domenica 27 aprile 2014

Due Papi, due Santi, una Chiesa


Si può scherzare coi Santi? Io credo di sì, perché i Santi sono buoni, capiscono e non sono vendicativi. Invece non conviene scherzare coi fanti, che per stare nel motto sono i loro seguaci, che non capiscono, sono permalosi e se possono te la fanno pagare. Mettiamola così, allora: dai Santi mi guardo io; dai fanti mi guardi Iddio!
Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II oggi, domenica 27 aprile 2014, sono canonizzati, santi a tutti gli effetti. Ora bisogna chiamarli San Giovanni e San Giovanni Paolo, meglio San Gianpaolo per economia di fiato. Il Cardinal Martini, dal luogo in cui si trova, deve parlare con rispetto del papa polacco, nei confronti del quale, chiamato a dare la sua testimonianza nel processo di santificazione,  espresse un parere negativo. A suo dire, non meritava di diventare santo perché nel corso del suo lungo pontificato avrebbe fatto degli errori e non avrebbe saputo tenere rapporti e distanze con talune personalità del secolo poco raccomandabili – il dittatore cileno Pinochet, tanto per fare un nome –; insomma si sarebbe distinto di più come uomo di politica e di potere che come uomo di chiesa e di santità. Ma un santo-santo, per la causa santa, deve anche avere rapporti con Satana. E siccome la santificazione è come una sentenza passata in giudicato, il Cardinal Martini, se pure avesse ragione, dovrebbe tener conto della inappellabilità delle decisioni di Santa Romana Chiesa, ispirata dallo Spirito Santo.
Giovanni XXIII, il Papa buono, nonostante il breve pontificato, 1958-1963, impresse una svolta decisiva alla Chiesa, non solo con il Concilio Vaticano II, continuato dopo la sua morte da Paolo VI, ma anche con una serie di gesti di chiara significanza politica. Fu il Papa che ruppe una certa consuetudine. Si avvicinò alla gente, alla quale seppe sempre parlare con parole di tenerezza e di poesia – celebre il discorso della carezza e della luna – in un modo semplice, di immediata comprensione. Si definì un “sacco vuoto” che poi lo Spirito Santo avrebbe riempito. La gente lo sentì vicino, come mai in precedenza era accaduto ad un papa. Tanto più che il suo predecessore, Pio XII, era stato la rappresentazione della distanza anche quando scendeva dal soglio per incontrare la gente, come in occasione dei bombardamenti al quartiere di San Lorenzo a Roma il 19 luglio 1943. Quando Pio XII apriva le braccia e guardava al cielo sembrava volesse assumere la posizione del Crocifisso o giungere da un capo all’altro del mondo in un gesto ecumenico grandioso. Era coltissimo, parlava una dozzina di lingue. Avrà faticato lo Spirito Santo a trovare un po’ di spazio per metterci qualcosa. Era distante dal cuore della gente. Ma sarà santo pure lui, perché i papi seguono la tradizione degli imperatori romani, ascendono alla gloria dei cieli come i Cesari a quella dell’Olimpo. 
Ma fu anche Giovanni XXIII un papa politico, non meno politico di Pio XII, benché di orientamento decisamente opposto. Dove uno si era caratterizzato per cultura e diplomazia, l’altro si caratterizzò per il suo modo di fare alla buona nell’immediatezza del problema da risolvere, fosse un conforto ai carcerati o un appello ai potenti della Terra per scongiurare la guerra. A Russia – gli disse la figlia di Kruscev che andò a fargli visita dopo la crisi di Cuba – ti chiamano il Papa contadino. Doveva proprio piacere ad uno come Kruscev Giovanni XXIII; come doveva piacere a John Kennedy, il presidente americano della Nuova frontiera. Questi tre uomini ebbero la ventura di vivere e di operare per qualche situazione insieme, tutti e tre funzionali ad un nuovo rapporto tra gli Stati e tra le classi sociali, capaci di rompere col passato.
Giovanni Paolo II è stato il grande papa che ha traghettato il Novecento dall’uno all’altro secolo, non solo e non tanto in senso temporale, 1978-2005, ma anche e soprattutto in senso politico. E’ stato l’iniziatore della serie dei papi stranieri. Lui, polacco, ha contribuito ad abbattere il regime comunista, a mettere in crisi l’impero sovietico, a restituire all’Europa quell’unità geopolitica che la spartizione di Jalta nel dopoguerra aveva fortemente messo in discussione. Non solo la riunificazione tedesca con l’abbattimento fisico e assai più simbolico del Muro di Berlino, ma anche il recupero all’Europa di terre cristiane ed europee in un processo che è tuttora in corso come i fatti drammatici dell’Ucraina dimostrano.
Questi due papi, ora santi, pur nella loro distanza ideologica, l’uno più spostato a sinistra, l’altro più spostato a destra, per usare categorie profane, hanno reso all’umanità in momenti diversi dei servigi straordinari. La visione della Chiesa che ha bisogno di scelte, apparentemente opposte, ma sempre votate all’unico bene comune, si è affermata con questi due pontefici, a riproporre quella bellissima immagine di San Francesco e di San Domenico, celebrati nel Paradiso da Dante Alighieri. Santi diversi, ordini diversi, fanti diversi, ma tutti utili alla chiesa e al mondo.
Spesso si dice che il Papa non fa politica. Recentemente Francesco ha respinto l’accusa di comunismo, ma non v’è dubbio alcuno che la politica la fanno, sanno di farla, per raggiungere obiettivi che nel momento in cui la fanno ritengono importanti per gli uomini e per gli stati. Forse non condividono il linguaggio comune: loro operano per il bene senza porsi dei problemi di etichettatura; fanno quello che noi chiamiamo politica.

