venerdì 6 dicembre 2019

Paura e odio: la forza delle parole




Le due parole che circolano maggiormente nella propaganda politica da un po’ di tempo a questa parte in Italia sono “paura” e “odio”: due sentimenti non due fatti, anche se sono sentimenti che producono fatti. Il che la dice lunga sulla crisi della politica dei nostri tempi. A farne uso sono tutte le forze politiche, di sinistra e di destra.
Le forze antisalviniane, a cui recentemente si è aggiunta quella delle cosiddette “sardine”, fenomeno apparentemente spontaneo ma di chiara matrice ideologica di sinistra, in cui antifascismo e antirazzismo costituiscono assi portanti, ne hanno fatto spada e usbergo. In buona sostanza la propaganda delle forze politiche di sinistra, istituite o spontanee che siano, si concentra sulla persona di Matteo Salvini, capo della Lega e leader indiscusso, per il momento, del cartello di centrodestra, considerata tout court destra estrema, fascista e reazionaria.
Come si giustificano queste due parole? Prendiamo “paura”. Secondo il centrosinistra (Pd, Iv, Leu) Salvini miete successi per via della sua tambureggiante propaganda contro l’immigrazione, sbandierata come un’invasione che contaminerebbe a lungo andare la civiltà occidentale e cristiana fino a farle perdere i caratteri suoi propri. I migranti toglierebbero agli italiani spazi e opportunità vitali, come casa e lavoro. Egli spaventa la gente, esagerando gli aspetti di maggiore impatto, evocando terroristi islamici e trafficanti di uomini, mentre punta il dito contro i responsabili di casa nostra, ovvero contro le forze di centrosinistra, paventando un disastro nazionale. Di risulta egli si propone come l’eroe che scongiura la minaccia, come un Cid Campeador da reconquista. Stando a quasta narrazione, con la “paura” Salvini ha conquistato il favore degli italiani e potrebbe conquistare il potere politico.
Correlata a “paura”, secondo la formula anti Salvini, è “odio”. A motivare il capo della Lega, secondo i suoi avversari politici, sarebbe l’odio nei confronti dei diversi, dei migranti, dei rom, degli stranieri in genere. Odio che egli trasmetterebbe a quelle componenti del popolo tradizionalmente più suggestionabili e manipolabili. 
In realtà Salvini, come i politici in genere, non crea niente, ma utilizza quello che già c’è nella gente e, esagerandolo, lo trasforma in una formidabile arma di propaganda. Che politico sarebbe se non riuscisse ad intercettare i sentimenti della gente e a trasformarli in risorse politiche? La “paura” derivante dai migranti non l’ha inventata lui; semplicemente lui l’ha enfatizzata. Così l’ “odio”. Esso esiste già di suo, è un sentimento popolare. Sarebbe bello che non esistesse, ma esiste! Se “paura” e “odio” non esistessero e fossero frutto solo della sua propaganda, il popolo lo spernacchierebbe, come ha sempre fatto con gli sbruffoni alla miles gloriosus di plautiana memoria.  
Ma queste due parole, “paura” e “odio”, non vanno a beneficio esclusivo di Salvini. Il capo della Lega da beneficiario diventa vittima delle stesse quando sono usate dai suoi avversari del centrosinistra contro di lui.
Torniamo alla “paura”. Non è meno tambureggiante ed ossessiva la campagna del centrosinistra nell’inculcare nel popolo la paura del fascismo. La destra e Salvini in particolare sono presentati come un pericolo per la democrazia, giungendo a speculare perfino su una frase infelice sui “pieni poteri”, quasi che Salvini fosse Annibale alle porte di Roma. E’ bensì vero che questa è una “paura” di ritorno ogniqualvolta s’affacci un uomo politico un po’ più determinato dei soliti. Lo si paventava per Craxi, lo si è paventato per Berlusconi, lo si paventa oggi per Salvini, per non parlare dei continui “al lupo! al lupo!” dei comunisti al tempo della partitocrazia. Fascisti erano di volta in volta Scelba, Tambroni, Fanfani.
In realtà il fascismo non è cosa che si tiene nel cassetto e lo si utilizza da un giorno all’altro come un tagliacarte o un temperamatite. La paura del fascismo funziona ancora, anche se oggi in maniera meno consapevole e più verbosa. Il fatto che di tanto in tanto venga fuori la scoperta di un covo di nazisti, a cui si dà puntualmente un’importanza mediatica esagerata, non altera il reale pericolo delle nostre istituzioni, che sono ben salde. In altri paesi europei la situazione è ancora più grave, anche se dappertutto sotto controllo.  
Anche l’ “odio”, assai meno predicato ma assai più espresso, è utilizzato dal centrosinistra contro gli avversari di destra. Per scongiurare che Salvini vincesse le elezioni i partiti di centrosinistra quest’estate si sono alleati, senza nessun altro motivo, coi loro antagonisti del Movimento Cinque Stelle. Non si sono neppure preoccupati di squalificarsi davanti al Paese con capriole politiche da saltimbanchi pur di raggiungere l’obiettivo tattico di impedire le elezioni. La parola d’ordine era ed è: bisogna impedire che Salvini elegga il Presidente della Repubblica. Perciò: durare! durare! durare! fino alla meta. Può accadere tutto e più di tutto, ma la legislatura deve proseguire. L’insistenza dell’obbiettivo getta una pesante ombra di sospetto di parzialità non tanto sulla persona del Presidente, oggi Sergio Mattarella, domani un altro, quanto sull’istituzione medesima, che viene ipotizzata come riserva di potere. L’avversione per Salvini ha inventato un’emergenza democratica in presenza di una normale situazione politica del tutto fisiologica. Che cosa è tutto questo se non odio ad personam? 
La mobilitazione delle “sardine” è figlia di quest’odio, indipendentemente se all’origine è stato o meno un movimento spontaneo. Se fosse spontaneo sarebbe ancora peggio, di più risalterebbe l’effetto dell’odio antisalviniano dei suoi avversari. “La destra ha diritto di parlare ma non ha diritto di ascolto” vanno gridando le “sardine” per le piazze d’Italia. Oh che bella democrazia, Madama Doré.
E’ certo importante che nella vita di un Paese ci siano sempre dei riferimenti aggreganti cui far ricorso nei momenti di difficoltà. La Resistenza, l’antifascismo, l’antirazzismo lo sono. Dubito però che questo sia uno di quei momenti. Di certo c’è che di “paura” e di “odio” si stanno nutrendo sia la destra che la sinistra. 

