domenica 27 luglio 2014

Il disastro israelo-palestinese, Papa Francesco e l'Europa


Sì, bisogna spararle grosse a volte per far passare un minimo di verità, come si fa al mercato: chiedi dieci per avere uno. Così faccio, ma aggiungo che l’informazione italiana è una poltiglia di luoghi comuni, di obbedienze, di conformismi, di un politicamente corretto da vanificare qualsiasi attendibilità: è la tribù dei pesci nell’acquario. Non lo dico per giustificarmi, ma per completezza d’informazione: in un simile mercato mediale, se si vuole veramente dire qualcosa di serio, di diverso, per informare e provocare dibattito, occorre essere politicamente scorretti, scandalizzare. 
Dove voglio andare a parare? Elemento catalizzatore del riaccendersi del conflitto israelo-palestinese è stato Papa Francesco. Papa Francesco? Sì, sì, proprio lui. Per soddisfare la sua mania di protagonismo politico qualche tempo fa, in visita in Medio Oriente, invitò i presidenti di Israele e della Palestina, Peres e Abu Mazen, a pregare insieme con lui per la pace a Roma. Nella “mia casa”, disse. E quelli, fessi-fessi [locuzione avverbiale], l’8 giugno scorso andarono davvero. Il quadretto dei tre, mostrato urbi et orbi dai massmedia di tutto il mondo, commovente al massimo grado della resistenza emotiva, ce lo ricordiamo ancora. Una cartolina illustrata!
Non c’è dubbio che si trattò di una iniziativa motivata da buone intenzioni, anzi da ottime; ma, come accade spesso, con le buone intenzioni si arriva diritti-diritti all’inferno. E difatti, di lì a pochi giorni, fu effettuato il rapimento da parte di Hamas, il braccio armato dei palestinesi, di tre ragazzi israeliani, poi trovati uccisi, e qualche giorno dopo il rapimento di un ragazzo palestinese da parte di israeliani poi trovato, anche questo, regolarmente ucciso. Tanto è bastato per riaprire il conflitto, che senza preghiere e pie intenzioni sopiva da tempo, dalla tregua firmata nel novembre 2012.  Un’improvvida iniziativa mirata alla pace ha  così scatenato puntualmente la guerra.
E’ di tutta evidenza che l’idillio del Vaticano non è piaciuto ad Hamas, non solo perché avvenuto sotto l’egida della croce e non della mezza luna, ma perché si trattava di una pace fondata sulla sottomissione della Palestina ad Israele, come da anni avviene. Era necessario perciò vanificare il gesto, in sé e per sé buono, per ricordare che la Palestina non si piegherà mai alla situazione quale quella preghiera di pace voleva consacrare.
Papa Francesco ha dimostrato ancora una volta una sprovvedutezza politica da apprendista stregone. E’ necessario che d’ora in poi venga fermato prima che combini altri guai.  Non basta, infatti, essere animati da buone intenzioni, peraltro mai messe in discussione. Figurarsi, ormai è da quasi due secoli che i papi predicano la pace tra i popoli e prendono le distanze dai paesi belligeranti. Occorre anche sapersi muovere con accortezza politica, prevedendo ogni possibile conseguenza, con realismo. Che non è peccato mortale, anzi! Un gesto, una volta compiuto, non è più tuo. Tu l’hai fatto per il bene, ma la realtà degli altri e delle cose lo trasforma in male.
Ma è di ancor più accecante evidenza che i due leader, Peres e Abu Mazen, soprattutto quest’ultimo, non dovevano accettare l’invito del Papa. Sapevano benissimo che l’incontro e la preghiera non erano graditi ad Hamas, che altro non aspettava per riprendere le cieche ostilità contro Israele. Cieche perché Hamas non può illudersi di vincere contro Israele, il suo vero obiettivo è di far deflagrare l’intera area mediorientale. 
Ancora più grave in questo nuovo pericolo dagli sviluppi imprevedibili è la latitanza dell’Europa. Qui assistiamo ad una situazione paradossale. S’avvera il proverbio che quanti più sagrestani ci sono più la chiesa rimane incustodita. I singoli stati europei tacciono o quasi perché ormai hanno perso parte di sovranità e soprattutto di credibilità in favore di un’Europa, che però non ha una politica estera comune. Il solo – per quello che vale – a pronunciare qualche parola di allarme per le conseguenze del conflitto in Terrasanta è stato il Presidente Napolitano, qualche ora dopo il riaccendersi della miccia. Nessuno si meraviglia che sia stato proprio lui, l’unico ormai in Europa che dall’alto dei suoi quasi novant’anni gode di un’altezza politica tale che gli consente di vedere quello che gli altri non vedono, non possono o non sanno vedere.
Quanto al governo italiano, è silente. Come possa aspirare ad occupare il cosiddetto Pesc (Ministero degli Esteri Europeo) la nostra Mogherini non si capisce. Tace di fronte ai fatti dell’Ucraina, tace di fronte ai fatti di Terrasanta. Tace! Eppure, come accade per tutti i ministri femmine di questo governo di “mirabilia”, sembra essere un portento, a detta dei basso-medio-altoparlanti di Renzi.
Di fronte al rischio che l’ennesimo conflitto arabo-israeliano possa incendiare il Mediterraneo non si può non essere preoccupati e partecipi. Diciamo cose ovvie, ma vanno ripetute. Non c’è chi in Italia non abbia in simpatia la causa palestinese, memore del nostro Risorgimento; ma occorre anche essere concreti e se occorre anche cinici: Israele è un Paese che appartiene alla cultura occidentale, è un baluardo di democrazia in un’area in cui regna sovrana una cultura di inquieti fanatici che mettono a repentaglio continuamente la pace mondiale, non per bisogni concreti ma per fisime ideologiche.

