sabato 26 dicembre 2015

L'Italia: un paese sospeso


L’incarico di Renzi a formare il governo, frutto di una serie di circostanze di derivazione elettorale e politica, ma voluto dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano, fece pensare di primo acchito ad una sospensione della democrazia. Per quanto tutto fosse stato fatto in ossequio alla Costituzione – non è scritto in nessuna parte che il Presidente del Consiglio incaricato deve essere un eletto dal popolo – si avvertì un deficit di dibattito e di confronto, in considerazione che la nostra è una repubblica parlamentare e una democrazia rappresentativa. Parlamentare perché il ruolo del Parlamento è centrale; esso elabora soluzioni politiche al suo interno e non si limita a ratificare scelte fatte fuori. Rappresentativa di che? Di quelle forze politiche elette dal popolo in regolari elezioni. Esse poi pensano e decidono coi loro uomini più rappresentativi, coi loro leader, in maniera collegiale. Ora, quella di Napolitano fu una scelta singola, di cui egli si è assunto la responsabilità di fronte al paese e alla storia, nel bene e nel male. Duo non faciunt collegium dicevano i latini, figurarsi uno!
L’interventismo di Napolitano parte dall’estate del 2011, come ormai è acclarato da testimonianze mai smentite, con le dimissioni “indotte” di Berlusconi, già politicamente esautorato e moralmente screditato, con l’incarico a Mario Monti, col tentativo Bersani, con l’incarico a Letta e infine con l’investitura di Renzi. Dopo le elezioni politiche ci fu l’intermezzo della rielezione di Napolitano al Quirinale. Apparve subito pertanto che si trattava di un’operazione di vertice, gestita in più fasi, una volta si sarebbe detto “congiura di palazzo”, garantita dalla continuità istituzionale e politica di Napolitano. E di golpe strisciante si parlò all’epoca dei fatti. Se non fu un golpe sotto il profilo tecnico, lo fu sotto il profilo politico.
Dopo circa due anni di governo Renzi, appare di tutta evidenza che non solo la democrazia è sospesa, ma anche la politica in senso più ampio; e quando la politica è sospesa è come un motore che si spegne e la macchina non va né avanti né indietro. Ecco, l’Italia è un paese sospeso. Lo è politicamente, economicamente, culturalmente, eticamente. Il dibattito politico è congelato, lo zero virgola della crescita è insignificante, la classe dirigente non ha idee precise sulla sua identità culturale, la caduta di tensione nell’etica del ruolo, specialmente per certe professioni, è segno di spaesamento diffuso e crescente.
Non sono tanto le esibizioni di Renzi, parodisticamente mussoliniane e berlusconiane, che confermano questa percezione. Ora Renzi si mette anche a parlare di potenza dell’Italia, di prestigio nel mondo, di puntualità nel portare a compimento le opere pubbliche, come faceva Mussolini quando dal balcone di una nuova città appena inaugurata prometteva la data dell’inaugurazione della successiva; e attacca la Merkel in maniera solo meno pacchiana e volgare di Berlusconi.
Lo stato di incertezza e confusione lo si evince soprattutto dai commentatori politici che non sanno che pesci pigliare e dalla stampa tutta che li segue in una condizione di sostanziale autocensura, ormai conclamata. I più onesti non fanno proclami, ma lo dicono; e se non lo dicono, lo ammettono.
E’ una cosa molto grave la condizione in cui operano i giornalisti. Molti di essi, fior di firme, sono stati prepensionati e vivono in uno stato di “disoccupazione mentale”, nel senso che la loro intelligenza critica non trova gli spazi adeguati per esprimersi e incidere nella formazione dell’opinione pubblica. Ché quello è il ruolo di un intellettuale, di un commentatore critico. Vediamo l’affollamento di firme celebri nel “Fatto Quotidiano”, autentica area di parcheggio di menti rottamate. Altri, se non vogliono fare la stessa fine, si guardano bene dal criticare il potere e vivacchiano dicendo e non dicendo. Autocensurandosi, evitano al potere politico di mostrare la sua vera faccia, che è quella della repressione sia pure morbida; e salvano il posto di lavoro. I due maggiori quotidiani italiani la dicono lunga con la sostituzione di Ferruccio de Bortoli al “Corriere della Sera” e con quella, annunciata, di Ezio Mauro alla “Repubblica”. I due direttori sostituiti non erano renziani, sia pure per motivi diversi; Fontana e Calabresi lo sono. Ogni cosa ha il suo posto, ogni posto ha la sua cosa, si diceva saggiamente una volta nella bottega di un artigiano. De Bortoli e Mauro erano ormai al posto sbagliato.
L’aspetto più grave è il messaggio che passa da simili operazioni: si va verso un renzismo più sistematico e organico, si va verso il partito della nazione, che – facciamoci caso – ricorda tanto il partito nazionale fascista. Non contano i dettagli e i modi con cui l’uno si fece strada nel dopoguerra e l’altro si sta facendo strada nel dopocrisi – ma è davvero dopocrisi? – conta che oggi come allora si avverte la necessità di un partito che impedisca la dialettica politica e abbracci in un solo organismo tutta la nazione. Basta con le chiacchiere e chi non ha fiducia nel governo è un gufo. Non è un caso che il gufismo di Renzi si sta affermando come metodica, che travalica la battuta polemica e s’impone come cifra di comunicazione e di lotta politica. I gufi, nella visio di Renzi, sono gli avversari, malvagi perché sperano che le iniziative del governo falliscano a danno dell’intera nazione pur di dimostrare di essere loro i più adeguati a governare. Come fatto non è nuovo, un po’ è fisiologico in una democrazia; ma solo con lui o da lui in poi è diventato un’arma propagandistico-mediatica.
Nessun grido di allarme, nessun “al lupo, al lupo!”. Il partito della nazione non potrà mai calcare le orme del partito nazionale fascista; ma risponde come quello ad una volontà di creare in Italia un sistema politico a democrazia ridotta, in modo che chi lo rappresenta al massimo livello possa prendere i provvedimenti che occorrono in tempi brevi e rispondere all’Unione Europea senza tante incertezze e lacerazioni interne.