martedì 3 dicembre 2019

Italia: chi odia chi




Sembra che in questi ultimi tempi la parola odio, usata come accusa all’avversario politico sia la più corrente nell’universo mondo della comunicazione in Italia.
Naturalmente senza i buoni e i cattivi non ci sarebbe né amore né odio. I buoni dicono di predicare amore, accoglienza, tolleranza. I cattivi sono quelli che queste cose non le accettano, non le vogliono, non le considerano come importanti al vivere civile. I primi sono quelli che vogliono accogliere quanti emigranti arrivano, pronti, carte in mano, a dar loro la cittadinanza italiana, che una volta chiamavano jus soli ed ora jus culturae. Non solo i pro emigranti, di amorosi sensi sarebbero dotati in esclusiva i cosiddetti antirazzisti, dove per razzismo s’intende qualunque forma anche scherzosa di distinzione antropologica. I cattivi, invece, che vorrebbero impedire ai migranti addirittura di partire dai loro paesi, sono razzisti, antisemiti, sessisti e odiatori professionali. Esemplificando, gli uni sarebbero di sinistra e gli altri di destra. La narrazione che passa è questa.  Ma chi ha dato agli uni la patente di buoni e agli altri quella di cattivi? Se fosse per la fisiognomica qualche problema di identificazione si porrebbe. Fra Salvini e Cuperlo, per esempio, chi dei due pare il buono e chi il cattivo?
Gruber di “Otto e mezzo”, la buona, ha invitato la sera di sabato, 23 novembre, una certa ragazzuola, presunta leaderina del movimento delle sardine: un’altra buona. Appariva civettuola e sapientina, di che cosa non era dato sapere, dato che non riusciva a fare nessun riferimento che fosse riconducibile ad un concetto politico. I tanti pearcing che portava alle orecchie erano surrogati del nulla. Gruber se la coccolava come preziosità assoluta e la difendeva dal giornalista Borgonovo de “La Verità”, il malvagio, il quale invece faceva ragionamenti concreti e chiedeva risposte manco se si fosse trovato di fronte ad una come la Thatcher.
Capisco la Gruber; e capisco anche Fabio Fazio, altro buono, che alla puntata di domenica, 24 novembre, di “Che tempo che fa”, ha invitato l’eroina tedesca Carola Rackete, altra buona, quella che violò il blocco navale italiano pur di far passare la nave dei migranti e farli sbarcare, in barba ai cattivi.
La Gruber, Fazio, le sardine, la Rackete: un trionfo di bontà! Sono i campioni dell’anti-odio. Ma nei confronti di chi legittimamente non la pensa come loro cosa esprimono? A ben considerare, odio doppio.
Su un qualsiasi dizionario della lingua italiana, alla voce “odioso”, si legge: “che suscita sentimenti di odio e di ostilità”. Dunque ci sono gesti che sono espressione di odio e producono essi stessi odio…di ritorno. Verrebbe di dire, evangelicamente, chi di odio ferisce di odio perisce.
Ci si mettono anche i preti. Il cardinale Zuppi di Bologna ha pubblicato un libro intitolato “Odierai il prossimo tuo”, ovvio non un suggerimento ma un allarme antifrastico, come a dire “non lo devi odiare”. Ma i preti, in fondo, fanno il loro mestiere; solo che farebbero bene, ogni tanto, a chiedersi: e se accogliessimo tutti quelli che vengono da noi, che accadrebbe? Forse se lo chiedono pure, ma confidano nei cattivi alla Salvini, i quali troverebbero sempre il modo di impedirlo. Perché c’è anche questo nell’eterna lotta tra chi predica il bene a prescindere, come i preti, e chi è costretto dalle necessità della vita a compiere azioni rubricabili come “cattiverie”: questi ultimi con le loro azioni consentono ai primi di farsi belli e continuare a predicare bene.
Qualche prete la fa perfino di fuori. Don Massimo Biancalani, parroco nella chiesa di Vicofaro a Pistoia, appena dopo messa ha invitato i fedeli a cantare Bella ciao, iniziando lui ad intonarla. Immagino che lo abbia fatto pure lui per combattere l’odio. Strano modo di predicare l’amore mentre di fatto si produce odio. Ci sarà pure una differenza tra Bella ciao e Tu scendi dalle stelle, o no? Ci sarà pure una qualche differenza tra la casa di tutti, quale la chiesa è, e una sezione di partito, cioè di una parte di gente, o no?
Ora, sembra che in pochi giorni il movimento cosiddetto delle sardine possa essere la soluzione, l’antidoto all’odio. Ne abbiamo viste tante, ma tante, da non venirci più neppure di scrollare le spalle. I girotondi di qualche anno fa dovevano far riaccendere la spenta sinistra e recuperare il primato perduto. Poi venne il Popolo viola con altrettante intenzioni rigeneratrici. Non successe niente, perché la politica non la fanno quattro istruiti brontoloni andando a passeggio e giocando ai girotondi. Dopo sono arrivati i grillini, che sembravano assai più determinati e consistenti, figli dei vaffanculo di un comico rancoroso per essere stato snobbato dal suo partito, quel Pd, col quale oggi vorrebbe fondersi. Già, proprio così. I grillini nati per annientare il sistema, di cui il Pd è perno, ora si stanno prodigando per salvare, proprio loro, quel sistema.
Queste sardine – ma non mancano neppure le scorfane, basta vedere chi vi partecipa – si sospetta vengano dalla pesca di qualcuno – di Prodi? – ma non riesco ad immaginarmi un Prodi pescatore di sardine. Sta di fatto che il proliferarsi delle manifestazioni sardinesche dall’un capo all’altro del Paese fa pensare che già qualcuno stia cercando di approfittarne e siccome il movimento è dichiaratamente anti Salvini, questo qualcuno è il Pd. Non sarà Prodi, non sarà Bersani, non sarà Cuperlo; ma qualcuno ci sarà dietro, davanti o a lato. Solo che, per quante giravolte facciano, difficilmente potranno far cambiare orientamento ad un Paese che ha grosse emergenze e grossi problemi da affrontare e risolvere.

 

domenica 24 novembre 2019

Dopo i grillini, le sardine; e poi?




Pur di fare un dispetto a Salvini i media italiani, democratici e antifascisti, fanno di tutto. La Gruber di “Otto e mezzo” ha invitato la sera di sabato, 23 novembre, una certa ragazzuola, il cui nome non ricordo più bene – Sparacino? – presunta leaderina del movimento delle sardine. Appariva civettuola e sapientina, di che cosa non si sa, dato che non riusciva a fare nessun riferimento che fosse riconducibile ad un concetto politico. I tanti pearcing che portava alle orecchie erano surrogati del nulla. La Gruber se la coccolava come preziosità assoluta e la difendeva dal giornalista Borgonovo de “La Verità”, il quale invece faceva ragionamenti concreti e chiedeva risposte manco se si fosse trovato di fronte ad una come la Thatcher.
Capisco la Gruber; e capisco anche Fabio Fazio che alla puntata di domenica, 24 novembre, a “Che tempo che fa”, ha invitato l’eroina tedesca Carola Rackete, quella che violò il blocco navale italiano pur di far passare la nave dei migranti e farli sbarcare.
C’è in corso in Italia una sorta di campagna anti-odio. Cosa buona è! Ma se vado sul dizionario della lingua italiana del De Mauro, alla voce “odioso” trovo scritto: “che suscita sentimenti di odio e di ostilità”. Dunque ci sono gesti che provocano odio. Come si può, allora, essere contrari all’odio quando lo si produce? Non si chiede Fazio se quell’invitare una persona come la Carola possa suscitare in una buona parte degli italiani sentimenti di odio e di ostilità? Non se lo chiede, anzi lo fa apposta, perché il suo obiettivo è di provocare a chi non la pensa come lui un colpo di sdegno, di ira e di…odio, per poi denunciarlo. Ah, dimenticavo, c’è l’audience, ma in casi simili la riterrei secondaria.
Esigenze giornalistiche a parte, che pure hanno la loro importanza, nei due casi, ma si può estendere ad altri, si coglie una deliberata volontà da parte dei conduttori impegnati e militanti di strumentalizzare propagandisticamente persone e fatti contro Salvini. Il mostro, che i più attenti e subdoli suggeriscono di non chiamare fascista ma pericoloso demagogo. Forse perché hanno capito che scomodare il fascismo potrebbe essere controproducente, dato l’immarcescibile fascino che il “male assoluto” esercita ancora sulle folle.
Ci si mettono anche i preti. Il cardinale Zuppi di Bologna ha pubblicato un libro intitolato “Odierai il prossimo tuo”, ovvio non un suggerimento ma un allarme antifrastico, come a dire “non lo devi odiare”. Ma i preti, in fondo, fanno il loro mestiere; solo che farebbero bene, ogni tanto, a chiedersi: e se accogliessimo tutti quelli che vengono da noi, che accadrebbe? Forse se lo chiedono pure, ma confidano nei cattivi alla Salvini, i quali troverebbero sempre il modo di impedirlo. Perché c’è anche questo nell’eterna lotta tra chi predica il bene a prescindere, come i preti, e chi è costretto dalle necessità della vita a compiere azioni rubricabili come “male”: questi ultimi con le loro azioni consentono ai primi di farsi belli e continuare a predicare bene.
Qualche prete, però, la fa di fuori. Don Massimo Biancalani, parroco nella chiesa di Vicofaro a Pistoia, appena dopo messa ha invitato i fedeli a cantare Bella ciao, iniziando lui ad intonarla. Immagino che lo abbia fatto pure lui per combattere l’odio. Strano modo di predicare l’amore mentre di fatto si produce odio. Ci sarà pure una differenza tra Bella ciao e Tu scendi dalle stelle, o no? Ci sarà pure una qualche differenza tra la casa di tutti, quale la chiesa è, è una sezione di partito, cioè di una parte di gente, o no?
Ora, sembra che in pochi giorni il movimento cosiddetto delle sardine, il sardinismo, possa essere la soluzione, l’antidoto al mostro. Ne abbiamo viste tante, ma tante, da non venirci più neppure di scrollare le spalle. I girotondi di qualche anno fa dovevano far riaccendere la spenta sinistra e recuperare il primato perduto. Poi venne il Popolo viola con altrettante intenzioni rigeneratrici. Non successe niente, perché la politica non la fanno quattro istruiti brontoloni andando a passeggio e giocando ai girotondi. Dopo sono arrivati i grillini, che sembravano assai più pericolosi, figli dei vaffanculo di un comico rancoroso per essere stato snobbato dal suo partito, quel Pd, col quale oggi vorrebbe fondersi. Già, proprio così. I grillini nati per annientare il sistema, di cui il Pd è perno, ora si stanno prodigando per salvare, proprio loro, quel sistema.
Queste sardine – ma non mancano neppure le scorfane – si sospetta vengano dalla pesca di qualcuno – di Prodi? – ma non riesco ad immaginarmi un Prodi pescatore di sardine. Sta di fatto che il proliferarsi delle manifestazioni sardinesche dall’un capo all’altro del Paese fa pensare che già qualcuno stia cercando di approfittarne e siccome il movimento è dichiaratamente anti Salvini, questo qualcuno è il Pd. Non sarà Prodi, non sarà Bersani, non sarà Cuperlo; ma qualcuno ci sarà dietro, davanti o a lato. Solo che, per quante giravolte facciano, difficilmente potranno far cambiare orientamento ad un Paese che ha grosse emergenze e grossi problemi da affrontare e risolvere. Lo vedono tutti che da una parte c’è il carnevalismo giocoso dei nullapensanti – di politico, s’intende! – e dall’altra la gente che lavora e produce e che su famiglia, nazione e società ha le idee molto chiare.