Che poi per farli santi si abbia bisogno di inventarsi dei miracoli, senza cui non ci può essere santificazione, è un fatto che riguarda la percezione mondana, popolare, che parla un linguaggio e capisce quel linguaggio, fuori del quale non c’è santità né antisantità. I veri miracoli questi due papi li hanno fatti non guarendo da malattie chi per la scienza medica doveva morire senz’altro, ma dando al mondo la speranza di una prospettiva, aprendo sentieri nuovi, contribuendo con altri grandi della Terra a risolvere dei problemi. I veri miracoli sono questi. E per questi non c’è bisogno di scomodare testimoni, postulatori o avvocati del diavolo. Basta vedere cosa hanno lasciato dietro di sé. E più il tempo si allontana dalla loro esperienza terrena e più gli effetti dei loro “miracoli” si accendono, perché il tempo è olio alla lampada dei grandi. 

mercoledì 23 aprile 2014

Dal "ghe pensi mi" del Cavaliere al "qui comando io" del paggio Renzi


Renzi potrà risolvere tutti i problemi italiani e, a sentire lui, anche quelli europei e probabilmente del restante universo. Se accadesse ne saremmo tutti lieti. Ciò non toglie che resta un venditore di chiacchiere, un inventore di trovate, un arrogante contradaiolo fiorentino. Ne spara una al secondo: la sinistra che non si rinnova diventa destra. Contro i burocrati useremo le ruspe.
Una delle sue ultime trovate è la candidatura di cinque donne a guidare le cinque liste alle Europee. La par condicio ormai è roba da rottamati: di Bersani, di Cuperlo, di Civati, di D’Alema. Renzi ha ribaltato tutto: niente uomini. Non servono. Le donne vanno meglio. E poi, non hanno fatto gli uomini quello che hanno voluto e stravoluto per millenni? Ora basta, ora tocca alle donne fare quello che vogliono e che stravogliono; della serie renziana “un po’ per uno”: ieri toccava a te, oggi tocca a me, ieri soffrivano i poveri oggi tocca ai ricchi; ieri soffrivano i lavoratori ora tocca alle banche; ieri soffrivano gli elettori ora devono soffrire gli eletti, col motto aggiornato: heri mihi, hodie tibi. Ah! ah! ah!
Ma le donne, che non smettono mai di essere…donne, hanno già capito che l’abbraccio di Renzi è quanto di più antifemminista si possa escogitare. Esse infatti sanno di essere strumentalizzate. Si spera che almeno continuino ad essere donne e di fare quello che è nella loro natura: tradire.
L’operazione Renzi ha in sé un micidiale virus maschilista: voi donne non valete un cazzo finché non viene un maschio e vi mette dove vuole lui, non già per fare un favore a voi, ma per affermare se stesso. C’è in Renzi un latente complesso di maschilismo. Fosse islamista nell’harem lui non permetterebbe di entrare neppure ad un eunuco; e scaccerebbe perfino i gatti maschi. Non si sa mai!