La domanda che è lecito porsi è: ma il renzismo è una fase del processo d’uscita dalla crisi politica, cui ne seguiranno altre fino al ritrovamento di un nuovo assetto politico-istituzionale, o è la risposta finale alla crisi? A ragionar politico, verrebbe di dire che è la risposta finale. A ragionare storico si ha qualche legittimo dubbio.

domenica 20 dicembre 2015

Cristiani e musulmani nel paese "fai da te"


In questo nostro Paese, lasciato allo spontaneismo più diffuso e alle iniziative più strampalate ed estemporanee, accade di tutto; c’è da aspettarsi di tutto.
A Pontoglio, comune in provincia di Brescia, il Sindaco di centrodestra Alessandro Seghezzi, ha aggiunto sotto le due targhe d’ingresso al paese una terza targa, in cui si avvisa che trattasi di «Paese a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana» e che «Chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene». Già la seconda targa traduceva Pontoglio in “Pontoi”, a dire che in quel paese si è bilingui, italiano e dialetto bresciano, da intendersi, questo, di pari dignità comunicativa. E’ come se all’ingresso del mio paese, Taurisano, si aggiungesse una seconda targa per tradurlo nel dialetto “Tarusanu”. E perché, poi? L’italiano ci va stretto? Sarebbe forse assai più opportuno che questi neonazionalisti di Pontoglio e dintorni curassero di più l’italianità del loro essere geografico, politico e culturale, invece di chiudersi nelle gabbie dell’incomprensione.
Ma, dopo le prese di posizione di sconsiderati dirigenti scolastici di impedire a scuola lo svolgimento delle tradizioni natalizie cristiane per non offendere chi cristiano non è, ma, senza ipocrisie, in riferimento esclusivo ai musulmani, c’era da aspettarsi che alle cretinate di una parte si contrapponessero cretinate dall’altra. Anzi, doppie cretinate.
Errore rinunciare alle proprie tradizioni, millenarie, nella presunzione o nella paura di offendere degli stranieri, i quali non hanno mai chiesto finora di non essere offesi, né si sono mai lamentati di esserlo stati da un presepe o da un concerto di canti natalizi. Perché creare un problema quando non ne esistono i presupposti?  Già, perché? Perché si è fessi! Verrebbe di dire.
Ancor più grave – e qui mi riferisco al Sindaco di Pontoglio – quando dai ad intendere di avere tu un problema dalla presenza di migranti, i quali hanno tutto il diritto di essere musulmani o d’altro credo. Non solo il problema non esiste, ma inventarselo per angustiarsi e minacciare è ancora più da fessi.
Ricordo che tra gli anni Cinquanta e i Sessanta del Novecento l’Europa era piena di migranti italiani. Ce n’erano in Svizzera, in Francia, in Germania, in Olanda, in Belgio. E nella maggior parte erano lombardi, emiliani, friulani, veneti. C’erano pure i meridionali, i quali finirono per essere chiamati “cìncali” omologati ai settentrionali che, giocando a morra nei ristoranti, si facevano notare per come pronunciavano il cinque: <cinq>. Per cui tutti gli italiani erano <cìncali>, un diminutivo per indicare piccoli italiani; come noi abbiamo chiamato anni addietro i <vu’ cumprà>, dall’approccio con cui i venditori ambulanti di origine africana si proponevano.
A scuola nei primi anni Sessanta – frequentavo la scuola pubblica a Berna – nella mia classe c’erano un campano della provincia di Avellino, due salentini (io e un ragazzo di Aradeo) e un piemontese della provincia di Alessandria. Nell’ora di religione, che cadeva nella prima di ogni lunedì, noi cattolici entravamo un’ora dopo, perché la religione che si osservava in quella scuola era protestante. Nessuno si sentiva offensore e nessuno si sentiva offeso.
E’ ben vero che noi italiani rispettavamo tutto quello che c’era da rispettare, pubblico e privato; e gli svizzeri nei nostri confronti erano tolleranti nella rigorosa tutela delle loro cose, morali e materiali. La cultura, quando non è solo somma di saperi e di nozioni, aiuta e anzi promuove la convivenza.
Ora gli italiani del Nord si sono arricchiti, stanno bene, molto meglio di quelli del Sud – a parte qualche problema economico passeggero – si sono insuperbiti, hanno la puzza sotto il naso, dicono allo straniero: se non rispetti il mio Dio te ne vai. Fino a ieri o all’altro ieri certe cose le dicevano perfino a noi meridionali: non si affittano camere ai meridionali.
C’è in questa gente, per molti altri aspetti ammirevole, una sorta di tendenza ad una giustizia fai da te, ad un rifiuto di accettare le regole della nazione, che non può ragionare in alcun modo come il sindaco di Pontoglio. Lo Stato interloquisce con altri Stati, deve porre domande e deve dare risposte assai più importanti e responsabili.
Si dirà: oggi esiste un problema, che è sbagliato far finta che non esiste; ed è quello di una società che va sempre più multiculturalizzandosi senza una guida sicura da parte delle istituzioni. Voglio dire che l’immigrazione è un fenomeno molto serio, sia per i risvolti economici sia per quelli politici e culturali. Sarebbe una tragedia se diventasse serio anche per l’ordine pubblico.

