domenica 26 febbraio 2017

Epurato Torquato Tasso, Gerusalemme rioccupata


Da diciassette settimane il “Corriere della Sera” vende col quotidiano un dvd della serie “I grandi della letteratura italiana”; serie che si concluderà col ventesimo dvd. E’ una di quelle imprese editoriali che segnano una tappa nella fortuna dei grandi autori, perché l’inclusione o l’esclusione di questo o di quello assume un’importanza che va ben oltre il dato storico-letterario, di gusto o di interesse, e investe altri criteri, non sempre esplicitati.
“Una collana inedita – si legge all’esterno del cofanetto che contiene ogni dvd – realizzata appositamente per Corriere della Sera da Rai Cultura. In 20 dvd, da Dante a Pasolini, un viaggio alla scoperta dei grandi autori della letteratura italiana, delle loro opere, del loro stile, della loro storia e dei loro luoghi. Un racconto moderno, vivo, d’impatto e rigoroso con la presenza di noti critici e ospiti d’eccezione. La narrazione di Edoardo Camurri e le letture di Licia Maglietta scandiscono il ritmo di ogni puntata. Per raccontare l’avventura di leggere un grande libro”. 
Ho citato per intero perché tutto condivisibile. I diciassette dvd finora usciti propongono dei profili magistralmente orditi, leggeri nella narrazione ma profondi negli interventi di noti storici e critici della letteratura, dei tempi passati e di quelli più recenti, nonché testimonianze di scrittori e poeti dei nostri giorni. Qualcuno è riuscito meglio di altri; ma questo è normale: ogni autore ha un suo speciale filo da far tessere.
Accattivante Edoardo Camurri. Veramente brava la Maglietta, molto espressiva, nitida la vocalità, anche se non riesce credibile con tutti gli autori; un po’ perché non è opportuno far leggere ad una donna un sonetto d’amore di Dante o di altro poeta, concepito e scritto da un uomo, un po’ per eccessiva gestualità che a tratti sembra quasi danzare più che recitare un testo letterario.
Sono stati passati in rassegna finora Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Carducci, Verga, Pascoli, Svevo, D’Annunzio, Pirandello, Ungaretti, Gadda, Montale, Pavese. A questo punto ne mancherebbero tre: Elsa Morante, Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini.
Facciamo i conti: una sola donna, la Morante; diciannove uomini; tre Premi Nobel su sei; almeno due gli esclusi eccellenti: Torquato Tasso e Salvatore Quasimodo.
Detto che finalmente si è in presenza di una rassegna letteraria, che arriva a comprendere autori fino all’ultimo Novecento, che perfino nei manuali scolastici sono marginali e che comunque non si studiano anche per mancanza di tempo – era ora che si studiassero! – l’esclusione del Tasso è davvero grave e inspiegabile.
Sia come poeta che come teorico della letteratura Torquato Tasso è tra i massimi in assoluto. Lo prova la sua centralità storiografica e critica per secoli e secoli. Nessun altro poeta e intellettuale italiano esprime meglio la problematicità dei suoi tempi, la controriforma, il conflitto tra libertà artistica, osservanza delle regole e condizionamenti del potere. Il suo essere poesia e vita, secondo una nota formula critico-biografica, appare come in nessun altro poeta. La modernità della sua lingua lo rende un fenomeno a tutt’oggi insuperato. Considerato dagli storici della letteratura di tutti i tempi un personaggio tragico, Tasso, con la sua vicenda letteraria e umana, ha ispirato scrittori di altre letterature, del calibro di uno Schiller, che scrisse su di lui un dramma. 
E' probabile che venga recuperato da una nuova serie o dal prolungamento della stessa; ma sarebbe già una sorta di retrocessione in serie B.
La sua assenza dalla serie risalta ancora di più nel vuoto lasciato tra l’Ariosto e il Foscolo, che apre una voragine incomprensibile nella storia della nostra letteratura, tanto più che sono “nascosti” autori per nulla secondari come Gian Battista Marino, Carlo Goldoni, Vittorio Alfieri e Giuseppe Parini. Due secoli ignorati: il Seicento e il Settecento. 
Non si capisce come sia potuta accadere una cosa simile. Sarebbe banale un taglio da spending rewue; ma sarebbe davvero grave se nel caso del Tasso si sia voluto fare un omaggio o semplicemente non offendere i nostri ospiti arabi e mussulmani. Dopo il tentativo di abolire il presepe, di togliere il crocefisso dagli uffici pubblici e la vestitura dei nudi romani in occasione della visita del presidente iraniano Rohuani, nascondere ora l’autore de “La Gerusalemme liberata”, dato che ormai anche l’Unesco è per la islamizzazione della città (v. risoluzione per Gerusalemme est, approvata con l'astensione dell'Italia), sarebbe un’offesa intollerabile alla nostra dignità nazionale. Qualcosa che nessun paese della più sperduta landa del mondo farebbe. Sarebbe come un cedere parte della nostra sovranità, ovvero della nostra civiltà, alla stregua di decisioni economico-finanziarie, già abbastanza difficili da digerire.


