Giorgio Napolitano considera il
frequente ricorso ad elezioni anticipate “una delle più dannose patologie
italiane” (Corriere della Sera, 24 luglio 2013). Lo ha scritto in risposta a
Fausto Bertinotti, ex segretario del Partito della rifondazione comunista, che
il giorno prima gli aveva rivolto una lettera aperta, in cui gli aveva detto
“Lei non può congelare d’autorità una delle possibili soluzioni al problema del
governo del Paese, quella in atto, come se fosse l’unica possibile, come se
fosse prescritta da una volontà superiore o come se fosse oggettivata dalla
realtà storica. Lei non può, perché altrimenti la democrazia verrebbe sospesa”
(Corriere della Sera, 22 luglio 2013).
E’ di tutta evidenza che i due
duellanti, pur provenendo dalla stessa parte politica, la comunista, hanno idee
diverse su che cosa debba essere la “politica” in un corretto sistema
democratico, posizioni radicalizzate dalla contingente diversità dei ruoli che
attualmente i due occupano.
Per Napolitano la politica
italiana soffre di “dannose patologie” e ritiene che il frequente ricorso ad
elezioni politiche anticipate sia una delle più dannose, perché crea problemi
di instabilità ed incertezza al Paese specialmente quando già esso si trova in
difficoltà. Per Bertinotti il ricorso alle elezioni anticipate risponde ad
un’esigenza di democratica conflittualità politica. Per l’ex sindacalista e
segretario politico quando al governo c’è la parte avversa fine di chi sta
all’opposizione è di mettere in difficoltà la maggioranza e di far cadere il
governo. Una posizione assai condivisa a sinistra. Patologia tipicamente
italiana, dice Napolitano; e io aggiungerei di tradizione comunista.
Viene di chiedersi quali sarebbero
le altre “dannose patologie” politiche di cui soffre l’Italia e di cui parla
Napolitano. La prima e più immediata da associare alle elezioni anticipate è appunto
il considerare lo scontro politico per la conquista del potere, che si prolunga
oltre la campagna elettorale, l’obiettivo prioritario se non addirittura
esclusivo della politica. Un obiettivo per il quale si sacrifica perfino il
bene comune della Nazione e dello Stato; ciò che dovrebbe costituire invece la
ragione stessa della politica.
Lo vediamo nell’attuale congiuntura
col governo di Larghe Intese tra Pd, Pdl e Lista Civica guidato da Enrico
Letta. Tutti sanno che questo è stato l’unico possibile dopo il risultato
elettorale di no contest, il rifiuto
del Movimento 5 Stelle di accordarsi col Pd per un governo Bersani, a cui il
Presidente Napolitano aveva dato l’incarico di formarlo, e il non poter tornare
al voto con una legge, il Porcellum,
a cui si attribuiscono tutti i mali della politica italiani di questi ultimi
anni. Ma, nonostante la mancanza acclarata di alternative, tutti i protagonisti
di questo governo dicono di provare il voltastomaco quando pensano di farne
parte, tranne quelli della Lista Civica; i quali se non dicono di sentirsi bene
neppure dicono di sentirsi male. Molti, da una parte e dall’altra, mentre
dicono di lavorare lealmente per il governo, nei comportamenti gli creano
ostacoli e fastidi per farlo esplodere, senza sapere e neppure senza porsi il
problema di cosa potrebbe accadere dopo.
I più ostinati di tutti – ma
questi dichiaratamente e programmaticamente ostili – sono quelli del Movimento
5 Stelle, i quali, forse pentiti di non aver accolto l’invito insistito di
Bersani, ora danno randellate dalla mattina alla sera ad un governo di cui sono
causa. Una formazione politica, il Movimento 5 Stelle, solo apparentemente
diversa, in realtà è la solita formazione di radicalismo disfattivo, che dai
radicali di Cavallotti, ai missini di Almirante, ai radicali di Pannella, ai
giustizialisti di Di Pietro, è stata sempre presente nel parlamento italiano. Con
l’aggravante per il Movimento di Grillo di essere nato vecchio, in quanto
presenta tutte le astuzie, i calcoli, i vizi dei partiti italiani
antigovernativi e perfino antiparlamentari.
Un esempio lo hanno dato in
occasione del Decreto Legge del fare. Per impedirlo, perché ritenuto inadeguato
ai bisogni del Paese, hanno presentato centinaia di emendamenti e di ordini del
giorno. A discuterli tutti, il Decreto non sarebbe stato approvato entro i
termini. Ragione per la quale il governo, dopo aver tentato di convincerli a
ridurli per consentire un sereno e proficuo dibattito prima di giungere
all’approvazione, ha messo il voto di fiducia. Apriti, cielo! Come se i
passaggi osservati non fossero scontati. I 5 Stelle hanno accusato il governo
di aver esautorato il Parlamento impedendo il dibattito. Ovviamente sarebbe
bastato ridurre gli emendamenti e il dibattito ci sarebbe stato. Ma ai nuovi
radicali non interessava né il Decreto, né il dibattito, né il Parlamento; ma
semplicemente mettere il governo tra il non approvare il decreto e il non
consentire il dibattito. Il classico esempio di come in Italia la politica non
è concorso corretto tra soggetti politici diversi col comune intento di
amministrare il Paese, ma è lotta continua tra di loro, aspra, senza esclusione
di colpi, da muore Sansone con tutti i Filistei, fino a rovesciare il governo e
gettare il Paese nel caos e nel disastro.
Inutile, tuttavia, piangerci
addosso. Noi italiani siamo fatti così. A questo punto se la medesima
democrazia, così bene osservata da tedeschi, francesi, inglesi e via di
seguito, da noi produce patologie, quali le descritte ed altre ancora, potremmo
cercare di cambiarla, di adattarla al nostro carattere. Ogni tentativo di
farlo, però, naufraga nell’ipocrisia, nei complessi di inferiorità, nello
scarso senso di pragmatismo.
Ma i rimedi ci sono. In chiusura
mi viene di ricordare il gravissimo ammutinamento del Pd durante l’elezione del
Capo dello Stato e la perdurante
anarchia in quel partito. Sarebbe antidemocratico espellere i riottosi e gli
sleali? Non lo so. Democrazia o non democrazia, io non avrei esitato a farlo.
Uno o cento non cambia, conta il principio.
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