Chiacchiere a parte – ormai si fa anche analisi politica con le chiacchiere – Renzi si rivela sempre più un clone di Berlusconi; come il Cavaliere di Arcore anche lui non vuole gente che gli faccia ombra o che in prospettiva possa proporsi in alternativa. Berlusconi ogni tanto ne trovava uno, l’ultimo è quel Toti, che davvero non si capisce che mestiere faccia. Così Renzi. Guardate chi gli sta attorno, nessuno! Si è circondato di nullità. Si può dire che anche le nullità crescono, Alfano docet; ma Renzi è uno che non si pone troppe domande sul futuro. Chi vuol esser lieto sia – diceva un suo vecchio di qualche secolo fa suo concittadino – del doman non v’è certezza. Canto carnacialesco! Sissignori, perché oggi in Italia c’è qualcosa di diverso della sfilata di Bacco ed Arianna di Lorenzo il Magnifico?
Il quadro è completo. Grillo infuria. Ormai cavalca perfino il secessionismo veneto. E’ difficile capire che cosa Grillo preveda per il dopo disastro della più grave destabilizzazione del Paese. Se dovesse vincere il Movimento 5 Stelle, che cosa potrebbe accadere? Forse niente, perché si tratta di Europee; ma forse tutto, perché comunque sarebbe un risultato politico devastante: l’Italia affidata ad un comico che non riesce più a distinguere la scena dalla realtà e si diverte un mondo sapendosi ripreso dalla televisione perfino quando finge di nascondersi.
L’aspetto più inquietante è che il mondo politico è annichilito. Intorno a Renzi nel primo cerchio consenso assoluto dei suoi; nel secondo cerchio timide prese di posizione della cosiddetta sinistra del Pd; nel terzo cerchio si agitano senza direzione e senza prospettive i “dannati” di quello che fu il centrodestra, vecchio e nuovo; nel quarto cerchio gli intellettuali e i giornalisti fanno finta di niente; nel quinto istituzioni importanti con le bocche cucite.
Si fa strada la persuasione che alla fine uno come Renzi, smargiasso e maleducato, irresponsabile e venditore di fumo, è utile alla causa, è l’uomo al posto giusto nel momento giusto. Chi si sarebbe mai sognato di mettere sotto pressa come una volta si faceva con la pasta delle olive per trarne l’olio, l’intero mondo politico ed economico dell’Italia? Renzi lo ha fatto. I miliardi per colmare la spesa della riduzione dell’Irpef a dieci milioni di italiani con reddito inferiore ai mille e cinquecento euro (i famosi 80 euro in più in busta paga) li ha trovati spremendo qua e là, violando quelli che sono stati sempre considerati diritti acquisiti inattingibili. E guai a chi si lamenta! I manager minacciano di lasciare l’Italia? Prego – dice Renzi – togliete pure il disturbo. Le banche si lamentano per i prelievi ordinati dal governo? Zitti – intima Renzi – pensate a quanto vi è stato regalato in passato. E così, di mano in mano, per ogni fava prende due piccioni: uno è quello di fare quello che intendeva fare e l’altro il consenso popolare, giacché il popolo è sempre entusiasta quando trova un giustiziere dei ricchi, dei pescicani, dei grandi burocrati, di quelli che nell’immaginario popolare succhiano il sangue alla povera gente.
Senonché in Italia, paese dove i Cola di Rienzo, i Savonarola e i Masaniello sono di casa, i tipi alla Renzi prima o poi finiscono come l’abbacchio al forno (Trilussa per Giordano Bruno) perché si scontrano coi poteri forti, non cosiddetti forti ma forti davvero; e a quel punto il popolo, fino a quel momento osannante, si trasforma in giustiziere del capopopolo caduto in disgrazia.