Ecco perché la prospettiva più attendibile resta la nascita di uno Stato palestinese del tutto sovrano, come tanti altri ne esistono nella zona; uno Stato che riconosca gli altri senza coltivare mire antisemite. E’ necessario che la striscia di Gaza diventi lo Stato di Gaza. L’Europa in questa prospettiva potrebbe finalmente impegnarsi a fondo, senza doppi giochi e calcoli, che finora hanno solo dimostrato di essere dei palliativi di breve durata.

domenica 20 luglio 2014

Tedeschi campioni del mondo? Hanno solo eseguito degli ordini


Si saranno accorti tutti i milioni e milioni di spettatori del campionato mondiale di calcio, conclusosi domenica 13 luglio in Brasile, che i calciatori tedeschi, campioni del mondo, avevano indosso due divise, una banale: maglietta, pantaloncini e calzettoni coi colori e i fregi della Germania; l’altra più importante: capelli e barbe rasati, nessun tatuaggio sul corpo, nessuna cresta in testa o altre stravaganze cromatiche e folkloriche; nessuna lacrima o conato di vomito; nessuna sceneggiata per falli veri o presunti subiti; nessuna protesta per decisioni arbitrali discutibili. Questa seconda divisa, che in realtà è la prima, i tedeschi la fanno indossare perfino a quegli stranieri che finiscono per essere naturalizzati tedeschi e conseguentemente utilizzati nella nazionale di calcio. Se non fosse perché i tratti del viso e il colore della pelle erano diversi i Khedira, gli Ozil, i Boateng, nonostante qualche piccolo irrinunciabile vezzo etnico, sembravano autentici tedeschi. Tutti decisivi nel costruire il successo: tutti protagonisti, nessun personaggio.
Nulla di strano. Anche noi italiani facciamo indossare agli stranieri che giocano nella nostra nazionale la divisa comportamentale italiana; così abbiamo fatto di Balotelli un italiano doc. Chi saprebbe distinguerlo da un Cassano, colore della pelle a parte?
Lungi dall’ancorare la vittoria del mondiale alla sola divisa comportamentale, non si può tuttavia non fare qualche considerazione. Né si può scemare il valore critico di quanto sopra con le solite obiezioni che furoreggiano nel calcio: se quel tiro invece di andare di poco fuori fosse andato dentro, non staremmo qui a celebrare le teutoniche divise. Da che mondo è mondo si valutano i fatti, quelli che sono accaduti e non quelli che sarebbero potuti accadere. Dunque tedeschi campioni del mondo in duplice divisa.
Il mio professore di lingua e letteratura tedesca e germanistica all’Università, Francesco Politi, che i tedeschi li conosceva bene essendo stato per anni in Austria e in Germania come direttore di istituti italiani di cultura prima dell’insegnamento universitario, diceva che i tedeschi fanno le cose di pace con la stessa serietà e con lo stesso impegno con cui fanno le cose di guerra. “In pace decus, in bello praesidium” diceva di loro Tacito circa duemila anni fa nella sua “Germania” (in pace splendore, in guerra difesa).