Quale indicazione dà lo Stato per gestire il processo senza che questo se ne vada per sue direzioni? Nessuna. Nella più bella tradizione italica si lascia che tutto scorra spontaneamente. Non so se si tratti di una scelta calcolata o di una condizione immodificabile o inevitabile. Sta di fatto che lo Stato, mentre lascia che l’immigrazione faccia il suo corso senza alcun limite e senza alcun freno, non aiuta né le nostre istituzioni né i cittadini ad accogliere i migranti; né riconosce ai migranti diritti e doveri ben definiti. Così da un lato le città si riempiono di moschee abusive e adattate in locali di fortuna, incontrollate e incontrollabili, da un altro si permette a dirigenti scolastici e a sindaci di prendere iniziative, in un senso o nell’altro, ma sempre discutibili quando non vietabili e sanzionabili.     

mercoledì 16 dicembre 2015

Il fallimento delle banche: un altro paradosso italiano


Il cosiddetto decreto salva-banche adottato dal governo il 22 novembre scorso è un capolavoro di italianità. Di fatto ha dichiarato fallite quattro banche (Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Banca Marche, Carichieti e Cassa di Risparmio di Ferrara) per poter salvare – hanno detto quelli del governo – i correntisti e migliaia di posti di lavoro. Salvare cioè la parte sana di quelle banche tagliando e buttando quella malata. Peccato che nella parte malata c’erano 140.000 risparmiatori, i quali hanno perso 430 milioni di Euro. Pare che 12.500 di essi non hanno speranza alcuna di recuperare i soldi avendo investito in obbligazioni subordinate.
Addentrarsi nel complicato mondo della finanza, delle azioni, dei titoli, delle quote, delle obbligazioni subordinate e di altre finanziarità, è arduo – a quanto è dato capire – perfino per gli esperti. Tra i risparmiatori vittima del fallimento delle suddette banche ci sarebbero, infatti, perfino dei loro dipendenti, dei funzionari, che avrebbero dovuto sentire la puzza di bruciato prima dell’incendio.
L’assurdità della manovra del governo sta nel fatto che le istituzioni preposte ad impedire il fallimento, ovvero a che la situazione giungesse al fallimento, Banca d’Italia e Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa) dipendono dal governo e avrebbero dovuto tenere sotto controllo la situazione per impedire che accadesse quello che poi è accaduto. Insomma il governo ha fatto fallire col suo decreto salva-banche le banche che avrebbe dovuto impedire che fallissero.
E’ la democrazia, bellezza! Pur non essendo un fanatico della democrazia, direi: è l’Italia, bellezza! Ma come possono accadere cose simili senza che alla fine ci siano dei responsabili ai quali far pagare le colpe del disastro? A dare colore, tipicamente italico, c’è che la Banca dell’Etruria aveva come vice-presidente il padre del Ministro per le Riforme Maria Elena Boschi e tra i funzionari di vertice della banca il fratello della Boschi e tra i dipendenti la cognata (della Boschi sempre).
Oggi quelli del governo se ne escono con la Commissione parlamentare d’inchiesta, istituto che non ha mai combinato nulla di buono in Italia; come se l’istituzione di questa commissione fosse la panacea di ogni male.