Da simili situazioni il nostro Paese esce male, con la rafforzata immagine di paese di avventurieri, di improvvisatori, di stravaganti. I commenti di alcuni uomini politici europei, all’indomani delle votazioni del 2013, furono che in Italia avevano vinto un pregiudicato (Berlusconi) e un comico (Grillo). Facciamo un’ipotesi neppure tanto remota: se dovesse vincere Grillo, con quali prospettive lo mandiamo a rappresentarci in Europa, dalla Merkel, da Cameron, da Hollande? E con quali reazioni da parte dei capi di Stato e di governo europei e mondiali? Già ne abbiamo subite tante con Berlusconi; già fatichiamo a vedere Renzi spupazzare negli incontri internazionali. Con Grillo, che accadrebbe?  Riderebbero, e come sempre a danno dell’Italia.         

domenica 20 aprile 2014

Napolitano-De Bortoli: senso di una combine


Sul Corsera di venerdì, 18 aprile, in prima pagina campeggia una lettera del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al direttore del quotidiano milanese Ferruccio De Bortoli «un anno dopo la rielezione». Su tutte e sei le colonne un titolo che riprende in sintesi il pensiero di Napolitano: «Ho pagato un prezzo alla faziosità ma il bilancio è positivo».
Dunque la risposta precede la domanda, che, invece, è a pag. 2. Ci sta, se la risposta è quella del Presidente della Repubblica. Ci sta di meno se si riconduce il fenomeno alla sua logica, dovendo la risposta seguire e non precedere la domanda. Qui non è solo questione d’impaginazione, ma di un combinato tra la Presidenza della Repubblica e il maggior quotidiano nazionale per dare una risposta non alla domanda del direttore ma a quella di una parte del Paese, che sale in maniera sempre più rumorosa. Il direttore del Corsera si è prestato alla messa in scena. Si consideri che la sera precedente, giovedì, 17 aprile, su La Sette, trasmissione “Otto e Mezzo” di Lilly Gruber, c’era stato un animato confronto tra il prof. Paolo Becchi, considerato l’ideologo non riconosciuto del Movimento 5 Stelle, e il prof. Cacciari, noto filosofo e già sindaco di Venezia, difensore d’ufficio di Napolitano e del nuovo corso politico impersonato da Matteo Renzi. Becchi è peraltro autore di un recentissimo libretto edito da Marsilio, «Colpo di Stato permanente. Cronache degli ultimi tre anni», in cui sostiene che in Italia c’è un perdurante colpo di Stato che ha in Napolitano l’ideatore e l’esecutore.
Ma veniamo al succo: «Caro Direttore, a distanza di un anno…». Già questo indica che l’iniziativa è partita dal Presidente Napolitano per fare il punto dopo un anno dalla sua rielezione alla Presidenza della Repubblica. Quale il pensiero? Napolitano è convinto di aver operato nel giusto servendosi dei mezzi più leciti e rigorosi, pur considerando l’eccezionalità del momento politico. Non entra nel merito di nessun addebito specifico, ma respinge in blocco ogni critica, bollandola come «faziosità».
Non è la prima volta che Napolitano, più che respingere, stronca le critiche che gli vengono mosse. L’accusa più pesante è di essere stato in questi ultimi tre anni lo stratega unico della politica italiana. A partire dal giugno 2011, come ha dimostrato Friedman col suo libro «Ammazziamo il gattopardo» e come rivendica Becchi, il quale si ritiene il primo ad aver denunciato il “colpo di Stato”, Napolitano ha di fatto surrogato ogni altra istituzione latitante, ed ha operato in assoluta libertà d’iniziativa, attento solo a non urtare la suscettibilità di quel potere senza volto che è ormai il “governo europeo” dell’Euro. 