Aveva perfettamente ragione. Nell’immediato dopoguerra lo scrittore Carlo Levi, ben noto per il suo libro “Cristo si è fermato a Eboli”, si fece un giro in Germania e trasse un reportage che pubblicò col titolo “La notte dei tigli”. Pensava Levi di trovare una Germania devastata dalla guerra, un fumar di rovine e i tedeschi avviliti, pentiti, imploranti perdono mondiale e aiuti stranieri per riprendersi dall’immane catastrofe. Pensava, lui ebreo, di godersi la rivincita per quanto la sua gente aveva patito per colpa del nazismo. Invece lo scrittore rimase stupefatto: tutto ricostruito, tutto in ordine, le vie e le piazze ben pulite, non si vedeva un muro sbrecciato, i servizi funzionanti, la gente come se non ci fossero mai stati in Germania né nazismo né guerra. Una cosa che non sembrava neppure vera al reduce di Eboli. Sorpreso e spiazzato, scambiò il ben di Dio trovato con l’indifferenza di un popolo che aveva rimosso completamente con le rovine anche le colpe.
Ecco, i tedeschi giocano al calcio, che è cosa di pace, come sterminavano interi quartieri nelle città occupate in tempo di guerra, con la stessa divisa comportamentale. Nel distruggere le cose degli altri in guerra e ricostruire le proprie cose a guerra finita esprimono la stessa serietà, ligi ad uno stesso dovere, obbediscono a degli ordini.
Li abbiamo sentiti dire più volte i criminali di guerra nazisti, a partire dal processo di Norimberga ai nostri giorni, di non negare nulla di ciò di cui venivano accusati ma di non sentirsi responsabili di nulla; ognuno ha ripetuto: ho solo obbedito a degli ordini. Chi li ha condannati a morte probabilmente non ha creduto al mantra “ho obbedito a degli ordini” o forse sì, ha creduto, ma doveva pur dare al mondo un messaggio che scongiurasse il ripetersi di simili tragedie.
Oggi la Germania è la potenza politica ed economica più importante dell’Europa. Se a tanto è giunta, dopo l’annientamento subito con la seconda guerra mondiale, significa che il suo popolo ha delle doti eccezionali, tra queste il senso della disciplina, del decoro, della serietà, dell’impegno, dell’obbedienza.
“Obbedire agli ordini” non è un fatto in sé negativo; anzi, in tempo di pace significa progresso, efficienza, successo in tutti i campi. I successi, infatti, giungono grazie a queste doti; non sono regali piovuti dall’alto di un Signore universalmente misericordioso, che distribuisce beni a pioggia; ma da un Signore selettivo, che premia chi merita. Dobbiamo convincerci che la mamma non ce la scegliamo, ma Dio sì: a ciascuno il suo.
Ma il vero ordine a cui i tedeschi obbediscono non è affatto esterno, come sosteneva Curzio Malaparte, che pure tedesco era per parte di padre, narrando un episodio sicuramente inventato in una delle sue più celebri opere, “Kaputt”, in cui i soldati tedeschi non obbedivano all’ordine del comandante solo perché non era in divisa; il vero ordine sentito dai tedeschi – dicevo – è tutto interiore, è un obbedire a se stessi, a quel loro essere insieme individui e popolo, singoli e insieme. E’ quell’imperativo categorico, teorizzato da Kant, uno dei più rappresentativi filosofi tedeschi, a cui il tedesco tipo non sa sottrarsi.

Dei calciatori della Mannschaft campioni del mondo, ci sarebbe solo da sorprendersi che alla fine hanno perfino gioito!

