7 luglio 2013

Or dentro ad una gabbia...


Le esclusioni non avvengono mai a caso. Dalle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia di due anni fa fu escluso uno dei più importanti poeti italiani, Francesco Petrarca, autore della prima grande canzone di impegno civile della letteratura italiana, meglio nota con l’incipit Italia mia…Troppo nazionalismo e troppo antigermanesimo nei suoi versi, e dunque troppo antieuropeismo.
Uno dei temi di fondo di quella canzone è lo stato di disordine e di contrasto dell’Italia delle Signorie che tra di loro si fanno la guerra spesso ricorrendo a truppe mercenarie, facendosi cioè invadere da soldataglie straniere, vanificando lo schermo che la natura ha posto a protezione “fra noi e la tedesca rabbia”.
Si dirà, i tempi son cambiati! Sta di fatto che oggi più ancora di ieri, benché in atmosfere e in forme diverse, si può dire col Petrarca che “dentro ad una gabbia / fiere selvagge et mansüete gregge / s’annidan sì, che sempre il miglior geme”. Al netto della retorica cui il poeta fa ricorso per inneggiare alla nostra superiore civiltà, non c’è chi realisticamente non veda nell’Europa di oggi la “gabbia” petrarchesca, in cui ad avere la peggio sono sempre i più deboli e i più divisi, ossia noi.
Per stare in questa “gabbia” abbiamo rinunciato a consistenti “quote” di sovranità. La rinuncia ad esse, non afferendo territorialità bensì cultura, costume, filosofia di vita, intelligenza operativa, ha opacizzato la nostra identità, mortificato la nostra genialità e indotti ad una sorta di semiletargo. Oggi siamo costretti per legge ad omologarci agli altri, dobbiamo rinunciare alle nostre specificità per uniformarci a quelle degli altri, senza avere né vocazione né mezzi. Abbiamo forse dimenticato l’incidente di Buttiglione di alcuni anni fa quando per essere ammesso come commissario europeo fu sottoposto ad esame e bocciato per aver risposto a specifica domanda sull’omosessualità che lui da cattolico la considerava peccato? Fuori! Gli fu intimato. E il povero Buttiglione dovette uscire con la coda fra le gambe nel tripudio perfino degli illuministi nostrani.
Non c’è stato mai nella storia un potere imperiale così centralizzato come oggi l’Europa. Perfino l’impero romano lasciava i popoli nelle loro credenze. Noi non possiamo fare più neppure la pizza, imbottigliare il vino, mungere le vacche e le pecore coi nostri sistemi. E se perfino nelle monete siamo tutti d’accordo a simboleggiare su una faccia il comune dio Euro, sull’altra non possiamo mettere nessun simbolo che contraddistingua un popolo dall’altro. La Slovenia è stata diffidata dal togliere la croce dalla sua moneta di due euro. Se questa è sovranità vuol dire che tutti gli scrittori precedenti a questa bella trovata non hanno capito niente. Per avere una rappresentazione plastica di questa perdita di sovranità e di identità immaginiamo di aver rinunciato alla Toscana, alla Sicilia, alla Lombardia con tutta la loro arte, la loro storia, la loro potenzialità economica e culturale. Chiameremmo più Italia la parte restante? 
Intanto l’Europa si allarga, arrivano nuovi clienti, che per forza di cose incideranno sugli equilibri interni. La Polonia ci ha superati nella produzione di elettrodomestici. E chi si meraviglia? Se noi siamo costretti ad operare nelle regole dettate da altri e stare nelle regole dei “limiti condivisi” per forza che gli altri ci fottono.
Sì – ci ricordano i soliti imbroglioni di Stato – ma poi ci sono i benefici! E quali? Viviamo in recessione, stiamo precipitando nella povertà, i giovani sono disoccupati, lo Stato non garantisce più niente, taglia di qua e taglia di là non si gode più della sanità, dei trasporti, della scuola, della tutela dei beni culturali, della giustizia. L’Italia è ricaduta in una nuova schiavitù europea, poco cambia se napoleonica, asburgica o borbonica. E siccome non c’è schiavitù che non sia anche povertà, ecco che aumentano le difficoltà e si riducono giorno dopo giorno le possibilità di ripresa. Una condizione dalla quale bisognerebbe trovare il coraggio di evadere.
Perché stiamo volontariamente rinunciando ad essere liberi e benestanti, come eravamo fino ad una ventina di anni fa? “Se da le proprie mani / questo n’avene – diceva il Petrarca – or chi fia che ne scampi?”.
Le risposte potrebbero essere due. La prima è l’ubriacatura neoilluminista. La convinzione che se tutti siamo uguali tutti stiamo meglio porta all’abbaglio dell’annullamento delle differenze. Errore, perché le differenze torneranno a riproporsi con l’aggravante per quei paesi che avevano posizioni di vantaggio. L’Europa dei ventotto o dei trenta non significa che tutti beneficeranno allo stesso modo, ma quelli che stavano peggio staranno meglio e quelli che stavano meglio staranno peggio, come per il principio dei vasi comunicanti. E questo sarebbe poco male se non si verificassero le conseguenze che in genere si verificano e cioè che i trend di miglioramento e di peggioramento continuano, col ribaltamento delle posizioni iniziali. La qualcosa potrebbe pure andar bene per i tanti illusi e masochisti di questo neoilluminismo; ma non può essere tollerato da chi sa di possedere le doti e le risorse di riscattarsi. Sol che riesca a liberarsi da lacci e laccioli che lo imbrigliano. Non a caso l’Inghilterra non ha voluto entrare nell’Euro e ogni tanto minaccia perfino di uscire dall’Europa.
La seconda risposta è che noi paghiamo il prezzo della pace. Il vecchio ordine di cose portava inesorabilmente a dover regolare i conti periodicamente con le guerre. Quando i potenti si accorgevano che era a rischio la loro supremazia ricorrevano alla guerra, che riportava alle gerarchie consolidate. E probabilmente anche oggi, se non ci fossero state le istituzioni europee e mondiali di unione e di cooperazione, si sarebbe giunti alla stessa conclusione. Ma il mantenimento della pace comporta la rinuncia non solo a quote di sovranità, come detto, ma anche a parte del nostro benessere.
Questo vale per tutti? Per noi come per Francesi e i Tedeschi? Evidentemente no – la realtà ci è sbattuta in faccia – vediamo che la Germania dall’Europa e dal suo ampliamento trae benefici, a danno di altri popoli, una volta concorrenti. Di qui l’attualità della “gabbia” petrarchesca e della necessità di liberarci delle nuove “dannose some”.