mercoledì 20 novembre 2019

Non c'è ragione di osteggiare gli ebrei




Davvero non riesco a capire perché ancora oggi ci siano tanti italiani di destra che si ostinano a discriminare e insultare gli ebrei, come se avessero un bisogno compulsivo di colpire un bersaglio, a prescindere da ogni motivazione. Eppure la storia del fascismo, a cui questi italiani guardano con simpatia, a proposito degli ebrei, parla chiaro. Escluso l’obbrobrio delle leggi razziali, tra fascismo ed ebrei ci sono interessanti connessioni empatiche.
“Il Popolo d’Italia”, il quotidiano fondato da Benito Mussolini il 15 novembre del 1914, aveva sotto la testata la scritta in un primo momento “quotidiano socialista”, successivamente “quotidiano dei combattenti e dei produttori”. Ora, lasciamo il primo periodo, quando Mussolini si sentiva ancora un socialista e pensava di rivolgersi ai suoi vecchi compagni. Il giornale, quando si riconobbe una più chiara coscienza di identità e di collocazione, sottotitolò la testata con la scritta che faceva riferimento a due categorie sociali ben precise: “combattenti” e “produttori”. Ad essi Mussolini si rivolgeva per dare inizio alla sua impresa politica. Non c’è fascista, che tale venga considerato o che tale si consideri, che ancora oggi non condivida la vicinanza a combattenti e produttori o che in essi non si riconosca.
Nel fascismo, fin dalla prima ora, come è noto, ci furono molti ebrei. Erano ebrei italiani, ma non per questo meno ebrei o meno italiani di altri. La stessa amante e ninfa egeria di Mussolini, Margherita Sarfatti, era ebrea. Averli perseguitati fu un tragico errore oltreché un’ingiustizia colossale, dato che essi avevano dato un contributo notevole sia al Risorgimento italiano, sia alla Grande Guerra e sia all’avvento del Fascismo. Lo stesso Giorgio Almirante, che era stato segretario di redazione del periodico razzista “Difesa della Razza” e poi capo di gabinetto del Ministero della Propaganda a Salò, riconobbe l’errore in più di un’occasione e lo argomentò nel suo libro “Autobiografia di un fucilatore”.  
La storia degli ebrei, dalle origini allo Stato d’Israele, è una storia di combattenti e di produttori. Ovunque si siano trovati a risiedere essi hanno fatto la ricchezza del paese ospite. E’ vero che nella storia sono stati sempre perseguitati, per via di certi loro comportamenti ritenuti odiosi, che sarebbe troppo lungo in questa sede elencare e spiegare, ma è altrettanto vero che persecuzioni ed espulsioni sono state sempre l’inizio di impoverimento di quei paesi che le hanno praticate nei loro confronti. Tanta borghesia della Mitteleuropa era ebrea. L’Europa stessa senza gli ebrei non è riconoscibile.
Ne consegue che per i fascisti italiani, che tali vengano considerati o che tali si considerino, gli ebrei, in quanto combattenti e produttori, non possono che essere ammirati. La loro democrazia è una sovrastruttura, per dirla con Carlo Marx, perché essi non possono prioritariamente che combattere e produrre. E’ il loro vivere, la democrazia è il loro filosofari.
Perché, allora, chi ama lo spirito del combattente e del produttore, come i fascisti dicono di amare,  tratta gli ebrei come dei nemici, come dei diversi, come dei pericolosi sovvertitori della propria civiltà da perseguitare? In che cosa gli ebrei si differiscono dagli altri europei? Non vivono essi nei paesi europei da bravi e laboriosi cittadini? Non hanno trasformato essi in pochi anni un pezzo di deserto in uno Stato democratico sul modello occidentale come lo sono in Europa l’Italia, la Francia, la Germania e tanti altri? Non costituiscono un unicum nella loro regione abitata da popoli islamici a regime dittatoriale?
Sugli ebrei gravano irrazionali sentimenti di invidia e di gelosia. Sono loro invidiati il successo e la ricchezza, l’intelligenza e la tenacia, la perseveranza nel perseguire un obiettivo che è di progresso e di miglioramento in ogni settore. Ebrei sono stati e sono tanti banchieri e imprenditori, scienziati e filosofi, scrittori e artisti, professori d’università e ricercatori; essi eccellono in virtù proprio di una volontà superiore, intellettuale e caratteriale, che li spinge all’impegno estremo.
Io non credo che per fermare l’odio antisemita occorrano leggi speciali e commissioni a presidio. Nei loro confronti c’è un odio di origine e alimentazione islamica, nei confronti del quale gli europei cristiani poco o nulla possono fare, oltre l’applicazione delle leggi vigenti in ciascun paese. Ma l’odio che proviene dall’estremismo di destra, o diversamente chiamato fascista, è del tutto ingiustificato, anzi assurdo. Non in ragione di considerazioni umanitarie – anche, evidentemente! – ma perché gli ebrei sono – starei per dire – dei buoni “fascisti”, sono dei buoni italiani, sono dei bravissimi professionisti, degli ottimi imprenditori e uomini di studio, di scienza e di affari. Gli italiani di destra non dovrebbero disprezzarli, ma ammirarli e considerarli della loro famiglia politica e sociale.

martedì 19 novembre 2019

Vittorio Feltri e l'Alto Adige: bastonato dalle donne




Chi ha assistito all’ennesima indecorosa performance di Vittorio Feltri domenica sera, 17 novembre, a “Non è l’Arena” di Massimo Giletti, ha provato non solo il consueto disgusto per il turpiloquio che questo signore usa impunemente a tutte le ore e a tutte le trasmissioni, ma anche alla sua impensabile sortita filoaustriacante sull’appartenenza dell’Alto Adige, altrimenti detto alla tedesca Südtirol, in polemica con due signore, le onorevoli Michela Biancofiore e Nunzia De Gerolamo, che ne difendevano l’italianità. Una cosa inimmaginabile.
Come può uno che ha diretto per anni “il Giornale” di Forza Italia, dando un contributo notevole al neonazionalismo, al successo di questo partito e dei suoi rappresentanti, contro ogni ragionevole posizione argomentativa, difendere l’assurda pretesa di dover cedere una parte del territorio italiano ad un paese straniero? All’Austria, poi!
Le due onorevoli signore, in un primo momento con molto garbo, poi con forza, cercavano di convincere Feltri di essere in errore nel difendere la consigliera regionale altoatesina Eva Klotz della Südtiroler Heimatbund, la quale insiste nel sostenere che l’Alto Adige è terra austriaca, che lei non si sente italiana ma austriaca e che pertanto l’Alto Adige va restituito all’Austria. Per Feltri la Klotz, figlia di un terrorista altoatesino, ha ragione quando mette in essere provocazioni contro persone, luoghi e oggetti italiani. Alle rimostranze della Biancofiore, che ricordava a Feltri che l’Italia aveva vinto una guerra, questi rispondeva che erano “cazzate”, che la successiva invasione degli italiani dell’Alto Adige era insopportabile e la mandava “regolarmente” affanculo.
Ora, va bene che in Italia, per il quieto vivere si fa tutto e all’occorrenza più di tutto. Lasciamo stare la Klotz, che sarà pure italiana per lo stato civile, ma è austriaca di sangue (si può dire?). Ma che per Vittorio Feltri la Grande Guerra sia stata una cazzata è davvero enorme. Che lo dica in una trasmissione assai seguita in tutta Italia in un orario di massimo ascolto è ancor più grave e dimostra la tracotanza di un soggetto impunito che a questo punto è indegno di essere considerato cittadino italiano. Come scusarlo, che era ubriaco o peggio?
Non si sono ancora spenti gli echi della celebrazione del Centenario della Grande Guerra che un italiano, non uno qualsiasi, appena uscito da un’osteria, ma un direttore di diversi quotidiani a tiratura nazionale, con notevole incidenza mediatica su una gran parte del pubblico italiano di destra, si permette di offendere il Paese nella sua globalità, nelle sue memorie e nei suoi sentimenti più sacri. Considera invasione il trasferimento legittimo di alcuni italiani che hanno liberamente deciso di andare a vivere e a lavorare in quella terra italianissima fino a prova contraria.
Non vogliamo fare retorica e, per comodità di ragionamento, consideriamo sobrio Feltri. E, allora, gli chiediamo: ci vuole tanto a capire che a torto o a ragione quando si conclude una guerra di tali dimensioni occorre per forza accettarne i deliberata? L’Italia, che la successiva guerra l’ha persa, ha dovuto cedere l’Istria e la Dalmazia in maniera anche drammatica e per certi aspetti criminale. Il popolo italiano se n’è fatto una ragione ed oggi in quei luoghi, che ancora “parlano” la nostra lingua e che esprimono la nostra civiltà, si vive bene, d’amore e d’accordo fra confinanti. Feltri non lo capisce questo? Deve avere grossi problemi allora questo signore, che è tenuto ancora a dirigere un quotidiano, che si propone ogni giorno ai lettori italiani “gratificandoli” il più delle volte del suo rosario di parolacce e di cafonate, di ostentato disprezzo per il restante mondo dei derelitti. Tali considera tutti quelli che non hanno come lui il suo status economico e sociale.
Invano ho cercato nei giornali del giorno dopo qualche presa di posizione, niente! E, invece, bisognerebbe incominciare a non far passare mai lisce offese simili. Quanto meno il Presidente della Repubblica dovrebbe trovare il modo di far giungere a questo signore e all’Ordine dei Giornalisti lo sdegno di tutto il popolo italiano. Dimostrare a lui e a quanti come lui dovessero abbandonarsi a simili stravaganti nefandezze che ci sono dei limiti oltre i quali non è più questione di libertà di pensiero ma di come si può pensare la propria libertà e quella degli altri, incominciando ad avere rispetto del proprio Paese e della sua Storia.   