Con tutto il rispetto crediamo che Napolitano non possa essere esente da accuse, in parte fondate e in parte esagerate. Probabilmente non è contento della situazione in cui si è suo malgrado ritrovato; ma, da autentico politico consumato, non si è sottratto a responsabilità difficili e pesanti. Ecco, più che respingere o stroncare le accuse, dovrebbe dare spiegazioni. Troppe nubi si sono addensate sulla sua presidenza, parte delle quali ereditate, come la famigerata presunta trattativa Stato-mafia.
Gli concediamo perciò le attenuanti generiche, ossia l’aver operato in sostituzione obbligata di una classe politica peggio che inesistente, squalificata e inerme; ma non quelle specifiche delle singole scelte. Se gli va dato atto di essere rimasto solo a far fronte ad una gravissima emergenza, non gli si può riconoscere anche l’esclusività degli atti compiuti quasi fossero gli unici che poteva compiere. Atti che – opinione diffusa, e non solo di giornalisti e polemisti, ma anche di costituzionalisti di vaglia – sono stati per alcuni delle «forzature» e per altri «borderline».
Napolitano in questi ultimi tre anni è stato lasciato solo e se l’è cavata egregiamente, ma se tanto è vero – ed è vero! – bisogna anche ammettere che l’Italia è un paese disastrato – politicamente, economicamente, finanziariamente ed eticamente – alla mercé di decisioni straniere, irresponsabili, ancorché filtrate e garantite dalla massima carica dello Stato, che invece responsabile è.  
Insomma se dopo l’anomalia Monti, ci sono state quelle di Letta e soprattutto di Renzi non si può non ammettere che la democrazia italiana è a corto di ossigeno. Come può essere normale che uno diventi capo del governo senza essere passato da una consultazione elettorale? Come può essere normale che uno senza credenziale alcuna, se non quella di un continuo sproloquiare in abbondanza di minacce e ingiurie, possa conquistare la massima carica dell’esecutivo secondo un percorso di normalità? Si può passare al vaglio atto dopo atto ogni iniziativa di Napolitano e magari constatare che ognuno è in sé ineccepibile sotto il profilo costituzionale, ma l’esito ottenuto è democraticamente incomprensibile e perciò inaccettabile. E siccome il risultato di più atti normali non può essere che normale, nel momento in cui si constata che comprensibile quanto meno non è, vuol dire che il percorso ha avuto dei lati oscuri, che ha avuto passaggi viziati, che è maturato in un ambiente torbido e degenerato.
Di questa degenerazione politica italiana Napolitano, in quanto Presidente della Repubblica, non ha colpa specifica alcuna; ma non v’è dubbio che la gestione della degenerazione nel tentativo di recuperare la condizione perduta è da attribuirla alle sue scelte. Merito? Demerito? Bisognerebbe prima sapere e capire.

E’ su questo che si dovrebbe aprire una discussione seria e profonda, senza accuse sommarie alla Becchi o alla Travaglio, ma neppure senza incensamenti acritici che ricordano Plinio il Giovane e il suo Panegirico di Traiano, ovvero la risposta a calco di De Bortoli alla domanda autoapologetica di Napolitano.