domenica 19 febbraio 2017

Due tre cose sul populismo


Se oggi vuoi insultare uno, chiamalo populista. Ma se vuoi elogiarlo, chiamalo sempre populista. Il termine, che deriva da populismo, è ambivalente. Nella sua accezione politica in Italia è recente.   
Il punto fondamentale è chiarire sulla soglia d’ingresso della questione che cosa s’intende per populista. Stando al tema della parola e alla sua desinenza, viene di pensare che populista è chi pensa e agisce in favore del popolo. Così inteso, tutti dovrebbero essere populisti; ma può indicare anche chi pensa e agisce come il popolo. In questo secondo caso c’è chi mena vanto di esserlo e chi, invece, respinge l’attributo e pone un distinguo: chi pensa e agisce come il popolo non sempre pensa e agisce in suo favore. Di più o meno populisti e addirittura di antipopulisti se ne trovano nelle due grandi aree politiche; perfino nella chiesa, dove papa Francesco populista lo è senza se e senza ma.
Ovvio che la distinzione è di servizio, serve solo per rendere l’idea. Come per il colesterolo, c’è dunque un populismo positivo e un populismo negativo. I populisti positivi sono quelli che, pur usando metodi impopolari, pensano e agiscono per migliorare le condizioni del popolo. I populisti negativi – stiamo parlando sempre di politici, intellettuali e scrittori, di quelli cioè che creano opinione – sono quelli che cavalcano la tigre del popolo, che pensano e agiscono come il popolo vorrebbe che agissero: immediati, sommari, generalizzanti.  
Prendiamo l’esempio oggi più speso dai populisti. Ci sono flussi migratori che arrivano da noi? Bene, costruiamo muri e innalziamo reticolati, come fanno altri paesi, per impedirne l’accesso e siccome noi siamo circondati dall’acqua e non dalla terra, i muri facciamoli di navi. Già si sono verificati casi di sindaci che hanno respinto gli arrivi dei migranti nei loro paesi disposti dalla Prefettura ed altri che hanno impedito materialmente l’accesso ostruendo le strade.
Il popolo vede l’immediato, non sceglie, ma opera e difficilmente connette le conseguenze che ne derivano. Per restare nell’esempio dei migranti, non si considera che ci sono tanti italiani sparsi nel mondo, che così vengono esposti a rappresaglie, che s’interrompono i rapporti commerciali con molti altri paesi, che si acuiscono i conflitti che da politici possono diventare militari e via di seguito. Gli antipopulisti, pur comprendendo il malumore del popolo, sostengono le ragioni del governo che gestisce il problema in maniera dilatoria, liquida, anche truffaldina – diciamola tutta! – per un verso dando ad intendere che non si può fare proprio nulla e per un altro propagandando qualche espulsione e rimpatrio di soggetti particolarmente pericolosi, come gli estremisti islamici: un gettare nelle fauci di Cerbero un po’ di fango.
E’ quanto ha fatto l’Italia in questi ultimi anni, sia coi governi di centrodestra che con quelli di centrosinistra; parole a parte.
Per capire l’importanza del populismo e soprattutto le differenze tra chi pensa e agisce per il popolo e chi pensa e agisce come il popolo, si consideri l’esercizio professionale di un insegnante. Questi, applicando la formula populista, che per comodità lessicale chiamiamo studentista, dovrebbe comportarsi come uno che, piuttosto che insegnare avendo come punto di riferimento il sapere, la formazione del cittadino e del professionista, cercasse di tenere contenti gli studenti. Lo studentismo come il populismo. Una scuola studentista sarebbe nefasta sul piano personale e sociale. Da una simile scuola verrebbero fuori soggetti di difficile definizione civica, di approssimative capacità professionali, di nessuna formazione.
Allora bisognerebbe insegnare contro gli studenti o prescindere da essi? Assolutamente no. Stabiliti contenuti, metodi, criteri e obiettivi, tutti improntati e tesi alla formazione del cittadino e del professionista, lo studentismo dovrebbe giustificarsi entro queste coordinate. Allo stesso modo il populismo non dovrebbe uscire dalle coordinate costituzionali.
Sano operato è quello dell’insegnante che conosce i suoi alunni e cerca di guidarli con l’esempio e la dottrina verso obiettivi importanti per l’individuo e per le istituzioni. Così, sano populismo è quello che capisce le esigenze del popolo e opera per soddisfarle ma nello stesso tempo non rinuncia ad educarlo.
Il “popolo bambino” è una recente trovata dello storico Antonio Gibelli per significare come il regime fascista considerava il popolo; ma non bisogna considerare la formula nella sua accezione negativa. In un certo senso ogni buon governo, nelle leggi e negli interventi, non dovrebbe rinunciare mai alla sua funzione pedagogica.
Non si tratta di avere una visione pessimistica dell’uomo e del popolo, ma di non escludere che in determinati periodi di crisi e di emergenza, il popolo va guidato verso approdi favorevoli, per evitare che si facesse male da sé pensando di farsi del bene.  
Gli antipopulisti a volte sono i veri populisti: antipopulisti a parole; populistissimi nei fatti. Attori, cantanti, uomini dello spettacolo, che in tutto l’Occidente si professano antipopulisti – si consideri quel che hanno detto e fatto per il caso Trump negli Stati Uniti d’America! – in realtà sono autentici populisti, della specie più cinica, che è sempre quella bottegaia. Davvero cantanti e attori, che fanno soldi a palate col pubblico che paga per osannarli, non sono interessati a mostrarsi antipopulisti? Chi andrebbe a vedere i loro film, a seguire i loro spettacoli, a comprare i loro prodotti? Essi, difendendo le fasce sociali più numerose e basse, in realtà difendono il proprio mercato.