I cittadini devono sapere che una banca fallisce come una qualsiasi azienda: spende soldi che non riesce a far rientrare. Queste banche hanno prestato danaro ad imprenditori amici, senza accertarsi delle loro condizioni di solvibilità e di restituzione. A questo s’aggiunga pure qualche altra spesa eccessiva, come assunzioni di personale o investimenti fallimentari. La Banca d’Italia e la Consob avrebbero dovuto controllare e intervenire. Cosa che hanno fatto quando ormai le gatte erano gravide e non c’era più nulla da fare, se non commissariarle e accelerare il fallimento, prima che entrasse in vigore la nuova norma di adeguamento comunitario col 2016, il cosiddetto bail-in, in base al quale sono le stesse banche a tirar soldi per salvare le banche in difficoltà o fallite, non più lo Stato. Se non ci fosse stato il decreto governativo del 22 novembre scorso che ha stabilito in 2,3 miliardi di Euro il fondo per salvare le quattro banche, di soldi nel 2016 ne sarebbero occorsi molti di più, circa 13 miliardi.
Un pasticcio che è già complicato raccontare. Tagliamo il nodo gordiano riportando la questione nella sua normalità, che uno Stato serio dovrebbe garantire.
Le banche non sono dei casinò dove si va a giocare, col rosso e col nero: si punta e si rischia, si perde e si vince. Le banche sono degli istituti garantiti in cui un cittadino va a mettere al sicuro i risparmi di una vita. Si dà il caso, invece, che quando un risparmiatore va in banca a depositare i suoi soldi,  incontra un funzionario, un impiegato che gli dice: ma perché questi soldi non li metti a frutto acquistando titoli, azioni o obbligazioni? Così alla fine dell’anno invece di una miseria di interessi potrai avere molto di più. Immagino che l’altro obietti: ma siamo sicuri che sarà così? Sicuri? Replica il bancario, certissimi!
Più o meno è questo il dialogo che si ripete come una liturgia tra cittadino risparmiatore e bancario. Il quale, per poter avere il premio di produzione dalla sua banca, convince il cittadino ad investire i suoi soldi in titoli e obbligazioni.
Intendiamoci, nessuno vuole criminalizzare questi signori. Non sono essi che concedono prestiti ad amici che non restituiscono poi i soldi e fanno fallire la banca. Sono i loro superiori. Essi, però, finiscono per essere complici involontari – almeno così ci piace pensare – perché, se no, saremmo davvero nell’ambito di vere e proprie organizzazioni a delinquere.
Complicità involontarie, prestiti avventati, intrecci politici, autorità disattente o interessate costituiscono un intreccio diabolico, dalle cui spire i cittadini vengono soffocati. Che oggi qualcuno cerchi di buttare la colpa agli stessi cittadini, tacciandoli di consapevole azzardo e perciò vittime di se stessi, è davvero enorme. 
Il rischio oggi è grosso. I cittadini, infatti, stanno perdendo fiducia nel sistema bancario e pensano davvero di cucire i soldi risparmiati nel materasso, trasformando danaro attivo in “pecunia otiosa”. Se tanto dovesse verificarsi sarebbe la fine del progresso e la morte della società della produzione e dei consumi. La “pecunia otiosa” infatti è tipica delle società povere e chiuse, quali erano quelle del medioevo, quando, in mancanza di danaro, i commerci avvenivano nella corte e col baratto. 

