Il cosiddetto decreto
salva-banche adottato dal governo il 22 novembre scorso è un capolavoro di
italianità. Di fatto ha dichiarato fallite quattro banche (Banca Popolare dell’Etruria
e del Lazio, Banca Marche, Carichieti e Cassa di Risparmio di Ferrara) per
poter salvare – hanno detto quelli del governo – i correntisti e migliaia di
posti di lavoro. Salvare cioè la parte sana di quelle banche tagliando e
buttando quella malata. Peccato che nella parte malata c’erano 140.000
risparmiatori, i quali hanno perso 430 milioni di Euro. Pare che 12.500 di essi
non hanno speranza alcuna di recuperare i soldi avendo investito in
obbligazioni subordinate.
Addentrarsi nel complicato mondo
della finanza, delle azioni, dei titoli, delle quote, delle obbligazioni
subordinate e di altre finanziarità, è arduo – a quanto è dato capire – perfino
per gli esperti. Tra i risparmiatori vittima del fallimento delle suddette
banche ci sarebbero, infatti, perfino dei loro dipendenti, dei funzionari, che
avrebbero dovuto sentire la puzza di bruciato prima dell’incendio.
L’assurdità della manovra del
governo sta nel fatto che le istituzioni preposte ad impedire il fallimento,
ovvero a che la situazione giungesse al fallimento, Banca d’Italia e Consob
(Commissione Nazionale per le Società e la Borsa) dipendono dal governo e
avrebbero dovuto tenere sotto controllo la situazione per impedire che
accadesse quello che poi è accaduto. Insomma il governo ha fatto fallire col
suo decreto salva-banche le banche che avrebbe dovuto impedire che fallissero.
E’ la democrazia, bellezza! Pur
non essendo un fanatico della democrazia, direi: è l’Italia, bellezza! Ma come
possono accadere cose simili senza che alla fine ci siano dei responsabili ai
quali far pagare le colpe del disastro? A dare colore, tipicamente italico, c’è
che la Banca dell’Etruria aveva come vice-presidente il padre del Ministro per
le Riforme Maria Elena Boschi e tra i funzionari di vertice della banca il
fratello della Boschi e tra i dipendenti la cognata (della Boschi sempre).
Oggi quelli del governo se ne
escono con la Commissione parlamentare d’inchiesta, istituto che non ha mai
combinato nulla di buono in Italia; come se l’istituzione di questa commissione
fosse la panacea di ogni male.
I cittadini devono sapere che una
banca fallisce come una qualsiasi azienda: spende soldi che non riesce a far
rientrare. Queste banche hanno prestato danaro ad imprenditori amici, senza
accertarsi delle loro condizioni di solvibilità e di restituzione. A questo
s’aggiunga pure qualche altra spesa eccessiva, come assunzioni di personale o
investimenti fallimentari. La Banca d’Italia e la Consob avrebbero dovuto
controllare e intervenire. Cosa che hanno fatto quando ormai le gatte erano
gravide e non c’era più nulla da fare, se non commissariarle e accelerare il
fallimento, prima che entrasse in vigore la nuova norma di adeguamento comunitario
col 2016, il cosiddetto bail-in, in base al quale sono le stesse banche a tirar
soldi per salvare le banche in difficoltà o fallite, non più lo Stato. Se non
ci fosse stato il decreto governativo del 22 novembre scorso che ha stabilito
in 2,3 miliardi di Euro il fondo per salvare le quattro banche, di soldi nel
2016 ne sarebbero occorsi molti di più, circa 13 miliardi.
Un pasticcio che è già complicato
raccontare. Tagliamo il nodo gordiano riportando la questione nella sua normalità,
che uno Stato serio dovrebbe garantire.
Le banche non sono dei casinò
dove si va a giocare, col rosso e col nero: si punta e si rischia, si perde e
si vince. Le banche sono degli istituti garantiti in cui un cittadino va a
mettere al sicuro i risparmi di una vita. Si dà il caso, invece, che quando un
risparmiatore va in banca a depositare i suoi soldi, incontra un funzionario, un impiegato che gli
dice: ma perché questi soldi non li metti a frutto acquistando titoli, azioni o
obbligazioni? Così alla fine dell’anno invece di una miseria di interessi
potrai avere molto di più. Immagino che l’altro obietti: ma siamo sicuri che
sarà così? Sicuri? Replica il bancario, certissimi!
Più o meno è questo il dialogo
che si ripete come una liturgia tra cittadino risparmiatore e bancario. Il
quale, per poter avere il premio di produzione dalla sua banca, convince il
cittadino ad investire i suoi soldi in titoli e obbligazioni.
Intendiamoci, nessuno vuole
criminalizzare questi signori. Non sono essi che concedono prestiti ad amici
che non restituiscono poi i soldi e fanno fallire la banca. Sono i loro
superiori. Essi, però, finiscono per essere complici involontari – almeno così
ci piace pensare – perché, se no, saremmo davvero nell’ambito di vere e proprie
organizzazioni a delinquere.
Complicità involontarie, prestiti
avventati, intrecci politici, autorità disattente o interessate costituiscono
un intreccio diabolico, dalle cui spire i cittadini vengono soffocati. Che oggi
qualcuno cerchi di buttare la colpa agli stessi cittadini, tacciandoli di consapevole
azzardo e perciò vittime di se stessi, è davvero enorme.
Il rischio oggi è grosso. I cittadini, infatti, stanno perdendo fiducia
nel sistema bancario e pensano davvero di cucire i soldi risparmiati nel
materasso, trasformando danaro attivo in “pecunia otiosa”. Se tanto dovesse
verificarsi sarebbe la fine del progresso e la morte della società della
produzione e dei consumi. La “pecunia otiosa” infatti è tipica delle società
povere e chiuse, quali erano quelle del medioevo, quando, in mancanza di
danaro, i commerci avvenivano nella corte e col baratto.
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