Berlusconi: assoluzione piena e giustizia ubriaca


I giudici della Corte d’Appello di Milano hanno assolto Silvio Berlusconi dalle accuse di concussione e di prostituzione minorile, nel cosiddetto processo Ruby, per le quali era stato condannato in primo grado a sette anni. Il fatto non sussiste per la concussione, il fatto non costituisce reato per la prostituzione minorile, peraltro non provata. Questo il succo della questione.
Mo’ – dico io – si può vivere in un paese dove la giustizia si propone con simili aberranti sentenze? Qui non siamo in presenza di un processo che nel secondo grado di giudizio ha avuto a disposizione elementi di giudizio che non aveva avuto nel primo grado; qui siamo con gli stessi elementi, né di più né di meno. Ne sapremo di più quando saranno pubblicate le motivazioni della sentenza.
Allora, che cosa è cambiato? Nel merito, niente. Lo stesso bicchiere, una volta è stato visto mezzo pieno; un’altra volta, mezzo vuoto, anzi vuoto del tutto.
Sono cambiate, però le circostanze, almeno tre: la situazione politica generale ormai avviata a destinazioni diverse da quella di un anno fa; l’accusato ormai politicamente fottuto; la corte composta non più da donne ma mista a prevalenza maschile. Se a tutto questo aggiungiamo che la Procura di Milano è in preda ad una guerra di tutti contro tutti, con accuse reciproche incredibili e inconcepibili in un paese civile, il quadro è completo.
Dice: e questo, che c’entra? C’entra. Nello spirito di Papa Francesco, anche i giudici devono osservare il Vangelo: non vedere perciò la pagliuzza nell’occhio dell’altro, quando nel proprio si ha una trave.
Chi ancora non aveva capito – la mamma dei ritardati mentali ormai è l’unica in Italia ad essere sempre incinta – beh, ormai ha capito che la giustizia nel nostro paese è un’arma politica, come neppure negli stati totalitari accade.
Ma una simile giustizia è veramente un’arma politica? Se lo è, qualcuno la deve impugnare. Oppure è semplicemente malata? Probabile che siano vere tutte le ipotesi, perché è difficile che un’ipotesi possa essere così prevalente sulle altre, c’è sempre in casi simili un concorso di cause.
Non è difficile, oggi come oggi, giungere a identificare chi brandisce la giustizia come un’arma. Ne sono pieni i giornali, specialmente i non allineati, come “Il fatto quotidiano”, “Libero” e “il Giornale”. E’ pure vero, però, che questa giustizia è affetta da tutte le manie tipiche di cui soffrono i soggetti megalomani, con sindromi di onnipotenza, compiacenti e compiaciuti di fare tutto e il suo contrario pur di dimostrare che al di sopra di sé non c’è nessuno. Si pensi ai Tar, che annullano interi esami di stato, mettendo in discussione il lavoro di professionisti, qualche volta anche seri e certamente non inferiori professionalmente ai magistrati, solo perché in un verbale manca una parola o una virgola. E’ appena il caso di ricordare che ormai in Italia i concorsi in magistratura spesso vengono annullati per una serie di vergognose irregolarità, fra cui la conoscenza delle tracce prima della stessa prova e l’evidente reato di plagio dei candidati “futuri padreterni” in quanto giudici.
Ora, questa giustizia non ha accertato, a proposito del processo Ruby, l’inesistenza dei fatti in rubrica, anzi li ha ribaditi; ha detto però che le sporcaccionate di Berlusconi non hanno avuto niente a che fare coi reati di concussione e di prostituzione.
Va da sé che i cittadini italiani sono sconcertati sia per la prima sentenza, sia per la seconda. Se valesse anche oggi la ragion politica – quella seria e coerente – Berlusconi dovrebbe essere sacrificato sull’altare della credibilità di uno Stato, che forse, a questo punto, ha più bisogno di credibilità che di Pil.
Cosa potrebbe accadere dopo questa sentenza après-saison? Berlusconi esce rafforzato. Potrebbe essere tentato di rialzare la testa, di ribadire la sua insostituibilità al vertice di uno schieramento politico che ormai si avviava ed è avviato al raggiungimento di una nuova dimensione politica, di recuperare addirittura sogni quirinalizi. La prima cosa che è stata sparsa ai quattro venti è che si va avanti con le riforme nello spirito del Nazareno, inteso come patto tra Renzi e Berlusconi.
Appare allora chiaro che la prima sentenza, di condanna, serviva a rottamare un politico ancora forte, mentre la seconda, di assoluzione, serve a restituire al rottame efficienza e forza, per continuare a sostenere lo stesso processo politico.
Tutto questo va a scapito di chi oggi, dentro e fuori la maggioranza di governo, tenta di percorrere una strada diversa. Soprattutto è penalizzato il centrodestra, ridotto al ruolo di valvassino nel neofeudalesimo politico italiano.
Bisogna avere una bella faccia tosta o vivere fuori dal mondo per dire, come ha fatto Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera” di sabato, 19 luglio, che tutti dovrebbero essere contenti, perché la seconda sentenza, di assoluzione, ribadisce il principio-cardine dello Stato di diritto secondo cui si è innocenti fino a sentenza definitiva. E non dovrebbero «essere scontenti – secondo l’ineffabile uomo del “Corriere” – tutti quelli che hanno virtuosamente negato di aver voluto mischiare vicende giudiziarie e vicende politiche». Per Battista questa sentenza celebra, insomma, ancora una volta, i fasti della nostra giustizia. Incredibile!