Non si sottovaluti un dato importantissimo nella società di oggi, nella quale chi detta la morale, la moda, il costume, il pensiero, i gusti sono i cantanti. Vasco Rossi, Ligabue e Jovannotti – tanto per citare alcuni dei nostri – contano più di quanto contavano Croce, Gentile e Bobbio nella loro società. Essi non erano né populisti né antipopulisti, ma convinti assertori che non si deve andare contro il popolo, ma neppure blandirlo o assecondarlo, e che il popolo aveva bisogno di loro assai di più di quanto loro non avessero bisogno del popolo. Oggi il rapporto è rovesciato: i nuovi educatori hanno bisogno degli educandi come un supermercato ha bisogno di clienti. Che è un po’ il populismo da scaffale. Vedi il caso di Partigiano reggiano di Zucchero, parodistico quanto si vuole ma marchio di rara efficacia e suggestione. 

domenica 12 febbraio 2017

La chiesa dei poveri non è chiesa


A Roma la mattina del 4 febbraio i romani potevano leggere affisso sui muri della città un manifesto anonimo con accuse a Papa Francesco. A France’, hai commissariato Congregazioni, rimosso sacerdoti, decapitato l’Ordine di Malta e i Francescani dell’Immacolata, ignorato i Cardinali… ma n’do sta la tua misericordia?”. Una pasquinata, i contenuti della quale però rivelano una fonte più alta, in quanto riferiscono provvedimenti relativi ai piani alti della chiesa: congregazioni, ordini religiosi, cardinali. Per stare nello schema della comunicazione, popolare non è il messaggio, ma il mezzo e il destinatario. La protesta anti Bergoglio è passata dalle sale e dai corridoi dei palazzi vaticani alle strade di Roma.
Da tempo si parla di opposizione al verbo bergogliano tra teologi, ecclesiastici, gerarchie vaticane. Conservatori e reazionari, come vengono chiamati dai progressisti coloro che difendono l’ortodossia, scontenti delle cosiddette aperture del papa sudamericano, considerate vere e proprie svendite dottrinali: gay, divorziati, unioni civili, aborti e via permettendo dietro il carro che in Italia è tirato da radicali, sinistra estrema e centri sociali, hanno deciso di portare nelle piazze le ragioni del dissenso.
Quale la materia del contendere? E soprattutto che cosa lega le cosiddette aperture di Bergoglio coi suoi provvedimenti nei confronti di congregazioni e ordini? 
Fatti salvi gli aspetti marginali del modo di essere e di apparire di Papa Francesco, che riguardano la sfera caratteriale, questo papa, nella sua politica inclusiva di peccatori, sacrifica punti cardine della dottrina cattolica, fino a mettere in discussione perfino il concetto di peccato. E va oltre quando afferma che la sua è la chiesa dei poveri, con ciò dandole una connotazione esclusiva. Ne consegue che i ricchi, solo per essere tali, sono esclusi dalla sua chiesa. E così quelli che ricchi non sono ma vorrebbero esserlo. Ma una chiesa di parte non può rappresentare la chiesa che, per definizione, è “assemblea”, perciò di tutti. Bergoglio vuole una chiesa-partito. Il suo proclama sembra fare il paio con quello engels-marxista “poveri di tutto il mondo unitevi”; anzi “peccatori di tutto il mondo unitevi, purché siate poveri”, la chiesa vi accoglie, in nome della misericordia. I peccati dei poveri non sono peccati.