domenica 13 aprile 2014

Friedman e il gattopardo da ammazzare


Ci sono alcune ingenuità nel libro di recente pubblicato dal giornalista statunitense, esperto di economia Alan Friedman, da anni residente in Italia, Ammazziamo il gattopardo (Milano, Rizzoli, 2014). La prima è proprio nel titolo che è poi intenzionale. Ma il gattopardo che dovremmo ammazzare noi italiani siamo noi stessi. Dunque una sorta di suicidio collettivo, dato che è improbabile che in Italia vi siano non-gattopardi disposti ad ammazzare i gattopardi; ovvero una guerra di tutti contro tutti, perché tutti pensano che i gattopardi siano sempre gli altri.
La celeberrima frase «dobbiamo cambiare tutto perché tutto rimanga com’è» è importante in sé; ma lo sarebbe di meno se a pronunciarla nel celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa fosse stato il vecchio Principe di Salina. La si sarebbe potuta prendere per la saggezza di un anziano aristocratico che ne ha viste tante nella vita. Invece no, la pronuncia il nipote, il giovane Tancredi che partecipa ai cambiamenti risorgimentali con la convinzione che bisogna farlo “perché tutto rimanga com’è”.
Si può discutere a lungo sul significato di una simile filosofia di vita, che, a ben riflettere, non è solo siciliana, ma di un intero popolo, dalle Alpi al Lilibeo, se non vogliamo proprio riconoscere che è una categoria universale. Del resto se vogliamo beneficiare del sole e della luna, l’eterno stato di cose, dobbiamo seguirne i percorsi, voltandoci ora da una parte ora dall’altra.
Passando al piano concreto-esistenziale, chi mette a rischio la propria vantaggiosa posizione per cambiamenti veri ma dagli esiti incerti? E se il cambiamento, in questo caso finto, assicura la conservazione, chi non è disposto a farlo? Non è che l’abbiano capito solo i siciliani; la sicilianità dell’assunto è nella consapevolezza e nel dirlo con cinico compiacimento.
Nel libro di Friedman il gattopardo è un po’ banalizzato e ridotto alla stregua di uno che fa finta di voler cambiare per conservare l’inconservabile, l’inutile, perfino il dannoso. Oggi in Italia bisogna cambiare, ma cum grano salis, magari pure con qualche strappo, ma senza avventatezze e gesti demiurgici. Il documento sottoscritto da Zagrebelsky, Rodotà e compagni sulle modalità governative di Renzi per molti aspetti è condivisibile. Zagrebelsky e Rodotà sarebbero i gattopardi e Renzi no? Bisognerebbe piantarla con le esemplificazioni. 
Noi italiani siamo culturalmente incapaci di operare una vera rivoluzione – questo è assodato – di più, non riusciamo nemmeno a fare riforme radicali e coerenti. E’ un bene, è un male? Si può discutere a lungo. Siamo come un albero dal tronco solido, su cui possiamo innestare qualsiasi varietà compatibile di pianta ma alla fine i nuovi virgulti vengono deprivati di linfa dai polloni che rispuntano più in basso sul vecchio tronco e prendono il sopravvento. Non direi che è un castigo di Dio o della Natura; dico che siamo fatti così e che per sopravvivere ci dobbiamo regolare di conseguenza. Come? Come fanno i contadini, i quali ripassano a togliere i polloni per far meglio crescere i nuovi virgulti.
Torniamo al libro. L’aspetto più importante di questo libro sotto il profilo cronachistico e perciò a futura storiografia è quello relativo a Friedman, il quale per la sua autorevolezza scientifica e per l’essere uno straniero, ha goduto di confidenze che i soggetti interessati non avrebbero mai fatto ad un giornalista italiano; testimonianze che illuminano ciò che prima si poteva intuire, ossia che il passo indietro di Berlusconi e l’incarico a Monti nel novembre del 2011 fu un piano risalente ad almeno cinque mesi prima, qualcosa che i costituzionalisti definiscono «forzatura», un’azione borderline, che forse è esagerato definire golpe, come altri senza tanti scrupoli hanno detto. Testimonianze del calibro di De Benedetti, di Prodi e di Monti stesso non lasciano dubbi. Per poco nella rete di Friedman non cascava pure Napolitano, il quale prudentemente declinò la richiesta di un’intervista.
Testimonianze che chiariscono i vari ruoli, soprattutto quello di Passera, il quale nel documento economico che gli era stato richiesto da Napolitano aveva previsto la patrimoniale, che avrebbe prodotto ottantacinque miliardi di euro. Cosa, poi, non accaduta per l’opposizione di Berlusconi.
Friedman si spoglia dell’osservatore scientifico e indossa le armi del combattente per ammazzare il gattopardo, proponendo una ricetta in dieci punti, che spiega uno per uno. E qui dimostra la sua ingenuità, non tanto perché per ogni punto importante presuppone condizioni che in realtà non esistono, quanto perché legge tutto in maniera ottimistica, come se non avesse a che fare con una realtà complicatissima, come la nostra.
Carattere piuttosto gioviale e diretto Friedman non nasconde antipatie e simpatie. Le prime nei confronti di D’Alema, di Letta, di Casini, di Alfano, di ex democristiani ed ex comunisti in genere, nei quali ravvisa i gattopardi; le seconde, anche se non esplicitate, nei confronti di Berlusconi e in ultimo di Renzi, a cui concede un’apertura di credito francamente eccessiva.

