domenica 28 luglio 2013

Napolitano e le patologie della politica


Giorgio Napolitano considera il frequente ricorso ad elezioni anticipate “una delle più dannose patologie italiane” (Corriere della Sera, 24 luglio 2013). Lo ha scritto in risposta a Fausto Bertinotti, ex segretario del Partito della rifondazione comunista, che il giorno prima gli aveva rivolto una lettera aperta, in cui gli aveva detto “Lei non può congelare d’autorità una delle possibili soluzioni al problema del governo del Paese, quella in atto, come se fosse l’unica possibile, come se fosse prescritta da una volontà superiore o come se fosse oggettivata dalla realtà storica. Lei non può, perché altrimenti la democrazia verrebbe sospesa” (Corriere della Sera, 22 luglio 2013).
E’ di tutta evidenza che i due duellanti, pur provenendo dalla stessa parte politica, la comunista, hanno idee diverse su che cosa debba essere la “politica” in un corretto sistema democratico, posizioni radicalizzate dalla contingente diversità dei ruoli che attualmente i due occupano.
Per Napolitano la politica italiana soffre di “dannose patologie” e ritiene che il frequente ricorso ad elezioni politiche anticipate sia una delle più dannose, perché crea problemi di instabilità ed incertezza al Paese specialmente quando già esso si trova in difficoltà. Per Bertinotti il ricorso alle elezioni anticipate risponde ad un’esigenza di democratica conflittualità politica. Per l’ex sindacalista e segretario politico quando al governo c’è la parte avversa fine di chi sta all’opposizione è di mettere in difficoltà la maggioranza e di far cadere il governo. Una posizione assai condivisa a sinistra. Patologia tipicamente italiana, dice Napolitano; e io aggiungerei di tradizione comunista.
Viene di chiedersi quali sarebbero le altre “dannose patologie” politiche di cui soffre l’Italia e di cui parla Napolitano. La prima e più immediata da associare alle elezioni anticipate è appunto il considerare lo scontro politico per la conquista del potere, che si prolunga oltre la campagna elettorale, l’obiettivo prioritario se non addirittura esclusivo della politica. Un obiettivo per il quale si sacrifica perfino il bene comune della Nazione e dello Stato; ciò che dovrebbe costituire invece la ragione stessa della politica.
Lo vediamo nell’attuale congiuntura col governo di Larghe Intese tra Pd, Pdl e Lista Civica guidato da Enrico Letta. Tutti sanno che questo è stato l’unico possibile dopo il risultato elettorale di no contest, il rifiuto del Movimento 5 Stelle di accordarsi col Pd per un governo Bersani, a cui il Presidente Napolitano aveva dato l’incarico di formarlo, e il non poter tornare al voto con una legge, il Porcellum, a cui si attribuiscono tutti i mali della politica italiani di questi ultimi anni. Ma, nonostante la mancanza acclarata di alternative, tutti i protagonisti di questo governo dicono di provare il voltastomaco quando pensano di farne parte, tranne quelli della Lista Civica; i quali se non dicono di sentirsi bene neppure dicono di sentirsi male. Molti, da una parte e dall’altra, mentre dicono di lavorare lealmente per il governo, nei comportamenti gli creano ostacoli e fastidi per farlo esplodere, senza sapere e neppure senza porsi il problema di cosa potrebbe accadere dopo.
I più ostinati di tutti – ma questi dichiaratamente e programmaticamente ostili – sono quelli del Movimento 5 Stelle, i quali, forse pentiti di non aver accolto l’invito insistito di Bersani, ora danno randellate dalla mattina alla sera ad un governo di cui sono causa. Una formazione politica, il Movimento 5 Stelle, solo apparentemente diversa, in realtà è la solita formazione di radicalismo disfattivo, che dai radicali di Cavallotti, ai missini di Almirante, ai radicali di Pannella, ai giustizialisti di Di Pietro, è stata sempre presente nel parlamento italiano. Con l’aggravante per il Movimento di Grillo di essere nato vecchio, in quanto presenta tutte le astuzie, i calcoli, i vizi dei partiti italiani antigovernativi e perfino antiparlamentari.  
Un esempio lo hanno dato in occasione del Decreto Legge del fare. Per impedirlo, perché ritenuto inadeguato ai bisogni del Paese, hanno presentato centinaia di emendamenti e di ordini del giorno. A discuterli tutti, il Decreto non sarebbe stato approvato entro i termini. Ragione per la quale il governo, dopo aver tentato di convincerli a ridurli per consentire un sereno e proficuo dibattito prima di giungere all’approvazione, ha messo il voto di fiducia. Apriti, cielo! Come se i passaggi osservati non fossero scontati. I 5 Stelle hanno accusato il governo di aver esautorato il Parlamento impedendo il dibattito. Ovviamente sarebbe bastato ridurre gli emendamenti e il dibattito ci sarebbe stato. Ma ai nuovi radicali non interessava né il Decreto, né il dibattito, né il Parlamento; ma semplicemente mettere il governo tra il non approvare il decreto e il non consentire il dibattito. Il classico esempio di come in Italia la politica non è concorso corretto tra soggetti politici diversi col comune intento di amministrare il Paese, ma è lotta continua tra di loro, aspra, senza esclusione di colpi, da muore Sansone con tutti i Filistei, fino a rovesciare il governo e gettare il Paese nel caos e nel disastro.
Inutile, tuttavia, piangerci addosso. Noi italiani siamo fatti così. A questo punto se la medesima democrazia, così bene osservata da tedeschi, francesi, inglesi e via di seguito, da noi produce patologie, quali le descritte ed altre ancora, potremmo cercare di cambiarla, di adattarla al nostro carattere. Ogni tentativo di farlo, però, naufraga nell’ipocrisia, nei complessi di inferiorità, nello scarso senso di pragmatismo.

Ma i rimedi ci sono. In chiusura mi viene di ricordare il gravissimo ammutinamento del Pd durante l’elezione del Capo  dello Stato e la perdurante anarchia in quel partito. Sarebbe antidemocratico espellere i riottosi e gli sleali? Non lo so. Democrazia o non democrazia, io non avrei esitato a farlo. Uno o cento non cambia, conta il principio.   

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