Si saranno accorti tutti i
milioni e milioni di spettatori del campionato mondiale di calcio, conclusosi
domenica 13 luglio in Brasile, che i calciatori tedeschi, campioni del mondo,
avevano indosso due divise, una banale: maglietta, pantaloncini e calzettoni
coi colori e i fregi della Germania; l’altra più importante: capelli e barbe
rasati, nessun tatuaggio sul corpo, nessuna cresta in testa o altre stravaganze
cromatiche e folkloriche; nessuna lacrima o conato di vomito; nessuna
sceneggiata per falli veri o presunti subiti; nessuna protesta per decisioni
arbitrali discutibili. Questa seconda divisa, che in realtà è la prima, i
tedeschi la fanno indossare perfino a quegli stranieri che finiscono per essere
naturalizzati tedeschi e conseguentemente utilizzati nella nazionale di calcio.
Se non fosse perché i tratti del viso e il colore della pelle erano diversi i
Khedira, gli Ozil, i Boateng, nonostante qualche piccolo irrinunciabile vezzo
etnico, sembravano autentici tedeschi. Tutti decisivi nel costruire il
successo: tutti protagonisti, nessun personaggio.
Nulla di strano. Anche noi
italiani facciamo indossare agli stranieri che giocano nella nostra nazionale
la divisa comportamentale italiana; così abbiamo fatto di Balotelli un italiano
doc. Chi saprebbe distinguerlo da un Cassano, colore della pelle a parte?
Lungi dall’ancorare la vittoria
del mondiale alla sola divisa comportamentale, non si può tuttavia non fare
qualche considerazione. Né si può scemare il valore critico di quanto sopra con
le solite obiezioni che furoreggiano nel calcio: se quel tiro invece di andare
di poco fuori fosse andato dentro, non staremmo qui a celebrare le teutoniche
divise. Da che mondo è mondo si valutano i fatti, quelli che sono accaduti e
non quelli che sarebbero potuti accadere. Dunque tedeschi campioni del mondo in
duplice divisa.
Il mio professore di lingua e
letteratura tedesca e germanistica all’Università, Francesco Politi, che i
tedeschi li conosceva bene essendo stato per anni in Austria e in Germania come
direttore di istituti italiani di cultura prima dell’insegnamento
universitario, diceva che i tedeschi fanno le cose di pace con la stessa
serietà e con lo stesso impegno con cui fanno le cose di guerra. “In pace
decus, in bello praesidium” diceva di loro Tacito circa duemila anni fa nella
sua “Germania” (in pace splendore, in guerra difesa).
Aveva perfettamente ragione.
Nell’immediato dopoguerra lo scrittore Carlo Levi, ben noto per il suo libro
“Cristo si è fermato a Eboli”, si fece un giro in Germania e trasse un reportage che pubblicò col titolo “La
notte dei tigli”. Pensava Levi di trovare una Germania devastata dalla guerra,
un fumar di rovine e i tedeschi avviliti, pentiti, imploranti perdono mondiale
e aiuti stranieri per riprendersi dall’immane catastrofe. Pensava, lui ebreo,
di godersi la rivincita per quanto la sua gente aveva patito per colpa del
nazismo. Invece lo scrittore rimase stupefatto: tutto ricostruito, tutto in
ordine, le vie e le piazze ben pulite, non si vedeva un muro sbrecciato, i
servizi funzionanti, la gente come se non ci fossero mai stati in Germania né
nazismo né guerra. Una cosa che non sembrava neppure vera al reduce di Eboli.
Sorpreso e spiazzato, scambiò il ben di Dio trovato con l’indifferenza di un
popolo che aveva rimosso completamente con le rovine anche le colpe.
Ecco, i tedeschi giocano al
calcio, che è cosa di pace, come sterminavano interi quartieri nelle città
occupate in tempo di guerra, con la stessa divisa comportamentale. Nel
distruggere le cose degli altri in guerra e ricostruire le proprie cose a
guerra finita esprimono la stessa serietà, ligi ad uno stesso dovere,
obbediscono a degli ordini.
Li abbiamo sentiti dire più volte
i criminali di guerra nazisti, a partire dal processo di Norimberga ai nostri
giorni, di non negare nulla di ciò di cui venivano accusati ma di non sentirsi
responsabili di nulla; ognuno ha ripetuto: ho solo obbedito a degli ordini. Chi
li ha condannati a morte probabilmente non ha creduto al mantra “ho obbedito a
degli ordini” o forse sì, ha creduto, ma doveva pur dare al mondo un messaggio
che scongiurasse il ripetersi di simili tragedie.
Oggi la Germania è la potenza
politica ed economica più importante dell’Europa. Se a tanto è giunta, dopo
l’annientamento subito con la seconda guerra mondiale, significa che il suo
popolo ha delle doti eccezionali, tra queste il senso della disciplina, del
decoro, della serietà, dell’impegno, dell’obbedienza.
“Obbedire agli ordini” non è un
fatto in sé negativo; anzi, in tempo di pace significa progresso, efficienza,
successo in tutti i campi. I successi, infatti, giungono grazie a queste doti;
non sono regali piovuti dall’alto di un Signore universalmente misericordioso,
che distribuisce beni a pioggia; ma da un Signore selettivo, che premia chi
merita. Dobbiamo convincerci che la mamma non ce la scegliamo, ma Dio sì: a
ciascuno il suo.
Ma il vero ordine a cui i
tedeschi obbediscono non è affatto esterno, come sosteneva Curzio Malaparte,
che pure tedesco era per parte di padre, narrando un episodio sicuramente
inventato in una delle sue più celebri opere, “Kaputt”, in cui i soldati
tedeschi non obbedivano all’ordine del comandante solo perché non era in
divisa; il vero ordine sentito dai tedeschi – dicevo – è tutto interiore, è un
obbedire a se stessi, a quel loro essere insieme individui e popolo, singoli e
insieme. E’ quell’imperativo categorico, teorizzato da Kant, uno dei più
rappresentativi filosofi tedeschi, a cui il tedesco tipo non sa sottrarsi.
Dei calciatori della Mannschaft campioni del mondo, ci
sarebbe solo da sorprendersi che alla fine hanno perfino gioito!
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