domenica 13 dicembre 2015

Renzi e la Leopolda


Alla VI edizione della sua invenzione politica, a Firenze, Renzi ha detto che senza la Leopolda non sarebbe diventato capo del governo, che non ci sarebbe stato quel cambio politico generazionale che è sotto gli occhi di tutti. L’orgoglio delle proprie imprese in politica è comprensibile. Quanto però un successo politico dipenda da esse o da un insieme di circostanze diverse è assai più complesso dimostrarlo; ma diamo a Renzi quel che è di Renzi. Oggi è l’uomo politico italiano più importante, con una prospettiva assai più importante del suo trascorso. La Leopolda - ha detto - è il futuro. La Leopolda, insomma, come il socialismo, il fascismo, il comunismo: un sistema di idee e di fatti epocale. Bum!
Renzi, però, esagerazioni a parte, sembra l’uomo giusto nel momento giusto. Se così non la pensassi non sarei quell’hegeliano che mi son sempre professato. Nell’era dei social, del chiacchiericcio mediatico, dei ciarlatani e degli uomini di plastica, Renzi è un simbolo prima ancora di essere un rappresentante; un prodotto più che un artefice.
Questo non significa che è positivo tutto quello che fa; piuttosto che non ha competitori, che è come un concorrente in pista senza avversari, che arriva primo e ultimo al traguardo. Fa quello che fa perché nessuno lo contrasta, lo condiziona, lo sminuisce, lo costringe al compromesso. D’Alema, Bersani, Cuperlo, Fassina, Civati, Vendola sono neige d’antan, per dirla col Villon, quello della ballata degli impiccati.
La Leopolda non è un partito e non è una corrente del partito cui Renzi appartiene. Lo ha detto chiaro e tondo. Ipse dixit. E, allora, che cos’è? Pare una bolla d’aria, una “trovata” propagandistica, tra il pubblicitario e il politico. Un altro segno dei tempi, prima o poi qualcuno le darà l’importanza che non ha. 
Passiamo al concreto. E’ la politica estera renziana – in verità evanescente fino alla mortificazione – che spiega ogni altra politica di questo governo, da quella economica a quella scolastica, da quella della sicurezza a quella delle stesse riforme. Quando Renzi si incontra coi suoi omologhi europei e mondiali lo vediamo in disinvolta conversazione con essi e in amichevoli pacche sulle spalle, sorrisi e scambi di battute. Sembra quasi che tutti lo cerchino; tutti gli sorridono, lo coccolano, come in genere si fa con l’ultimo arrivato, il figlio piccolo di famiglia. Si compiace a fare il cacanido. Ovvio, la televisione seleziona le immagini e mostra quello che conviene, che fa propaganda.
Quando torna in Italia fa la voce grossa: noi non bombardiamo e quelli che lo fanno sbagliano, non sanno neppure che cosa bombardano e perché; l’Europa non ha una strategia. L’Europa non ci deve dire quello che dobbiamo o non dobbiamo fare.