lunedì 18 novembre 2019

L'Italia delle geremiadi infinite




La gente non capisce perché mai questo paese è così sgarrupato, sciatto, spensierato, strafottente, distratto, smemorato e giocondo. Passano eventi drammatici come niente, assorbiti come fatti normali. Si smette di parlare di migranti e di sbarchi più o meno clandestini – occhio non vede cuore non duole! – perché l’ex Ilva corre il rischio di chiudere, mandando a spasso migliaia di lavoratori, e l’acqua alta a Venezia ha invaso la città devastando beni culturali e attività economiche. Nella propaganda disastro scaccia disastro. Nella realtà disastro aggrava disastro.
Queste due emergenze hanno tenuto banco per gran parte dell’autunno, ma né per l’una né per l’altra si è trovata la quadra. Per l’ex Ilva è tragedia, perché le due parti che si fronteggiano – chi la vuole chiudere perché produttrice di inquinamento e di morte e chi la vuole in attività perché produttrice di lavoro e di vita – hanno entrambe ragione. Perciò è tragedia. L’Ilva avrebbe dovuto fin dall’inizio evitare l’inquinamento. Poteva farlo. Altre acciaierie in altre parti dell’Europa e del Mondo lo fanno regolarmente. Se l’avesse fatto oggi ci sarebbe solo una parte in campo: quella della produzione di lavoro e di vita. In Italia non è stato fatto. Chi doveva vigilare e controllare si è fottuto i soldi, se n’è stato zitto in cambio di danaro, all’insegna dell’umma-umma.
Anche a Venezia le due parti – pro e contro il Mose – hanno entrambe ragione; ed anche lì è tragedia. Il Mose è il sistema che dovrebbe chiudere la laguna e non permettere all’acqua alta di invadere la città; ma si dice che sia diventato già vecchio senza neppure essere entrato in funzione, che si prevede nel 2021. Hanno speso 5 miliardi e mezzo, hanno fatto invecchiare il sistema, senza neppure vedere se effettivamente funziona o meno. Mentre si constata amaramente come in una delle città più belle e importanti del mondo non si riesce a risolvere un problema che altrove hanno risolto. In Olanda, nei Paesi Bassi, la terra è difesa da un sistema di dighe che la preserva dalle inondazioni. Nell’Italia di Leonardo da Vinci e di Galileo Galilei ancora si teme l’acqua alta; e non solo a Venezia. A Matera, città che vantava un sistema naturale di smaltimento delle acque, è successo il finimondo con le alluvioni di metà novembre. Anche a Venezia si sono fottuti i soldi senza far procedere i lavori. Se il Mose fosse stato fatto, oggi in campo ci sarebbe una sola parte, quella dell’acqua alta trattenuta fuori laguna mentre la città sarebbe bella e asciutta per la gente che lavora e che viene da lontano per vederla.
Ma che cazzo di paese è questo? Nell’Alto Adige crescono le provocazioni contro l’Italia senza che nessuna autorità si levi per denunciare e avviare le opportune azioni penali. Ma non è obbligatoria l’azione penale in presenza acclarata di un reato? Dove sono, che fanno i magistrati italiani? E c’è addirittura chi, in Italia, come il direttore di “Libero” Vittorio Feltri è su posizioni filoaustriacanti! Ma non c’è un Ordine dei Giornalisti per richiamare all’…ordine un suo iscritto che si permette di schierarsi in favore di chi insulta l’Italia e i suoi simboli? O tutto è lecito in questo paese?
Dai fatti alle idee. C’è ancora democrazia in Italia? Abbiamo un governo fondato sulla coincidenza degli opposti, laddove la coincidenza sta nell’evitare di rinnovare il Parlamento per paura che vinca una delle parti che il paese nei sondaggi ha chiaramente detto di preferire. Ma la vogliamo guardare in faccia la realtà? Ancora oggi, in Italia, si fonda un potere politico sulla delegittimazione dell’avversario. Come dire: dobbiamo mangiarci una sbobba indigesta se non vogliamo buttarci dalla finestra. E non possiamo neppure dirci più contenti se il salto dalla finestra è vero o se è solo un bluff per spaventare gli italiani.
Già, la politica dello spavento! Oggi a spaventare gli italiani per gli onorevoli signori del potere, che non vincono le elezioni da più dieci anni e continuano a stare al potere, sarebbe Salvini. E non bisogna dire queste cose per non fare il gioco di Salvini! E non si deve votare fino al 2023 per poter eleggere un nuovo presidente della repubblica “nostro”, perché se lo elegge Salvini saranno guai! Salvini è il nuovo mostro della politica italiana. E’ il “vecchio” che spaventa i bambini, “barbablù” che scanna le ragazze, l’assassino seriale delle regole democratiche. Un paese in cui non c’è un’alternativa a chi detiene il potere, legittima quanto quella di chi detiene il potere, non è democratico, a prescindere dalle ragioni, vere o inventate che siano. Se sono vere è meno grave che se sono false, perché vorrebbe dire che si fanno governi fraudolenti e prevaricatori.

martedì 29 ottobre 2019

Dall'ipse dixit costituzionale all'ipse dixit elettorale




Gran brutto affare quando in politica si ricorre all’ipse dixit di un documento, si tratti pure della Carta costituzionale, per giustificare un’azione che si avverte in sé non convincente o addirittura fraudolenta. Dovrebbe essere il contrario: l’ipse dixit sì ma per andare in favore dell’elettorato, se non vogliamo dire del popolo. Il ricorso ai documenti servono sempre a garantire ordine, giustizia, rispetto delle maggiorenze vere. Quando si cercano maggioranze farlocche in Parlamento, pur di non passare la parola all’elettorato, prima o poi la reazione arriva. Ci sono paesi in cui si risponde subito con sollevazioni di massa favorite oggi dai social. Ne abbiamo viste e ne vediamo tante nel mondo. Buon per noi che in Italia si risponde con lo strumento della democrazia, ossia col voto. E questo è segno di crescita e di maturità democratica. All’ipse dixit costituzionale si risponde con l’ipse dixit elettorale. In Umbria è accaduto proprio questo.
Sotto sotto la coalizione di centrosinistra, fresca di improbabili intese parlamentari e condivisioni governative, sperava di farcela in Umbria; o forse si trovava in quella condizione psicologica nella quale si confonde il reale con l’immaginario desiderato e ci si convince che l’illusorio possa realizzarsi. I centrosinistri non si sono svegliati dopo la mazzata del 27 ottobre solo perché non chiudevano occhio da qualche tempo.
Continuava a fare sogni beati, invece, il “machiavellico” Renzi, il quale si è tenuto alla larga dall’Umbria per poter poi dire: io non c’ero e dunque non mi sento sconfitto. Si vanta Renzi, ma Machiavelli ammoniva che “i profeti disarmati conviene che ruinorno”. E lui si può considerare armato con una truppa di lanzichenecchi, trovati come Pietro l’Eremita trovò i crociati, strada facendo? Via, si rifaccia i conti. Non confonda la tattica con la strategia. In Umbria ha vinto il centrodestra, non chi del centrosinistra non si è fatto vedere per non condividere la sconfitta. Il suo comportamento non porta da nessuna parte e, diciamolo pure, è stato un po’ vigliacco. Comunque i “suoi” elettori hanno votato; e non certamente per i partiti del centrodestra.
A malincuore si era esposto Giuseppe Conte, ma mettendo le mani avanti: il risultato elettorale umbro – aveva detto alla vigilia – non determina niente in campo nazionale. In fondo vota una regione, l’Umbria, che ha un bacino elettorale quanto la provincia di Lecce, appena il 2 % dell’intero corpo elettorale. Ha confermato la stessa valutazione dopo. Gli umbri ringraziano, i leccesi per ora snobbano.
Invece il voto umbro un piccolo terremoto, sia pure a scoppio lento e ritardato, finirà per farlo. Non facciamoci prendere per un verso dall’ansia e per un altro da frettolose amnesie.
L’elettorato umbro “leccese” non ha detto niente di nuovo, ha confermato il voto europeo, ha ribocciato l’incredibile mala intesa Pd-5S, ha dato una scoppola alla leadership di Di Maio, potrebbe aver detto anche che quel Beppe Grillo elogiatore del caos, che vuole togliere il voto agli anziani, incomincia a stare sui coccodrilli anche a chi era abituato ad accettarlo come comico.
Tutto questo potrebbe portare a conseguenze serie per Conte. Il quale è sì un “trovatello”, come lo considera Sgarbi, ma la famiglia allargata che lo ha adottato, Grillo-Di Maio-Zingaretti-Renzi-Speranza, potrebbe disfarsene come un rasoio bic.
Tutto questo potrebbe accadere, solo i tempi e i modi sono incerti. Il governo Conte non può durare, perché dopo l’ipse dixit che lo ha partorito è arrivato l’ipse dixit che ne ha decretato la morte. Vada l’imbroglio una volta, ma non due. Il popolo di centrodestra che vota ambisce ad un cambiamento legittimo, non ha altri grilli per la testa, men che meno violare la Costituzione.
Dopo l’estate pazza di Salvini è cresciuta e si è rafforzata l’idea che a destra certi energumeni ignorano che ci sia una Carta costituzionale che regola la vita politica. Non è che siano mancati i motivi per crederci, a dire il vero, ma tanto non basta a far sì che la sinistra si senta l’esclusiva depositaria del verbo e del garbo costituzionale. E’ vero che l’uomo di destra di oggi in genere non ha l’urbanitas e la pietas indispensabili ad un uomo politico; spesso è rozzo e matamoro. Ma la destra in Italia ha anche una storia di rispetto dello Stato di diritto assai più e meglio della sinistra; anzi, per tradizione la destra per gran parte della storia unitaria nazionale si è identificata con esso, fascismo a parte. Quando le cose si sono messe male la destra ha sempre guardato alla mamma di tutte le leggi. Così Sidney Sonnino, che nella crisi di fine Ottocento suggerì di tornare allo Statuto quando le istituzioni, monarchia-governo-parlamento, avevano perso i limiti delle loro competenze e tendevano ad invadere l’una il campo dell’altra.
Certo, i politici di destra di oggi non vengono più dalla classe sociale di un tempo; non hanno più la stessa educazione. Ma oggi chi ce l’ha? E le buone maniere sono sufficienti per ben governare? Nessuno può pensare davvero di costruire una proposta politica senza avere un vero progetto. Non sono più i tempi del montanelliano “turiamoci il naso e votiamo Dc” e a Berlino si parla di monumenti alla riunificazione, non più di muri. Oggi il naso gli elettori se lo soffiano per tenerlo ben aperto e avvertire i malsani miasmi della politica. Forse i repentini cambiamenti d’umore dell’elettorato dipendono anche da questo.