Papa Francesco, fin dal suo primo pantofolato ingresso nel mondo dell’ecumene cristiana, “buonasera”, si è proposto come il capo dell’internazionale dei poveri, non per far loro cambiare condizione ma per esaltarne le virtù. Il suo atteggiamento mentale è di esaltazione della povertà. In lui la condizione di povero non deve essere considerata fase da superare verso la ricchezza secondo un ordine naturale e universale – gli uomini da sempre tendono a vivere meglio – ma uno stato di felicità da conservare e coltivare. In contrasto, chi è ricco e soprattutto chi cerca di essere ricco, per Papa Bergoglio è un malvagio. Rispetto all’elogio della povertà del poverello d’Assisi, che non esecrava chi era ricco o chi cercava di esserlo, Papa Bergoglio si pone come un autentico leader politico o sindacale. Viva la povertà, morte alla ricchezza! E’ qui il corto circuito.
I suoi continui attacchi al capitalismo, in quanto pensiero e prassi dell’accumulo e dell’investimento a fini economici per migliorare e potenziare le strutture del sistema, in cui trovano miglioramenti di vita il singolo e la società, mettono fuori della chiesa persone che, fino a prova contraria - basterebbe una lettura più critica della storia - hanno dato vita ad un progressivo benessere individuale e sociale. Il capitalismo si è realizzato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ha provocato guerre e devastazioni. Questo è indiscutibile, ma ha anche promosso la civiltà di cui tutti nel mondo, sia pure in maniera e misura diversa, godono i benefici.
Quando si combatte il capitalismo per i suoi effetti negativi, per i suoi eccessi e le sue storture, occorre tener presente che nessun progresso sarebbe stato possibile senza il suo formarsi, senza il suo esercizio. Sarebbe come se davanti ad una grande e meravigliosa opera d’arte ci si soffermasse esclusivamente a considerare la fatica fisica costata al suo artefice e ai tanti lavoratori che hanno contribuito a realizzarla. Se non ci fosse stato lo sfruttamento, perfino animalesco, di quei lavoratori, evidentemente non ci sarebbe stata l’opera bella e meravigliosa. Sono considerazioni banali, che dovrebbero essere capite già alla prima elementare. Invece abbiamo ancora oggi colti e finissimi storici dell’arte e critici d’arte, che mentre si estasiano davanti alla bellezza di un’opera d’arte, predicano contro la ricchezza che quell’opera ha prodotto.
Chi critica e maledice la ricchezza e il capitalismo ha ragione di farlo purché sia consequenziale. Nessuno può beatificare l’effetto maledicendo la causa. La povertà è una condizione che va superata. In questo la ricchezza ha un ruolo fondamentale, in quanto è l’unica che possiede i mezzi per aiutare i poveri a soffrire di meno le conseguenze della povertà o a farli diventare meno poveri o addirittura ricchi. Ma tutto ciò è secondario, non è lo scopo precipuo dell’economia, che, come la politica, è autonoma con le sue leggi. La carità non può essere lo scopo dell’economia; essa si basa e tende al profitto; la carità rende ancor più importante e nobile la funzione. 
Un papa, chiunque esso sia, deve saper rappresentare tutti i cristiani, poveri e ricchi, dicendo ai primi di non rassegnarsi e di impegnarsi ad uscire dalla loro condizione e convincere i ricchi a fornire ai poveri tutti gli aiuti di cui hanno bisogno. “Chi ha avuto in copia – dice il Manzoni ne “La pentecoste” – doni con volto amico / con quel tacer pudico / che lieto il don ti fa”. Ai tempi del Manzoni si poteva parlare di “dono”, oggi quel dono va inteso come condizione che lo Stato e la Società pongono al servizio del cittadino per migliorarsi.