Beh, concediamogli pure il contentino. Non ci costa niente. Ma ammettiamo anche che uno come Renzi, il boy-scout nazionale, oggi come oggi fa al caso nostro: chi vuole la guerra in Italia? Ma stiamo scherzando? La posizione del governo esprime alla perfezione il punto di vista più diffuso nel Paese. Ma da qui a dire che l’Italia è in prima linea, come fanno Renzi e compagni, che dopo gli Stati Uniti è il Paese che ha più militari in missioni all’estero, ne corre. Il nostro disimpegno andrebbe spiegato, senza vergognarsi, senza pezze propagandistiche che fanno male, senza ruffianismi con i paesi da dove vengono i migranti, ai quali non si prendono le impronte come vogliono le norme europee. L’Italia è come papa Francesco la vuole: una chiesa da campo, prima accogliamo e curiamo e poi, se è il caso o se c’è tempo, certifichiamo l’identità.
La nostra politica estera è sostanzialmente ruffiana e mira ad un trattamento di favore perfino dai terroristi. Ai quali si dice o si fa capire che noi non siamo come i Francesi, come i Russi, come gli Inglesi, come gli Americani; noi siamo brava gente: basta che c’è la salute.
Renzi perciò fa davvero al caso. Non c’è che dire. La stampa lo asseconda. Perfino quella più ostile ormai tace e se pure accenna a qualcosa di spiacevole, lo fa col preservativo anti-Salvini, sparando in premessa contro la destra impresentabile.
Il decreto salva-banche, fatto per salvare le quattro banche fallite, è la prova più lampante di un Paese, che, senza o con Renzi, non cambia. Le banche semplicemente non dovrebbero fallire. C’è una legge del 1926 che le mette tutte sotto il controllo della Banca d’Italia. Se falliscono è perché qualcuno o più di uno ha delle responsabilità; e pertanto dovrebbe pagare. I risparmiatori, furbi o fessacchiotti, non dovrebbero essere truffati. In banca non si va come al Casino a puntare, se esce rosso vinco se esce nero perdo. In banca si va a mettere al sicuro i propri risparmi nell’eventualità di un bisogno, di un’esigenza, nella prospettiva di realizzare qualcosa per i figli. Che governo è quello che lascia alla mercé di ladri e truffatori i cittadini, provveduti o meno che siano? Il decreto salva-banche del governo doveva anzitutto tutelare gli interessi dei risparmiatori. Non devono essere sempre i cittadini ignari a pagare per le manchevolezze delle istituzioni. Invece, ancora una volta, propaganda: col decreto abbiamo salvato migliaia di posti di lavoro. Tra i posti di lavoro salvati ci sono quelli di quegli impiegati che hanno truffato i risparmiatori con le obbligazioni inadatte facendo perdere loro i risparmi di una vita.
Col decreto salva-banche è stata salvata, con le altre tre, anche la banca di cui è vicepresidente il padre della ministra per le riforme, Elena Boschi. Dove starebbe la panacea renziana se in Italia accadono esattamente le stesse cose che sono sempre accadute? Dove il nuovo uomo della provvidenza?
La “buona scuola” è l’altra solenne minchiata, per come noi salentini e siciliani intendiamo il termine; ossia una volgare presa in giro. Propaganda bella e buona: un provvedimento di tipo economico fatto passare per provvedimento educativo e formativo. E’ la più grande infornata di massa di insegnanti mai avuta in Italia. Gli effetti si vedranno a breve.
La politica economica del governo, nonostante il fiume di soldi che Renzi ha messo in circolo, non raggiunge neppure un punto in percentuale. Ha detto il sociologo Giuseppe De Rita, presidente del Censis, che l’Italia è sospesa, che è una cosa un po’ penosa dover valutare una ripresa economica fiacca basata sugli zero virgola.