Giuro che alla lettura di simili untuose parole, mi son tenuto con due mani afferrato alla sedia per non ritrovarmi col culo per terra, scivolato per tanto profluvio di materiale oleoso.

domenica 13 luglio 2014

Dopo la processione sacrilega, Mezzogiorno "sospeso a divinis"


A Oppido Mamertina in provincia di Reggio Calabria i fanti, leggi Carabinieri, si sono stancati di scherzare coi santi, leggi Madonna delle Grazie. Quando la processione del 2 luglio si è fermata davanti alla casa di un anziano boss della ‘ndrangheta per il rituale inchino di rispetto, i carabinieri si sono allontanati. E che diamine! I santi – si sa – sono infinitamente misericordiosi, ma i fanti! Sono militari e rappresentano lo Stato, che dispone di  misericordia limitata.
Posta così, la questione sembra quasi una cosa da don Camillo e Peppone in salsa calabra. Ma così non è. La cosa rischia di aprire o di riaprire vecchi contenziosi tra Stato e Chiesa, rischia di creare questioni nella Chiesa stessa.
Che cosa è accaduto, infatti, quest’anno a Oppido Mamertina che già non fosse accaduto negli anni precedenti o che non accada abitualmente in tanti altri paesi del Mezzogiorno d’Italia? Niente. La processione, cui partecipano tra le tante autorità anche i Carabinieri, si è fermata davanti alla casa di un anziano malato, bisognoso di assistenza e di preghiere, che si dà il caso essere anche un vecchio boss, ergastolano, agli arresti domiciliari per motivi di salute. Si è ripetuta un’usanza tra devozione e costume popolari che si perde nella notte dei tempi. Ci si chiede: in questo caso verso il malato o verso il boss? Probabilmente verso entrambi, dato che questa usanza vuole che la processione di un Santo particolarmente generoso di grazie, come è la Madonna eponima, si fermi davanti alla casa del sofferente per intercedere in suo favore presso il Padreterno. Come a dire: «vedi, signor Domineddio, noi qui sulla terra ci inchiniamo a questa persona perché la riteniamo meritevole di rispetto umano e di grazia divina».
Ma quest’anno il maresciallo dei carabinieri della locale stazione ha detto “non ci sto” e ha abbandonato la processione coi suoi sottoposti, riprendendo la scena “crimine”.
Un bel gesto, che, nell’anno in cui si celebra il bicentenario della fondazione dell’Arma dei Carabinieri acquista un significato particolare, anche se si presta ad una serie di considerazioni.
Domanda: lo Stato ha voluto prendere le distanze dalla Chiesa, con cui non può condividere atti di misericordia infinita, o lo Stato si è assoggettato alla Chiesa che di recente, col Papa e con alcuni vescovi calabro-siciliani, ha assunto nei confronti delle organizzazioni mafiose una posizione di ferma condanna? Non si può non collegare l’episodio, infatti, alle recenti parole di scomunica del Papa nei confronti dei mafiosi.
Domanda che ne gemma un’altra: chi comanda in Italia, la Chiesa o lo Stato? Deve essere chiaro che le Forze Armate dello Stato non devono farsi coinvolgere in usanze di devozione popolare della Chiesa che possono sconfinare in reati di oltraggio alle istituzioni. Nelle processioni i Carabinieri non possono essere solo di parata; se hanno anche una funzione di ordine pubblico allora devono entrare nella gestione dell’evento. Nel caso i due aspetti, parata-ordine, non sono conciliabili, i Carabinieri non devono partecipare. Si incominci finalmente a concretizzare la separazione netta tra Stato e Chiesa, anche in simili aspetti marginali, ma non meno importanti e significativi. 
I cittadini italiani laici non possono che plaudire di fronte al gesto del maresciallo dei Carabinieri se è stato compiuto per protesta nei confronti di una Chiesa che ha esigenze diverse da quelle dello Stato; essi, però, hanno ragione di querelarsi se i Carabinieri, sempre per ordine ricevuto, hanno preso le distanze in linea con le decisioni del Papa, dando l’impressione di dipendere dalla Chiesa. Il problema, infatti, prima non si era mai posto.
I cittadini italiani cattolici devono fare un esame di coscienza. Devono decidersi da che parte stare: dalla parte della legge di Dio e delle usanze religiose, che portano perfino ad omaggiare un boss, o dalla parte della legge dello Stato che colpisce i boss, sani o malati che siano, e li condanna?
La chiesa, locale e romana, deve interrogarsi sul fenomeno nella sua dimensione tradizionale e sulle ultime esternazioni del Papa e di alcuni vescovi siciliani e calabresi. E qui il problema si complica. La Chiesa non può sovrapporsi allo Stato, altri sono i suoi compiti; e ciò sia nel bene che nel male. In specifico, l’interruzione temporanea del cerimoniale relativo ai sacramenti del battesimo, della prima comunione, della cresima e del matrimonio, per evitare che con padrini e compari si rafforzino i legami sociali mafiosi, e la sospensione delle processioni potrebbero fare più male che bene alla tenuta sociale, alla Chiesa stessa.