Il comunismo di Bergoglio è viscerale e si pone fuori da ogni dialettica. La sua cultura qui da noi è stata ampiamente superata, non sui libri ma nella realtà della vita. A ben riflettere la sua posizione di apologeta della povertà e di iconoclasta della ricchezza, a lungo andare penalizza i poveri e favorisce i ricchi. Negli uni spegne ogni forza di guardare oltre la propria condizione; negli altri rafforza le loro difese mettendoli al riparo da quelle minacce che la storia ha sempre prodotto col pensiero, la volontà e la forza dei poveri e dei bisognosi. 

domenica 5 febbraio 2017

Fallimento grillino con vista su Roma


Certo è che le cose che accadono in Italia sono straordinarie. Come straordinaria è la pessima propaganda che si sta facendo di Roma nel mondo, quale città ingovernabile. Sta passando l’idea che se Roma è riottosa perfino al Movimento di Grillo vuol dire che non c’è proprio niente da fare. Ma il Movimento di Grillo non è il massimo dei rimedi, è purtroppo meno del minimo. Non è tanto questione di onestà quanto di incapacità.  
Qualche anno fa Claudio Scajola, all’epoca ministro dello sviluppo economico, acquistò a Roma una casa con vista sul Colosseo per un prezzo irrisorio, praticamente regalata. In sostanza quella casa era stata pagata da Scajola solo in parte, un terzo circa del suo valore; la rimanente somma, per giungere al prezzo congruo e realmente pagato, l’aveva graziosamente sborsata la cosiddetta “cricca Anemone”. Il capo della “cricca” era l’imprenditore, Anemone appunto, che era riuscito ad accaparrarsi gran parte dei lavori per i “Grandi Eventi”. Guadagni enormi, altro che un mezzanino con vista sul Colosseo! Perciò, non è che tirasse fuori tanti soldi per amicizia o per stima nei confronti di Scajola. Nel mondo della politica e degli affari dare vuol dire soltanto poter poi ricevere; e non è detto che l’una cosa segua l’altra, a volte la precede. Il caso fece un po’ ridere gli italiani perché ad un certo punto Scajola disse che lui non ne sapeva niente e che se avesse preso chi gliel’aveva pagata… Figurarsi! Allora, in piena guerra a Berlusconi, a nessuno venne in mente di pensare che chissà, forse Scajola poteva davvero non sapere. Erano tempi in cui ognuno aveva in tasca pronto un timbro autoinchiostrante con su scritto: colpevole! Qualche risata e tanto disprezzo.
Il caso Scajola si è riproposto con la Sindaca di Roma Virginia Raggi, quella che doveva portare l’onestà e l’efficienza. Nel corso delle otto ore di interrogatorio, a cui è stata sottoposta dai pubblici ministeri che si stanno occupando del caso Marra, in cui lei è accusata di abuso d’ufficio e falso in atto pubblico, è uscito fuori che è beneficiaria di due polizze di assicurazione per un totale di trentatremila euro, stipulate da uno dei suoi uomini più vicini, Salvatore Romeo, sei mesi prima del voto e della promozione dello stesso da semplice funzionario a dirigente del Comune di Roma con uno stipendio da 110.000 euro all’anno, quattro volte il precedente.
E’ da escludere che il Romeo volesse creare una trappola alla Raggi. Si consideri piuttosto la sua furbizia: si prevedeva che la Raggi avrebbe stravinto le elezioni a sindaco di Roma e dunque era facile profondersi in tempi che a lui sembravano non sospetti in regali e atti di devozione.