Probabilmente questo governo durerà quanto vuole, paradossalmente anche oltre la normale scadenza, se lo vuole, perché la politica è morta e quei pochi politici che ancora sono in giro sono impresentabili, spaventapasseri in una landa deserta. Deserta perfino di passeri, dato che l’astensionismo degli elettori non sembra fermarsi.

domenica 6 dicembre 2015

Cambiare parere su Renzi si può, anche in peggio


Eugenio Scalfari ha compiuto atto di ravvedimento su Matteo Renzi e si è con lui sposato. Lo ha fatto da Lilly Gruber, compare di nozze Paolo Mieli, mercoledì sera, 2 dicembre, nella chiesa de “La Sette”. Ha detto: ritengo che governare da solo sia un errore e Renzi governa da solo; il fatto che abbia intorno uno staff di venti persone non dice niente perché queste sono tutte persone sue senza volontà politica propria. Poi ha aggiunto: ora però mi correggo, siccome in Europa i capi dell’esecutivo dei paesi più importanti governano da soli, allora è inevitabile che lo faccia pure lui. Al limite – ha concluso – bisognerebbe creargli dei contrappesi istituzionali. Più o meno questa la base del matrimonio Scalfari-Renzi.
Ora, è sempre bene che qualcuno, accortosi di aver sbagliato, si ravveda e lo dica pubblicamente. Gli fa onore. Ma, nel caso in specie, è lecito chiedersi: c’era bisogno di una simile arrampicata sugli specchi? Prima Scalfari non lo sapeva che in Europa altri governano da “soli”, dalla Merkel ad Hollande, a Cameron? E non sa che mentre per quei paesi è normale, avendo altri sistemi politici, altra tradizione; per noi resta un’anomalia, che non trova giustificazione se non nella crisi politica che stiamo attraversando? Una crisi che non è determinata soltanto dalla mancanza di uomini politici di un certo valore, ma soprattutto dall’involuzione democratica che stiamo subendo per aver ceduto all’Unione pezzi di sovranità e vanificato pezzi della Costituzione.
L’Europa, per certi aspetti, va sempre più feudalizzandosi. Carlo Magno, imperatore del Sacro Romano Impero, se la vedeva coi singoli signori a cui aveva assegnato il feudo; a loro chiedeva uomini e soldi per l’occorrenza. Così l’Unione Europea ha bisogno di avere un solo interlocutore per paese, tratta solo con lui; gli altri, neppure sa che esistono. E’ una questione di funzionalità del sistema. Questo ha necessariamente sminuito il ruolo dei partiti all’interno dei vari sistemi politici e l’incidenza dei loro uomini. Di fronte a questo processo, le politiche nazionali sono in crisi e crescente è l’impoverimento politico. E’ la fase – chissà quanto lunga! – della de-ideologizzazione. Matteo Renzi, in quanto uomo politico post-ideologizzato, fa al caso. Bisogna riconoscerlo. 
Torniamo a Scalfari. Il perché di questo suo poco convincente “ravvedimento” è che “la Repubblica”, di cui Scalfari è stato fondatore e di cui tuttora è editorialista, da gennaio sarà diretta da Mario Calabresi. Il cambio di direttore in un giornale così importante, nel quarantennale della fondazione, non può essere senza cause e senza conseguenze. La causa è che il giornale deve cambiare rotta, le conseguenze è che deve attestarsi sulle posizioni di Renzi, deve diventare cioè uno strumento di potere di Renzi. Scalfari, dopo un momento di disapprovazione per non essere stato neppure interpellato sul successore di Ezio Mauro, si è adeguato. Quel che dice in proposito Paolo Mieli non conta niente. Ormai lo sanno perfino le moquettes dei suoi salotti che è il monsignore della cultura politica italiana.