venerdì 25 ottobre 2019

Grillo: voto agli anziani no, ai sedicenni sì




Rivoluzioni grilline. Il grillismo si sta rivelando sempre più un impasto di becerume popolare furbo e irresponsabile, accolto da una caterva di infingardi che ipocritamente si nascondono dietro virtù volterriane. C’è perfino gente che ritiene Grillo una risorsa della democrazia. Ci sono esperti, perfino accademici, che si sono autopromossi a suoi esegeti e spiegano puntualmente le sue stronzate come una volta i filosofi spiegavano il concetto di sostanza e i giuristi quello di sovranità.
Grillo è partito una ventina d’anni fa come comico con vocazione politica. E fin qui nihil novi. Da che mondo e mondo i comici battono sempre quella strada. Qui i fessi sono a piantagioni, ha pensato. Evviva, quando è tempo si miete! Infatti, puntualmente ripreso dai media e diffuso, è diventato propositivamente politico, in un crescendo di violenza e volgarità. Ne è nato un movimento, cosiddetto Cinque Stelle, che ha conquistato il consenso degli italiani ed è andato al potere. Le sue orde, che avrebbero dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno all’olio si sono fatte sardine pur di starci dentro. Luigi Di Maio, sedicente capo ma è solo in seconda e più tempo passa scala, dice: siamo postideologici, stiamo con chiunque pur di stare. Avesse avuto un po’ più di scuole avrebbe detto Hic sumus et hic manebinus optime, come era uso quando i politici di un certo livello occupavano il posto che ora occupa lui. Ma il senso lo ha reso benissimo anche con parole sue. Dice che sarà al governo per altri dieci anni, con chiunque, more meretricio, pur di stare. Lui dice: per fare. In realtà per gestire il potere, pur non avendo né arte né parte. I grillini stanno nei ministeri come in automobili che vanno da sé.
Se cinque stelle vuol dire cinque questioni o cinque temi, il numero è riduttivo. In Italia temi e questioni sono più numerosi delle stelle di Negroni. Un cielo di stelle! Ma a parte la dimensione vera dei mali che ci sono nel nostro paese, le stelle grilline dovrebbero essere almeno sei. La sesta sono loro, il loro capo, la loro incompetenza, la loro ottusa e inconsapevole prevaricazione.
Quel potere, così violentemente attaccato da Grillo, si sta rivelando lo stesso di sempre e chi prima lo attaccava, sia pure in maniera sconcertante, oggi non sa che fare. Non resta loro che dire apertamente: scusate, abbiamo sbagliato, siamo come tutti, coi vaffanculo rovesciati, o fingersi totalmente scemi. Grillo ha scelto una via di mezzo, offrendo di sé l’equivoca raffigurazione di un rimbambito ad angolo giro. Oggi si finge fesso. E che altro può fare, dopo i disastri che ha provocato?
Fra le ultime trovate del vecchio buffone, ormai agli sgoccioli del compos sui, due fanno davvero pensare quanto ingiusta fosse la società di un tempo che per molto meno internava in manicomio dei poveretti. Una, travestitosi da jocker ha fatto l’elogio del caos e poi quasi subito dopo ha lanciato la più stravagante delle stronzate. Due, ha detto che bisognerebbe togliere il voto agli anziani, dato che essi non sanno vedere oltre se stessi, dimenticandosi, fra l’altro, di controllare la sua carta d’identità. C’è un rapporto tra l’elogio del caos, il voto ai sedicenni e l’esclusione dal voto degli anziani? E’ innegabile.
Il caos è stata la solita provocazione di Grillo per introdurre la proposta. Ora se è il caso o meno di dare il voto ai sedicenni ci sta pure che se ne parli; proporre di toglierlo agli anziani è da codice penale e da pedate con scarpe chiodate in culo, come quelle con cui una volta Palmiro Togliatti voleva prendere Alcide De Gasperi.
Grillo in buona sostanza propone di abolire il suffragio universale, violando tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino di tutto il mondo, compresa la Costituzione italiana. Essa già agli artt. 2 e 3 riconosce “i diritti inviolabili dell’uomo”, tra questi il diritto di voto, che l’art. 48 così precisa: “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. […] Il diritto di voto non può essere limitato”. Quale democrazia può oggi negare il suffragio universale senza negare se stessa e far precipitare la società a tempi d’antico regime?
Ma c’è un altro aspetto dell’incredibile trovata grillina, quello del razzismo. Se è razzista il tifoso che allo stadio alza il braccio al saluto romano o fa buu al calciatore nero della squadra avversaria, se è razzismo offendere o burlarsi di un diverso, che cosa è la proposta di togliere il voto a milioni di cittadini solo perché essi hanno raggiunto una certa età? Ecco, Grillo vuole mettere un limite ad un diritto che la Costituzione impedisce espressamente (art. 48).
Eppure nessuno si allarma, nessuno chiede interventi dall’alto, dove risiede la vigile scolta della Costituzione. Sembra che valga il criterio di chi uccide: ucciderne uno è assassinio, ucciderne cento in guerra è un atto di eroismo, meritevole di medaglie. Così in politica: negare un diritto ad una persona è reato, negarlo a centinaia e a milioni è una proposta intelligente.
Si vuole passare dai Consigli degli Anziani di una volta ai Consigli dei Cachielli oggi. Un’involuzione che lasciata scorrere come processo normale, addirittuta progressivo verso un presunto miglioramento, finiremo per doverci affidare all’intelligenza artificiale dei robot. Una prospettiva sicuramente da preferire a quella di Beppe Grillo. 