Stupisce che un americano, così ligio alle leggi dello Stato, nulla dica sulla posizione quanto meno anomala di Renzi. Che questo giovinotto si trovi al potere, in condizioni di sostanziale vantaggio personale, senza aver mai superato una prova elettorale, solo in seguito ad un’operazione di partitocrazia degenerata e ridotta  a “quattro amici al bar”, a Friedman sembra non interessare nulla. Per lui Renzi è come se fosse stato investito dalla più rigorosa procedura democratica. A lui pensa si debba affidare la spada di Sigfrido per ammazzare il drago-gattopardo. Cui Friedman si pregia di aver dato con questo libro il suo contributo. 

domenica 6 aprile 2014

La Chiesa di Francesco tra il dire e il fare


Oggi, a distanza di poco più di un anno dall’elezione al soglio pontificio si può tentare di vedere Papa Francesco oltre quello che appare. Finora i media ci hanno mostrato: Santa Marta, Piazza San Pietro, giri in papamobile, baci e abbracci di bambini, invalidi, vecchiette, borse portate personalmente a mano, uso di utilitarie, immagini in varietà di posizioni – l’ultima inginocchiato di spalle al confessionale – politici convocati a messa, conti pagati di tasca propria e tutto quell’insieme di ostentazioni che hanno creato in pochi mesi il mito del Papa innovatore. 
La prima impressione è che Papa Francesco abbia sempre una gran voglia di apparire e di piacere (verbo). Vanità che è rubricabile come peccato di lussuria. Il buon Papa Ratzinger ha detto che il Signore ha voluto questo e che lui per questo era inadeguato e dunque ha fatto “il gran rifiuto”. Possibile che il Signore volesse un Papa lussurioso? Bah!
C’è poi un altro genere di ostentazione, che è quello delle affermazioni clamorose, del consenso subito. «Chi sono io per giudicare?»; «L’essere umano è per la chiesa come un malato per l’ospedale: che fai ad un ricoverato, gli chiedi la sua fede o non intervieni subito a curarlo, a guarirlo?»; «Dicono che sono comunista perché sto coi poveri, ma i poveri sono il cuore del vangelo». Frasi che non possono passare inosservate. 
Così anche coloro che non sono in regola coi sacramenti trovano spalancate le porte del Signore. Di fronte a simili prese di posizione, come prima cosa, si deve onestamente riconoscere che è in atto non direi una riforma ma una revisione dottrinale, così alla buona, a spizzichi e mozzichi. Che, aggiunta all’ormai acquisita consapevolezza che tutte le religioni sono uguali, espone il cattolicesimo a traguardi importanti ma incerti.
In seconda battuta non si può non rilevare che anche qui c’è da parte del Papa una gran voglia di stupire. Quando si pensa al rifiuto di giudicare da parte della chiesa, che da sempre si è posta come magistero, viene di pensare ad un professore che a scuola mette a tutte le verifiche scritte e orali dei suoi alunni un bel dieci e al Preside che gli chiede ragione dice: e chi sono io per giudicare? In terza battuta, si coglie l’inevitabile ricaduta politica di certe affermazioni, che vanno in direzione della sinistra, sia a quella operaia, dei poveri e disoccupati, sia a quella radical-chic che vuole tutta una serie di liberalizzazioni: matrimoni gay, eutanasia, procreazione assistita, sacerdozio femminile, abolizione dei sacramenti attraverso un loro progressivo e indolore svuotamento. 