Come da copione, la “vispa teresa” – così l’ha battezzata Vittorio Sgarbi – ha detto che lei non ne sapeva niente. Come Scajola! E Grillo addirittura avrebbe aggiunto: e beh, dov’è il reato? In effetti la Procura ha tenuto a dire con un comunicato che il caso non contiene nulla di penalmente rilevante. Quanta generosità da parte di certa magistratura!
Ma qui il discorso è politico. Un Movimento che non perdonava niente a nessuno, sia sul piano della capacità amministrativa sia sul piano della moralità, si trova in un mare di cacca.
La vicenda delle polizze presenta aspetti anche comici, alla Totò o alla Eduardo: la Raggi potrebbe intascare i trentatremila euro solo in caso di morte del Romeo. Il ridicolo – si sa – è peggio del tragico. Un po’ i grillini dovrebbero vergognarsi. Ma la verecundia, dopotutto, è una virtù assai rara nel mondo della politica.
Disonestà o dabbenaggine – fate voi! – sta di fatto che troppe minchiate sono state già fatte a Roma da una Giunta che doveva essere il rimedio a tutti i mali. Troppi favori non richiesti, troppe promozioni disinteressate, troppi regali immotivati, troppi aumenti di stipendio, troppe incongruenze in quel “mondo di mezzo” che resta l’ambiente politico-amministrativo romano, impietosamente inchiodato alla formula Carminati.  
Il Movimento grillino si sta rivelando ogni giorno di più uno straordinario fenomeno di inconsapevoli, di incapaci ed anche di ignoranti. Questi signori, che a vederli sembrano tanti Testimoni di Geova, stanno compromettendo sempre più la reputazione di chi su di loro aveva scommesso. In fondo – si diceva – meglio i grillini che intercettano il malcontento e la protesta degli italiani che certi estremismi populistici che non sai dove portano. Per questa considerazione una certa stampa, soprattutto quella specializzata in denunciare scandali e corruzioni – “Il fatto quotidiano”, per fare un esempio – ha avuto nei loro confronti un occhio di riguardo fino alla miopia critica o ad una sorta di rifiuto mentale di vedere le cose per come sono.
A sentirli i difensori dei grillini – Fassina, Padellaro, Travaglio – contro la Raggi c’è un’autentica campagna mediatica, un accanimento ingiustificato, addirittura un vero e proprio linciaggio. Li si può capire. Avevano scommesso su questa gente ed oggi non vogliono riconoscere di avere sbagliato. E’ come puntare sul rosso, esce il nero, e non voler ammettere che il nero non è il rosso.
Robespierre contro Luigi XVI disse che un re non è mai innocente. Una sindaca può esserlo? Il concetto non ne esce ridimensionato: chi gestisce il potere è sempre colpevole. Se la Raggi non è colpevole, vuol dire che è stupida. Ma un sindaco stupido è peggio di un sindaco disonesto. Grillo, Casaleggio e compagnia cantando sono dei furbastri, sanno perfettamente come funzionano gli ingranaggi della politica, della comunicazione e della propaganda. Da quando il fenomeno 5 Stelle è esploso è accaduto di tutto, non solo a Roma: un repertorio di figuracce, di prepotenze, di ingiustizie, di incoerenze, di improvvisazioni. Di fronte a tanto spettacolo c’è poco da affidarsi alla clemenza della corte. Il verdetto in politica è in rebus, sta nei fatti.

Questo Movimento ha sconvolto gli assetti politici, portando una ventata di novità, dovuta anche alle nuove forme di comunicazione, ma finora non è riuscito a dare nessuna indicazione praticabile, mentre ha dimostrato che è più facile far ridere o arrabbiare che governare. In genere nei cambiamenti politici, dopo una fase caotica e torbida, viene quella della normalizzazione. Sarebbe augurabile che la portassero politici veri.