domenica 13 ottobre 2019

Il governo del come fare i soldi



Tra le stravaganti ragioni che avrebbero indotto Matteo Salvini a farsi protagonista di una delle meno comprensibili crisi di governo che si siano mai verificate in Italia ce n’è una che lascia ancor più perplessi. Si è detto che Salvini ha avuto paura di affrontare la manovra economica di fine 2019, annunciata da tutti come il momento della verità di un governo, 5S-Lega, che aveva speso moltissimo per Quota 100 e Reddito di Cittadinanza ed ora non sapeva come trovare 23mld per evitare l’aumento dell’Iva. Salvini, insomma, se la sarebbe fatta sotto e avrebbe preferito filarsela per non affrontare una situazione che sembrava proibitiva.
Francamente è una spiegazione troppo infantile e spicciativa, benché tra i suoi sostenitori ci fosse uno come Massimo Cacciari, fine pensatore ed esperto amministratore, essendo stato sindaco di Venezia. Intanto il governo non era formato dal solo Salvini e del successo o dell’insuccesso della manovra ne avrebbero risposto collegialmente. E poi, davvero il governo Conte “uno” sarebbe stato meno abile del governo Conte “due”? Ne dubitiamo.
Giuseppe Conte, appena dopo il varo del suo nuovo governo, quando ancora aveva il vestito del precedente, è uscito in televisione e ha annunciato di aver trovato i 23mld di euro per scongiurare l’aumento dell’Iva. Era come uno che si era allontanato per cercare un oggetto smarrito e, avendolo ritrovato, lo annunciava trionfante e felice. Eureka!
E’ venuto spontaneo di pensare: ma dove cazzo li ha trovati 23mld, dove li aveva? In realtà i soldi ancora non esistevano, esistevano i rubinetti dai quali farli scorrere. Da che mondo è mondo, monarchie o repubbliche, dittatori o democraticissimi presidenti, quando lo Stato ha bisogno di soldi i suoi responsabili ricorrono alle tasse, aumentando le vecchie e inventandosene di nuove, fino alla patrimoniale, che di tutte è la più diretta e odiosa. Essa, infatti, colpisce il patrimonio immobiliare e finanziario dei cittadini, indipendentemente da quanto essi guadagnino col proprio lavoro. Lo fa in maniera brutale, semplicemente prendendosene una parte in percentuale, come fanno rapinatori e scippatori. I politici sanno che parlare di patrimoniale non conviene per non perdere il consenso dei ceti medi, quelli che nel bene e nel male in Italia sono elettoralmente decisivi. E quando non possono fare a meno dal ricorrerivi la chiamano diversamente. In Italia, per esempio, di patrimoniali ce ne sono già due, c’è l’Imu e c’è l’imposta di bollo.  
Dove Conte avrebbe dunque trovato i 23mld per scongiurare l’aumento dell’Iva? Probabilmente i suoi esperti ricercatori di soldi “nascosti” erano già a lavoro per mettere insieme se non proprio tutti i 23mld almeno la gran parte, in modo da potergli far dire vittorioso: ce l’abbiamo fatta. In realtà questi soldi non erano in nessun cassetto ma erano nei rubinetti dai quali farli scorrere, ovvero le tasche degli italiani. Ci sono imposte e imposte, ci sono tasse e tasse. Il non aver aumentato l’Irpef e alcune altre tasse più immediatamente percebili non significa aver rinunciato a tutta una serie di prelievi, che altro non sono che le inflazionatissime mani nelle tasche dei cittadini. Se ne sono sentite tante in proposito: tasse sulle merendine, tasse sui telefonini, tasse sui biglietti d’aereo, aumento del prelievo fiscale dalle vincite dei giochi di Stato e via cercando e ricercando. Alla fine i cittadini saranno tartassati; e quel che non pagano a olio pagano a grano, secondo un vecchio modo di dire popolare.
Si dirà: sempre meglio che l’aumento dell’Iva, che avrebbe provocato guasti più seri all’economia. Sì, ma non dite, signori politici, con insistenza psittacistica, “non abbiamo messo le mani nelle tasche degli italiani”, perché dirlo non è solo una bugia ma un’offesa all’intelligenza della gente. Il cittadino fa presto ad accorgersi che i conti alla fine non quadrano.
Il guaio è che queste tasse non saranno sufficienti a risolvere il problema, perché comunque sempre di danaro promesso si tratta. E’ come una volta facevano certi agricoltori che compravano e s’indebitavano promettendo ai creditori che avrebbero pagato alla raccolta. Lo Stato non ha i soldi, prevede che li possa raccogliere. Il governo, perciò, ha bisogno di avere credito in Europa; ha bisogno cioè di poter pagare non coi soldi ma con altre cambiali, probabilmente da rinnovare alla scadenza. Il vento europeo ora volge in suo favore, sono tutti di “famiglia” sinistrorsa. Ci si augura che quel vento possa volgere anche in favore dei cittadini, anche di quelli incazzatissimi con Salvini.

giovedì 19 settembre 2019

Di Battista: Robin Hood o don Chisciotte?




Alessandro Di Battista ha postato su fb una dura filippica contro il Pd, che, a prescindere dalla condivisione o meno, in tutto o in parte, riapre la questione del Movimento 5 Stelle, del governo Conte bis e dell’uscita di Renzi dal Pd, dove il furbastro ha lasciato diversi suoi “pali”. Renzi si è comportato alla grande: ha messo in sicurezza Parlamento e Governo e poi ha fatto le parti: questo a me e questo a te al povero Zingaretti, che continua a dire di non aver capito.
Di Battista, invece, ha capito perfettamente. Ha detto che il Pd è il partito più ipocrita d’Europa, con cui mai e poi mai i grillini avrebbero dovuto allearsi. E’ un soggetto politico del quale non fidarsi. Considera questo partito il vero responsabile del degrado della politica italiana. Ricorda che il M5S è nato con una funzione storica, quella di annientare il sistema di cui il Pd è centrale. Non vuole destabilizzare – dice Di Battista – ma intanto mena botte da orbi. Che in lui ci sia anche, consapevolmente o inconsapevolmente, la delusione per le mancate elezioni anticipate, che gli avrebbero permesso di rientrare in Parlamento, è comprensibile. Ciò non sminuisce il suo attacco.
Quali conseguenze potrà avere nel Movimento questa autentica spedizione punitiva in perfetto stile squadristico, ancorché Di Battista sia un solitario cavaliere senza macchia e senza paura?
Domani, 20 settembre, i grillini voteranno sulla piattaforma Rousseau se essere o meno d’accordo sulla proposta del loro capo politico, Luigi Di Maio, neo ministro degli Esteri, di candidare in Umbria per il Presidente della Regione uno o una della società civile in concorso con quanti vorranno unirsi alla sua elezione (patto civico). In parole povere, la proposta di Di Maio è la stessa lanciata giorni fa da Zingaretti e in un primo momento respinta da Di Maio. Ora l’ha fatta sua con qualche variante e chiama i suoi ad esprimersi. Sorvoliamo sull’appropriazione indebita della proposta. Di Maio può sempre dire che non è la stessa, che quella di Zingaretti era politica e che la sua è civica. La sostanza non cambia: si cerca la fusione degli elettorati. Addio diversità grillina!
Perché è importante quanto ha detto Di Battista sul Pd? Per la sua novità? Nient’affatto! Di Battista dice queste cose da sempre. A dire il vero, queste cose le hanno sempre dette i grillini, tutti i grillini Ma ora tutto è cambiato. Nicola Morra, il presidente della Commissione Antimafia, ha ribadito che effettivamente il Pd è il partito più ipocrita, ma l’alleanza con lui l’hanno voluta i grillini. Essi dicono di non essere né di destra né di sinistra e che perciò possono stare con chi è di destra e con chi è di sinistra, indifferentemente. Con gli ipocriti pure? Evidentemente sì, purché i grillini facciano le cose che da sempre intendono fare. Ma intanto ieri i loro destri-sinistri hanno negato l’arresto del deputato Sozzani di Fi. E, allora, come la mettiamo? Se continua così, e non c’è davvero di che convincersi del contrario, i grillini finiranno per essere testimoni volontari del perpetuarsi della solita politica democristiana e postdemocristiana, di cui il Pd è simbolo e sostanza.
Lo stesso Grillo dovrà prendere atto che il Movimento non è proprio tutto votato a contrastare Salvini, che a fronte dei veri nemici, quelli del Pd, è uno col quale si è anche governato per quasi un anno e mezzo e realizzato cose nient’affatto scontate.
Grillo sarà costretto a riconoscere che Di Battista ha ragione, salvo che non abbia lui stesso decretato la fine del Movimento. Cosa non del tutto peregrina, se si pensa che il Movimento è nato da una sua arrabbiatura quando gli fu impedito di partecipare alle primarie del Pd un po’ di anni fa. Una specie di odio-amore il suo: odio per un po’ di anni finché non si è preso la rivincita ed oggi amore ritrovato. Lo scopo di impedire a Salvini di “impadronirsi” dell’Italia con “pieni poteri” è in realtà una colossale bufala, che non regge ad un minimo di raziocinio. Non dimentichiamo che Grillo più volte si è espresso contro l’immigrazione in termini salviniani e peggio. Ora, improvvisamente, è diventato evangelico. Non sarà che stia facendo di tutto per salvare il figlio dall’accusa di stupro?
Ora, se la sortita di Di Battista non è una voce nel deserto, domani i grillini dovrebbero sotterrare la proposta di Di Maio sotto una valanga di NO. Se invece passerà anche questa, come probabilmente accadrà, vuol dire che il Movimento non c’è più come la pancia dopo una cura dimagrante e che Di Battista è un incastigato ex missino, per eredità paterna, ancora convinto che in Italia le cose possano veramente cambiare. L’eterno destino di chi si crede un Robin Hood e finisce per essere un don Chisciotte!