Sarebbe, infatti, come cedere alle organizzazioni mafiose tradizioni di grande civiltà, di convivenza, di solidarietà. Cos’altro resterebbe da cedere alla mafia, i cortei funebri? Si strapperebbe il tessuto sociale proprio in quel doppiofondo di robusta tela che maggiormente tiene. Qui non è più lo Stato che rischia – peraltro è già abbondantemente sconfitto se riesce a malapena a compensare l’acqua malavitosa che imbarca attraverso le falle con quella che riesce a buttar fuori col secchiello della magistratura – ma la Chiesa. Essa, infatti, con questo Papa si sta ponendo più come autorità secolare che come guida spirituale. Il Papa, che scomunica i mafiosi, che non perdona i corrotti, che danna i ricchi, finirà per essere un partito politico, che per definizione è parte di un tutto e divide invece di unire, disgrega invece di aggregare. Esattamente il contrario di quel che deve fare la Chiesa. Ci riecheggiano ancora nelle orecchie le parole di Giovanni Paolo II ai mafiosi in Sicilia: pentitevi! Verrà un giorno il giudizio del Signore!  Questo è parlar da Papa. 

domenica 6 luglio 2014

Caro Vendola, creda a me, il Medioevo è un deodorante


Nichi Vendola è una persona eccessiva. Non è estremista e neppure radicale. Semplicemente incontinente. Lo è in ogni sua manifestazione pubblica, dalla politica alla cultura. Del suo privato non dico; non è lecito dire. Sono fatti suoi.
Sabato, 28 giugno, nel corso del Gay pride a Lecce, un mezzo flop con poco più di un migliaio di manifestanti, si è esibito in una serie di eccessi verbali contro chi non aveva ritenuto opportuno, magari anche non condividendo, partecipare alla sfilata degli omosessuali in festa. Li ha chiamati ignoranti, intolleranti; ha detto che queste persone puzzano di medioevo.
Premesso che il Medioevo – io lo scrivo con la lettera maiuscola – non puzza, anzi è uno straordinario deodorante giunto fino a noi e andrà oltre in saecula saeculorum, come non puzza nessun periodo della storia, è aberrante pensare che chi non condivide un modello di vita, un modello sociale debba, solo per questo, meritarsi ogni sorta di contumelia. Per di più da un uomo pubblico. E’ aberrante che non si voglia riconoscere ad altri di avere nei confronti degli omosessuali un rapporto di stima e di affetto personali ma di non condivisione delle loro aspirazioni che vanno a modificare una concezione della vita semplicemente diversa e che ognuno ha il diritto di avere e di coltivare. Insomma chi non è con gli omosessuali in tutto e per tutto merita la gogna. Se il trand continuerà, in un futuro non molto lontano, chi non è omosessuale è un troglodita da tenere chiuso in qualche gabbia che elementi come Vendola immaginano di poter realizzare.
Non sono le grandi epoche storiche a puzzare, men che meno il Medioevo, dieci secoli in cui si viveva, pur nelle difficoltà storiche, nell’ordine costituito dalla natura e dalla storia. Certamente c’erano uomini che puzzavano; così come ci sono ancora oggi persone che puzzano, come ci sono state e ci saranno in ogni epoca. Queste persone sono riconoscibilissime. Non sono quelle che hanno una concezione della vita fondata su dei valori da difendere coerentemente in confronto aperto e leale con gli altri; ma sono quelle che hanno la pretesa di essere depositarie dell’unico e solo giusto e che dimostrano, ove ne avessero la forza, di imporlo agli altri in tutti i modi possibili: con l’offesa diretta (intollerante, ignorante, puzzone), col ricatto ideologico (se tu avessi un figlio gay che diresti?),  con la discriminazione e l’emarginazione (chi non la pensa in un certo modo non è degno di essere considerato una persona civile) e via di questo passo. Persone simili puzzano, sono sempre puzzate dalla preistoria ad oggi.
Vendola e i tipi come lui – non intendo riferirmi agli omosessuali tout court – non vivono il rapporto con se stessi in maniera tranquilla; sono disperati. Ostentano sicurezza, orgoglio di essere quello che sono, cercano di mistificare, ce l’hanno coi diversi, in questo caso i normali (si può dire? lo dico solo per esigenza comunicativa). In realtà si odiano, si disprezzano; vorrebbero contagiare gli altri, giungere ad eliminare ogni sorta di differenza; si comportano come lebbrosi che non tollerano che altri non abbiano la lebbra. Ecco perché non possono accettare che altri non partecipino alle loro sfilate e li minacciano e ingiuriano.
Quando Vendola fu eletto per la prima volta alla presidenza della Regione Puglia si ebbe ragione anche di esserne soddisfatti. Un omosessuale dichiarato può anche giungere alla presidenza della repubblica. Che male o che bene c’è? E’ un fatto normale. Ma un omosessuale che voglia violare l’esistenza di un bambino adottandolo per divenirne padre innaturale è cosa che si può anche non condividere, senza per questo essere esposto a pubblico ludibrio. Che non si condivida l’omosessuale che si esibisce in pubblico in atti osceni è un fatto normale. Che non si condivida il Gay pride è un fatto decisamente normale. Perché lo devono condividere tutti? Che ci siano quelli che considerano i Gay pride delle indecorose manifestazioni è perfettamente normale. Per quale ragione devono essere tutti d’accordo? C’è gente a cui non piace il carnevale, altra a cui non piace il calcio, altra ancora a cui non piace la ricotta forte. E, allora? Si vuole ridurre l’umanità ad una sorta di gregge?
Se Vendola non fosse così disperante e disperato dovrebbe apprezzare le persone coerenti, ancorché con lui in disaccordo. Piuttosto dovrebbe avere delle riserve nei confronti di altre che, come l’ex sindaco di Bari Michele Emiliano, si dicono sulla strada della conversione. Per carità, ognuno può convertirsi quando e come vuole, ma se poi ci sono sufficienti motivi – e quelli elettorali sono più che sufficienti – per ritenere la conversione strumentale, finalizzata, allora quanto meno bisogna nutrire un minimo di diffidenza. La democrazia non può essere la Tav di ogni pretesa socialmente nefasta, ancorché appagante sul piano individuale o delle minoranze; e se lo è o lo diventa, peggio per lei. Rinunciare a qualcosa nella vita è una prova di forza, non di debolezza: naturae non artis opus est.