Resta tuttavia il problema Renzi, liquidato dai suoi detrattori in maniera troppo sommaria, per via di quel suo proporsi che fa scarto tra il suo essere e il suo rappresentare. Non appare proprio come un ciuco in cattedra, ma come un imberbe che si comporta come il più anziano dei saggi; irrita come vedere la Gioconda coi baffi. Un fatto, prima ancora che di ragione, di pelle.
Ci sono motivi oggi per cambiare parere su Renzi, a parte le “ragioni” di Scalfari e i baffi della Gioconda? Cambiare parere forse no, ma approfondire il dissenso o aprire al consenso forse sì.
In verità, e per la mancanza di uomini forti in campo e per le circostanze di cui si diceva, Renzi va dimostrando sempre più di saperci fare; concilia l’utile del consenso con la bontà dei provvedimenti. E’ un furbo fortunato; e anche questo irrita.
Da quando promise i famosi ottanta euro a chi percepiva un reddito inferiore ad una certa soglia – promessa mantenuta, che gli procurò uno straordinario successo elettorale alle Europee del 2014 – ha continuato con la politica dell’elargizione, che sul piano pubblico ha avuto un impatto straordinariamente efficace. Renzi è l’uomo che ha fatto entrare l’esercito degli insegnanti precari, ammantando un’operazione di puro opportunismo socio-elettorale come la riforma della “buona scuola”. Ha promesso e dato 500 euro ad ogni insegnante per l’aggiornamento. Ora promette di dare 500 euro ad ogni ragazzo che compie diciott’anni. Sembra l’uomo della beneficienza, una sorta di Paperon de’ Paperoni improvvisamente convertito allo scialo.
Ma quali le ragioni vere di tanta prodigalità? Anzitutto i soldi non ce l’ha e per averli sta spogliando il paese di tutto: chiude province, ospedali, reparti ospedalieri, tratte ferroviarie, tribunali, corti d’appello, declassa porti, mette in crisi strutture pubbliche importanti come musei e biblioteche. Sta riducendo il paese ad uno scheletro, mentre costringe le Regioni a tagliare servizi o ad imporre tasse. In secondo luogo, appare di tutta evidenza che le sue iniziative non hanno nulla di samaritano, rispondono invece a logiche economiche. Dei sei milioni di pensionati sotto i mille euro mensili non si preoccupa; eppure si tratta di persone indigenti, di anziani malati e bisognosi di assistenza e di cure. Egli punta decisamente sui giovani e ad essi lega la ripresa economica. Ha individuato dei punti strategici, ad effetto domino, uno ricadente sull’altro. Immette denaro in certi settori della società col chiaro intento di aumentare i consumi e i…voti. L’aumento dei consumi incrementa la produzione; essa produce posti di lavoro ed assunzioni e quindi nuova moneta sul mercato. L’aumento dei voti gli consente di governare per chissà quanti anni ancora. L’esercito dei precari a scuola, ancor più delle “mance” – così le chiamano i suoi avversari dell’opposizione –, è il segno di questa politica. La scuola renziana può essere solo peggiore di quella precedente. L’anno scolastico è da poco iniziato e già sono emerse le prime falle organizzative.

Quel che conta per Renzi è che ci sono centinaia di migliaia di consumatori e di elettori in più. La sua è una politica che abbaglia ma non illumina; speriamo che non accechi.