Insomma, questo Papa ha un confine mobile tra ciò che è il compito tradizionale e istituzionale della Chiesa e quello che lui si pone, per cui ogni volta ti sorprende. Difficile dire fino a che punto sia del tutto spontaneo e incurante delle ricadute o consapevole degli effetti religiosi e politici delle sue affermazioni e dei suoi comportamenti. Certo è che sta riposizionando la Chiesa, in conseguenza di un’idea della Chiesa fondata su una parte, non più in rappresentanza di tutto il corpo sociale ed ecumenico. La Chiesa dei poveri dice. E che vuol dire: che vorrebbe un’umanità di morti di fame?
La storia, che è sempre il riferimento ineludibile per trovare ragioni e spiegazioni, ci dice che la Chiesa non si è mai schierata con una parte sociale. La Chiesa, nel corso dei secoli, ha dimostrato di essere dei poveri e dei ricchi, dei deboli e dei forti, degli ignoranti e degli intellettuali. Ed ha avuto ragione, perché senza i ricchi-forti-intellettuali, i poveri-deboli-ignoranti sarebbero stati molto peggio e mai si sarebbero mossi dalle posizioni preistoriche. E’ la storia che produce le differenze sociali. Il vangelo vale per tutti; nei suoi contenuti il ricco e il povero si ritrovano purché obbediscano alle leggi del Signore Gesù Cristo figlio di Dio. Se i poveri sono il cuore del vangelo, i ricchi quale organo anatomico occupano?
Chi sceglie di stare da una parte, con una parte, lo fa o in buona fede o per calcolo. Escludo che un Papa lo faccia in buona fede; lo fa per calcolo. Ma chi ragiona e opera per calcolo è il politico, che calibra la sua azione in difesa di una parte piuttosto che di un’altra, nella consapevolezza di una necessaria dialettica per raggiungere degli equilibri. Chi si prefigge di portare una parte a prevaricare sull’altra non sta col vangelo, non sta con la democrazia. Non so se Papa Francesco sia o meno comunista – non mi sorprenderebbe se lo fosse – ma dovrebbe sapere che una sola ideologia nella modernità ha esplicitamente dichiarato di proporsi come obiettivo la dittatura di una parte sull’altra; e questa è la dittatura del proletariato. Sappiamo tutti che cosa è stato.
Ma Papa Francesco non stupisce solo per quello che dice e per quello che fa; stupisce anche per quello che non dice e per quello che non fa. Per esempio, non convince i sacerdoti ad indossare l’abito talare e ad uscire dalla chiesa per stare tra la gente, nella società, come una volta. Se è veramente convinto di quello che dice a proposito di povertà e di Chiesa povera, si liberi dello Ior, che è una banca e come tale deve rispondere, più che al Dio uno e trino della fede cristiana, al dio uno e quattrino della fede finanziaria. Se fosse veramente convinto della povertà della Chiesa dovrebbe rinunciare all’otto per mille.

Papa Francesco si è troppo secolarizzato e politicizzato, dimostra di aver appreso l’arte tutta italiana degli annunci ad effetto: a dire le cose che poi non fa e a fare le cose che non dice.