Certo, occorre ammettere che oggi essere gay non è un fatto scandaloso e drammatico come anni fa, grazie alle battaglie fatte da tante associazioni e da persone coraggiose, ma bisogna anche considerare che la prospettiva incomincia a preoccupare. Non è la prima volta nella storia che gli eccessi finiscono per azzerare importanti conquiste. Oggi nei confronti dei gay si è tolleranti, si può e si deve giungere a non considerarli neppure come diversi, ma se si spinge per la totale condivisione di ogni loro pretesa fino a considerare chi dissente da matrimoni e adozioni un reprobo la reazione potrebbe esplodere di qui a qualche tempo. Ci sono dei valori irrinunciabili, che appartennero al Medioevo e apparterranno al futuro dell’umanità. Chi pensa che la partita dell’umanità si giochi nell’arco di una vita o che certe conquiste o perdite siano definitive non ha capito niente della storia.

giovedì 3 luglio 2014

Il Salento terra effeminata


Se essere ricchi di cultura-spettacolo è uguale ad essere effeminati, esserlo di cultura-pensiero è uguale ad essere virili? Mah!
Prendiamola alla larga. La sera di mercoledì, 18 giugno, al Must di Lecce, al termine della presentazione del romanzo di Vittorio Bodini “Il fiore dell’amicizia”, di recente riproposto da Besa, nel corso della quale avevano conversato Teo Pepe e Antonio Lucio Giannone, prese la parola il mio amico Valentino De Luca e disse alcune cose; due, in particolare.
La prima. Disse che della manifestazione presente la stampa non aveva dato adeguata informazione e che lui lo aveva appreso per caso leggendo il “Quotidiano” in un bar. In verità la stampa quotidiana ne aveva abbondantemente parlato fin dal giorno prima: “Quotidiano”, “Gazzetta del Mezzogiorno”, “Corriere del Mezzogiorno”. Teo Pepe gli fece simpaticamente osservare che forse sarebbe meglio che non per caso leggesse il “Quotidiano” ma per buona abitudine comprandolo. Allora Valentino – ed è la seconda che disse – virò di bordo: sì, ma perché la mattina radio e televisioni, quando fanno la rassegna stampa, saltano le informazioni sulla cultura?
E qui ebbe proprio ragione.  Chi fa radio e televisione salta a piè pari le notizie relative a fatti ed eventi culturali. Si prese l’applauso.
Ma lo spunto polemico di Valentino è assai più degno dell’applauso per alcune lievitazioni. Nei confronti della cultura, nella fattispecie della cultura fondata sulla scrittura, anche i giornali stampati fanno gli schizzinosi, gli spilorci; le dedicano cascami di pagina, rimasugli di colonne, stringati annunci. Così anche nei confronti delle arti figurative; addirittura peggio per gli studi storici e politici.  Mentre si dà ampio spazio alla cultura dello spettacolo: teatro, cinema, musica leggera, canzonette, spesso con commenti e interviste nei giorni successivi. Ovvio che qualcuno potrebbe anche replicare che non è così o addirittura che nel campo della cultura scritta si produce così poco di qualità che non è davvero il caso di sprecare spazio per minchiatine di nessun valore, tutto sommato autoappaganti o autofrustranti, a seconda dei casi. 