mercoledì 18 settembre 2019

Lo Stato del Grillo...il Marchese




I sostenitori della democrazia parlamentare, dal suo pontefice massimo ai sacerdoti ai diaconi ai sagrestani ai chierichetti alle perpetue, dovrebbero spiegare agli italiani com’è possibile che un partito, in questo caso il Pd, perda le elezioni e poi si ritrovi al governo nazionale; e perfino ai massimi livelli delle istituzioni europee: presidenza del parlamento (Sassoli) e commissario per l’economia (Gentiloni). Un trionfo assoluto, neppure se avesse stravinto le elezioni.
Non si suoni il disco graffiato che in una democrazia parlamentare le maggioranze si fanno in Parlamento e finché è possibile farne una non si va a nuove elezioni. Questo l’abbiamo capito tutti. Non è il meccanismo che non si capisce, del resto abbastanza chiaro; quel che non si capisce è come si continui a considerare democratico un processo che porta al rovesciamento della ratio stessa della democrazia, secondo la quale chi vince governa, chi perde sta all’opposizione. Qui siamo in presenza di una situazione rovesciata: chi ha vinto è all’opposizione, chi ha perso governa. Se tanto ci dà tanto si è autorizzati a pensare che forse qualcosa in questa democrazia o negli uomini che la rappresentano non va. E forse sarebbe il caso di rivedere alcune cose dell’una e degli altri. Partiamo prima di tutto dalla comprensione del fenomeno.
In buona sostanza non è un partito che oggi è al governo, nonostante abbia perso le elezioni, mi riferisco al Pd, ma il cosiddetto establishment, cioè quell’insieme di élite che dominano nei vari settori del Paese, che quel partito ha egemonizzato e inglobato. Parimenti ha fatto l’establishment nel momento in cui, accorgendosi che il Pd non è più sufficiente, ha egemonizzato e inglobato il M5S, che pure era nato espressamente contro di lui e che nel 2013 aveva resistito alle sue lusinghe. Il Moloch ha avuto ancora una volta ragione dei suoi apprendisti stregoni che volevano scalzarlo.
L’establishment è il vero “partito dello Stato”, una sorta di partito “unico”, che per fas et nefas si perpetua al potere. Così Ernesto Galli della Loggia ce lo spiega in un suo articolo sul “Corriere della Sera” del 12 settembre, Il Paese dei trasformismi: “Sotto l’etichetta della «difesa della Costituzione» i Democratici sono diventati … il vero partito delle élite  della penisola, quello che ne raccoglie in misura maggiore il consenso elettorale (basta vedere come votano i quartieri bene delle grandi città). I Dem sono il partito dell’europeismo ortodosso e dell’atlantismo ufficiale, di tutte le magistrature, dell’alta burocrazia, della «Civiltà cattolica» e delle altre gerarchie della Chiesa, dei «mercati», del vasto stuolo dei professionisti della consulenza e degli incarichi pubblici ad personam, dei vertici dei sindacati, delle forze armate e degli apparati di sicurezza, nonché  dell’assoluta maggioranza di coloro che operano nel settore dell’elaborazione delle idee e del consenso (letterati di successo,  accademici con ambizioni più ampie, giornalisti, pubblicitari, gente del cinema, addetti di rango alla comunicazione di ogni tipo). In senso proprio può dirsi che oggi il Pd è per antonomasia il «partito dello Stato»”.  E ancora: “Ovviamente il «partito dello Stato» e dell’establishment non può che avere un rapporto particolare con il capo dello stesso”, che è “da molti anni il vero dominus incontrastato (anche perché di fatto incontrastabile) di tutte le dinamiche politiche oltre che in vari modi dell’accesso alle maggiori cariche pubbliche”.
Basterebbe questo per rendere chiaro quanto è successo con la formazione del secondo governo Conte. Ma c’è un’obiezione importante da fare: questo partito non vince le elezioni, vince il dopoelezioni. E se le vince vuol dire che usa tutti i suoi potentissimi strumenti per vanificare la volontà del popolo. Un fatto grave, tanto più grave quanto più si rifletta sul fatto che il vecchio establishment, quello che s’incardinava nella Democrazia cristiana, le elezioni le vinceva regolarmente. Questo non riesce a vincerle in alcun modo, né regolarmente né irregolarmente. Questo le perde sistematicamente e non se ne preoccupa, tanto al potere va lo stesso, provvede Moloch a mangiarsi gli avversari, ancorché vincenti. Essi, infatti, vengono volta per volta delegittimati in nome dell’antifascismo e messi da parte. Quando nell’establishment parlano della destra, oggi leghista e salviniana, ieri forzista e berlusconiana, l’altro ieri missina e almirantiana e domani pincopalloniana, gli spaventatori di professione non parlano mai come di una normale forza politica che si avvicenda nella conduzione del Paese, ma come di Annibale alle porte di Roma, dei Turchi alla marina di Otranto, come di una catastrofe imminente. Questi signori non escludono concettualmente la destra, ma non sono mai della destra che c’è. Ricordate Montanelli? Diceva: io sono di destra, ma non di questa riferendosi a  quella reale.
Nelle due circostanze in cui la destra nonostante tutto ha raggiunto il potere, con Berlusconi prima e con Salvini dopo, in verità i suoi leader si sono prestati all’indignazione di un’ampia parte del Paese, che, pur riconoscendosi nella loro politica, non ne condivideva i comportamenti personali. Ma questo, lungi dal costituire la sostanza di una politica, riguarda la facciata; dietro ci sono i problemi del Paese, che una classe politica di sinistra cerca di risolvere in un modo e una classe politica di destra cerca di risolverli in un altro. Nessuno che abbia votato Salvini vota Zingaretti per le sconcezze del Papeete o per lo sbaciucchiamento della Madonna. Allo stesso modo non si può delegittimare una parte politica per i comportamenti del suo leader e surrettiziamente stravolgere la volontà del popolo che l’ha eletta, sostituendola con la parte minoritaria e sconfitta del Paese. Non si può applicare la regola dell’uno vale uno ad ogni maggioranza parlamentare. Ci sono maggioranze e maggioranze. Quella che tiene insieme Pd e M5S è una maggioranza numerica, un imbroglio parlamentare pur di non fare elezioni anticipate, che avrebbero aperto le porte ai barbari, come li ha chiamati Grillo il comico. La verità è che aveva ragione un altro Grillo, il Marchese, il quale, rivolgendosi ad alcuni del popolo che non si spiegavano il diverso trattamento della giustizia nei loro confronti, disse: “io so’ io e voi non siete un cazzo”. Lo stesso tra il partito dello Stato e quello del Popolo!

lunedì 9 settembre 2019

Quanto conta il popolo in una democrazia parlamentare




La crisi di governo conclusasi col ritorno al potere del Pd, ormai da anni partito cardine dell’establishment, ha dimostrato quanto conti il popolo in una democrazia parlamentare. Giova ricordare quanto la Costituzione della Repubblica gli riconosce. All’art. 1 si legge che “La sovranità appartiene al popolo”, che è chiamato a votare ogni cinque anni per il rinnovo delle Camere (art. 60) salvo che non accada prima per lo scioglimento anticipato delle stesse (art. 88).
Qui per popolo si vuole indicare più che l’insieme di individui cittadini di uno stato la sua componente di base, le cui aspirazioni attivistiche danno vita al populismo.
Il popolo, dunque, vota, E’ così che esercita la sua sovranità. Quella sua componente populistica può vincere le elezioni, ma non necessariamente va al potere e neppure riesce ad influenzarlo. A volte la sua volontà è prevaricata dalla componente che si riconosce nell’assetto politico-istituzionale, tendenzialmente conservativa. Può accadere che l’establishment, temendo il voto anticipato del popolo, ne impedisce l’esercizio, risolvendo la crisi con una raccogliticcia maggioranza parlamentare. Che – sia detto per inciso – è formalmente corretta, ma quando non lo è altrettanto politicamente si risolve per un fraudolento escamotage antipopulistico.  
Come può accadere? In un sistema elettorale proporzionale o misto, come è oggi il nostro, è possibile che in Parlamento si formi un’alleanza di sconfitti che mette all’angolo chi, pur avendo vinto le elezioni, non è in grado di governare da solo.
La situazione politica italiana, nella circostanza del secondo governo Conte, è arrivata ad un punto limite: la legittimazione di ogni capriola politica pur di trovare i numeri in Parlamento e impedire di votare. Con l’aggravante che a questo si accompagni una politica in controtendenza con quanto indica e chiede il popolo. Oggi, attraverso i sondaggi, si può seguire l’elettorato nei suoi umori e nelle sue tendenze con attendibile riscontro.
Facciamo un esempio per capire. Una delle criticità più forti e insistenti, da qualche anno in qua, è la sicurezza, messa in discussione dall’immigrazione, ossia da quell’invasione lenta e costante che di qui ad una decina di anni potrebbe modificare in maniera decisiva l’Europa e i suoi singoli paesi.
L’establishment cerca di tener calmo il popolo con pietismi e bugie. Che volete che siano poche migliaia di poveri disgraziati a fronte di un paese di sessanta milioni di abitanti? Oppure con scene di toccante umanità, a volte confezionate ad arte: come si può rimanere insensibili di fronte a tanta sofferenza? Un problema biblico, epocale, viene così stemperato in figurine deamicisiane.
E’ chiaro a tutti che alla maggioranza del popolo italiano l’immigrazione non piace. Ha torto? Ha ragione? Non conta: è il popolo!
Populismo e antipopulismo, come si può arguire, non sono affatto ideologie, sono modi di essere e di sentire. Ed è sbagliato associarli sic et simpliciter alla destra o alla sinistra. Tant’è che il popolo si riconosce, a seconda dei tempi e delle problematiche in atto, ora nella destra, ora nella sinistra, ora nel qualunquismo. Nell’immediato dopoguerra il populismo, specialmente quello socialcomunista, era di sinistra; oggi in gran parte è di destra, mentre il M5s ha comportamenti qualunquistici.
I populisti ragionano così: c’è un problema, noi, popolo, indichiamo le nostre istanze dando il nostro voto ad una classe politica di cui ci fidiamo. Quando questa volontà viene disattesa, sia pure con pezze costituzionali e all’insegna di un presunto superiore fine, come può essere l’antifascismo, semplicemente si impedisce al popolo di esercitare il suo potere o la sua influenza.
Ora, è vero che la Costituzione dice al suo art. 1 che la sovranità del popolo va esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ma questo non può giungere mai fino al paradosso di mistificarne l’assunto e di negarne la titolarità, trasferendola dal popolo ad una rappresentanza che del popolo non ha nessuna considerazione. La forma non può mai prevaricare la sostanza; se accade si pone un grave fatto politico. Quando Romano Prodi, campione dell’establishment e principe dell’antipopulismo, dice “una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile” (Corsera del 4 settembre 2019), esprime un pensiero anche condivisibile ma nello stesso tempo tradisce tutta la sua lontananza dal popolo reale: a me non interessa come è fatto il popolo o che vuole, a me interessa il potere “possibilmente stabile”.
Dopo la caduta del primo governo Conte, c’erano due vie: una, prioritaria, cercare una maggioranza politica in Parlamento; l’altra, conseguente, fare elezioni anticipate. L’una e l’altra erano formalmente ineccepibili, ma, mentre la prima era del tutto incentrata sull’establishment, la seconda si ancorava al popolo ed era quella che nella sostanza rispondeva alle istanze del paese. Averla impedita non è stato un colpo di stato, ma un colpo politico, del tutto legittimo dal punto di vista formale, che, però, in sostanza ha impedito ad una parte politica, la populistica, di esercitare un suo diritto, di cogliere un successo nel momento in cui poteva riuscirci. La maggioranza che si è formata in Parlamento non era una maggioranza politica, ma numerica, composta al solo scopo di impedire le elezioni, riconoscentesi unicamente nel comune intento di danneggiare l’avversario.Lo hanno detto loro stessi. Una bravata politica!  Che rischia di produrre non pochi guasti nel sentire democratico della gente, che nelle istituzioni non vede trasparenza e rispetto ma trame e imbrogli.

mercoledì 28 agosto 2019

Un governo di perdenti e di nemici




Il governo Pd-5Stelle, che si è voluto frettolosamente mettere in piedi pur di evitare lo scioglimento delle Camere, è composto da due partiti perdenti e tra di loro acerrimi nemici, che ha l’atto di concepimento da un’accoppiata formidabile di circostanze assolutamente imprevedibili: la minchiata di Salvini di staccare la spina al governo Conte e la furbata di Matteo Renzi di cambiare parere sull’accordo del Pd coi Cinquestelle. Salvini è rimasto intronato dagli effetti dell’improvvida sua stessa sortita, non sa più quello che dice e farfuglia. Renzi invece sa: ho cambiato parere sull’accordo coi Cinquestelle per il bene del Paese impedendo la deriva Salvini nel caso di elezioni anticipate. Legittima motivazione che non esclude, però, l’altra, assai più vera e personale; ha cambiato parere perché le elezioni gli avrebbero fatto perdere il controllo dei gruppi parlamentari del Pd, ora a lui per la gran parte riconoscenti e devoti. Se ci fossero state le elezioni anticipate, questa volta le liste le avrebbe fatte Zingaretti, magari con lo stesso criterio di Renzi; e Renzi sarebbe rimasto fottuto.
Se questo era il governo stabile e di prospettiva, chiesto dal Presidente Mattarella, allora è possibile pure vedere il sole a mezzanotte. Mai in Italia si è visto un accordo così “innaturale”, ma è pur vero che in Italia quando si grida al lupo fascista “si scopron le tombe e si levano i morti”. Onestamente il lupo fascista, inventato dai Dem, ha trovato proprio in Salvini il suo più forte accreditore. Ubriacato da risultati elettorali esaltanti (Europee) e da sondaggi più che promettenti (37%), Salvini è giunto a dire, come un fesso, “voglio i pieni poteri” e si è comportato come quei monarchi orientali di una volta, i quali si concedevano tutto fra bagordi e stordimenti vari. Magari voleva dire una cosa assai più limitata, circoscritta alla sicurezza, dato che spesso per fermare le navi piene di emigranti, entrava in conflitto col ministro dei trasporti Toninelli e con la ministra della difesa Trenta; ma, qualunque cosa avesse voluto dire, l’espressione, oltre che di per sé infelice, si è prestata all’insurrezione generale contro il pericolo fascista, vero o falso che fosse. Lo sdegno nei suoi confronti è aumentato in Italia e in Europa.
Probabile che l’insofferenza contro Salvini e la decisione di mettere in moto qualcosa che lo ridimensionasse o lo mettesse fuori causa abbia avuto inizio proprio di lì, dalla sua incontinenza, di parole e di comportamenti. E’ stato un errore di valutazione il suo pensare che le istituzioni e chi le rappresenta ad ogni livello siano degli appendirobe. Invece hanno un cervello e un cuore e il dovere di intervenire. E’ legittimo perciò pensare che la decisione di buttare giù il governo Conte sia stata in qualche modo indotta.
Negli ultimi mesi Conte era in stretto rapporto col Quirinale, spesso andava a riferire e ovviamente a sentire. Il suo appoggio a Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, fuori dallo spirito del governo gialloverde, molto probabilmente gli è stato suggerito. Si consideri che l’unico punto di contatto fra i due partiti del governo era il comune sentire antieuropeistico. Eluderlo non poteva essere che una provocazione. Lo stesso Salvini, resosi conto di aver agito precipitosamente, non valutando le insidie che potevano esserci, dopo aver tentato ripetutamente di riallacciare i rapporti coi Cinquestelle, ha sempre più insistito sul ribaltone, che a suo dire era preparato da tempo. E se era preparato da tempo, perché lui non se n’è accorto e non si è preoccupato di vedere da dove e da chi partiva? La verità è che in situazioni del genere si ragiona inevitabilmente su sospetti e supposizioni, cercando tuttavia di ancorarli ad una logica. Salvini non poteva sapere dell’agguato che lui stesso si stava tendendo con le sue mani; ma è pur vero che questo agguato c’era.
Il paese ha dimostrato sempre più insofferenza per il leader della Lega. Lo hanno aspettato dovunque per contestarlo in maniera sempre crescente e pericolosa. Le sue visite alle spiagge del sud, in Campania, in Calabria, in Puglia e in Sicilia si sono trasformate in sollevazioni popolari, con striscioni ai balconi e contestazioni anche violente in piazza.
Se perciò c’è stata una presa di coscienza seguita da alcune iniziative per dire basta a Salvini è del tutto legittima, direi obbligata. Che poi le iniziative per bloccarlo siano passate da comportamenti discutibili dimostra solo che la politica non è tutta quella che si vede e che si sente. C’è un’altra politica, altrettanto forte ed efficace che non si vede e non si sente, ma agisce come quei corsi d’acqua sotterranei che erodono fino ad erompere.
Questo governo, che vede il ritorno del centrosinistra, mentre il Paese si è espresso nelle ultime consultazioni europee e amministrative sempre più decisamente a destra, non ha radici nel Paese; è un governo che non risponde alle aspettative dell’Italia che lavora e che produce. Poi, evidentemente, c’è il popolo, che avrebbe diritto di dire la sua in condizioni di tranquillità e di fiducia nelle istituzioni. Impedirglielo con ragioni o sotterfugi non è un bel fare per la democrazia. Dopo la caduta del governo, sia pure per ciò che è sembrato un capriccio di Salvini, era del tutto scontato che si dovesse andare ad elezioni anticipate. Il rispetto della Costituzione doveva essere solo una presa d’atto formale, essendo evidente che in Parlamento non c’erano le condizioni per trovare una nuova maggioranza politica. E se tanto lo possono smentire i numeri di una maggioranza parlamentare che poi si è trovata, di certo non lo può smentire l’imbroglio di un governicchio solo per impedire che il popolo votasse.