Io che ho le fissazioni dello storico, per deformazione professionale – ho insegnato storia per quarant’anni – mi chiedo: ma tra cento-duecento anni o quando fosse, nell’ipotesi tanto disgraziata quanto remota che tutto venisse distrutto e rimanessero intatti e leggibili solo i nostri quotidiani, che conoscenza dei nostri tempi avrebbero i posteri? Penserebbero che ai nostri tempi non c’erano scrittori di letteratura, di storia e di politica e che la cultura si esauriva in canti e suoni e qualche rappresentazione. Come se un marziano, giunto sulla Terra avesse incontrato solo me prima di tornarsene dalle sue parti; ai suoi direbbe: sono stato sulla Terra e colà gli uomini non sono più alti di un metro e cinquanta, hanno baffi, pizzo e becco, capelli spettinati, dimostrano dubbia età. Questo accadrebbe. Un’ingiustizia per il mio amico Valentino e per tanti altri, più alti, più belli e più giovani di me.  
E, infatti, la giornalista del “Corriere della Sera” Manuela Mimosa Ravasio, in un servizio apparso su “Sette” del 23 maggio scorso, nel quadro di uno “Speciale Viaggi”, è giunta alla conclusione che «Il Salento oggi è terra effeminata votata al divertimento». Non le si può dare torto. Il Salento, per quello che mostrano i media, è l’Eden dei suoni, dei canti, delle danze, del teatro, di location per film, di sagre, di feste paesane, del “chi vuol esser lieto sia”.
Lasciamo lusco e brusco: il tema lo richiede. A mio avviso il Salento ha finalmente trovato il suo tempo, contenuti e forme, per realizzarsi appieno secondo i suoi caratteri di fondo. Siamo portati per tradizione alla scrittura e alla stampa. Non vorrei scomodare Adamo ed Eva, che probabilmente non erano di queste parti; ma voglio citare Ennio e Pacuvio. Lecce è stata da sempre per numero di testate giornalistiche a ridosso delle grandi realtà nazionali; grandi avvocati e oratori, parlatori e conversatori. Ma, pur notati e apprezzati nel resto d’Italia – penso ai principi del foro – mai hanno raggiunto i vertici raggiunti dalle nuove forme di cultura. Quale poeta o scrittore, scienziato o artista del passato leccese e salentino può essere paragonato per successo conseguito a Carmelo Bene, a Emma Marrone, ad Alessandra Amoruso, a Dolcenera, ai Sud Sound System ai Negramaro, a Edoardo Winspeare? Situazioni imparagonabili. Giornali e televisioni hanno creato le condizioni perché il Salento finalmente producesse i suoi migliori artisti, le sue migliori forme di cultura, quasi tutte riconducibili allo spettacolo.
Ma se pure tutto ciò fosse vero – e lo è – non è tutto quello che il Salento produce. C’è un Salento nascosto; un Salento che è oscurato perché non si sintonizza con la cultura di massa, che è quella della musica, delle canzoni, dei balli. C’è un Salento frivolo ed effeminato, se così si può dire, votato al divertimento; ma c’è anche un Salento più serioso e laborioso, che produce nell’editoria, che crea nel lavoro, che disegna, dipinge, scolpisce, progetta, pensa e scrive di politica, di storia, di filosofia, di sociologia.
Pettini – dirà qualcuno – per teste pelate; e perciò non hanno mercato. Ragione per la quale i media non se ne occupano più di tanto. E’ per questo che i forestieri oggi si fanno un’idea unidimensionale del Salento.

Non so se essere effeminati e votati al divertimento sia proprio un complimento; mi viene di negarlo e di pensare piuttosto ad altri attributi. Il guaio è che avere questi attributi conta poco se poi non si riesce a mostrarli.