domenica 13 aprile 2014

Friedman e il gattopardo da ammazzare


Ci sono alcune ingenuità nel libro di recente pubblicato dal giornalista statunitense, esperto di economia Alan Friedman, da anni residente in Italia, Ammazziamo il gattopardo (Milano, Rizzoli, 2014). La prima è proprio nel titolo che è poi intenzionale. Ma il gattopardo che dovremmo ammazzare noi italiani siamo noi stessi. Dunque una sorta di suicidio collettivo, dato che è improbabile che in Italia vi siano non-gattopardi disposti ad ammazzare i gattopardi; ovvero una guerra di tutti contro tutti, perché tutti pensano che i gattopardi siano sempre gli altri.
La celeberrima frase «dobbiamo cambiare tutto perché tutto rimanga com’è» è importante in sé; ma lo sarebbe di meno se a pronunciarla nel celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa fosse stato il vecchio Principe di Salina. La si sarebbe potuta prendere per la saggezza di un anziano aristocratico che ne ha viste tante nella vita. Invece no, la pronuncia il nipote, il giovane Tancredi che partecipa ai cambiamenti risorgimentali con la convinzione che bisogna farlo “perché tutto rimanga com’è”.
Si può discutere a lungo sul significato di una simile filosofia di vita, che, a ben riflettere, non è solo siciliana, ma di un intero popolo, dalle Alpi al Lilibeo, se non vogliamo proprio riconoscere che è una categoria universale. Del resto se vogliamo beneficiare del sole e della luna, l’eterno stato di cose, dobbiamo seguirne i percorsi, voltandoci ora da una parte ora dall’altra.
Passando al piano concreto-esistenziale, chi mette a rischio la propria vantaggiosa posizione per cambiamenti veri ma dagli esiti incerti? E se il cambiamento, in questo caso finto, assicura la conservazione, chi non è disposto a farlo? Non è che l’abbiano capito solo i siciliani; la sicilianità dell’assunto è nella consapevolezza e nel dirlo con cinico compiacimento.
Nel libro di Friedman il gattopardo è un po’ banalizzato e ridotto alla stregua di uno che fa finta di voler cambiare per conservare l’inconservabile, l’inutile, perfino il dannoso. Oggi in Italia bisogna cambiare, ma cum grano salis, magari pure con qualche strappo, ma senza avventatezze e gesti demiurgici. Il documento sottoscritto da Zagrebelsky, Rodotà e compagni sulle modalità governative di Renzi per molti aspetti è condivisibile. Zagrebelsky e Rodotà sarebbero i gattopardi e Renzi no? Bisognerebbe piantarla con le esemplificazioni. 
Noi italiani siamo culturalmente incapaci di operare una vera rivoluzione – questo è assodato – di più, non riusciamo nemmeno a fare riforme radicali e coerenti. E’ un bene, è un male? Si può discutere a lungo. Siamo come un albero dal tronco solido, su cui possiamo innestare qualsiasi varietà compatibile di pianta ma alla fine i nuovi virgulti vengono deprivati di linfa dai polloni che rispuntano più in basso sul vecchio tronco e prendono il sopravvento. Non direi che è un castigo di Dio o della Natura; dico che siamo fatti così e che per sopravvivere ci dobbiamo regolare di conseguenza. Come? Come fanno i contadini, i quali ripassano a togliere i polloni per far meglio crescere i nuovi virgulti.
Torniamo al libro. L’aspetto più importante di questo libro sotto il profilo cronachistico e perciò a futura storiografia è quello relativo a Friedman, il quale per la sua autorevolezza scientifica e per l’essere uno straniero, ha goduto di confidenze che i soggetti interessati non avrebbero mai fatto ad un giornalista italiano; testimonianze che illuminano ciò che prima si poteva intuire, ossia che il passo indietro di Berlusconi e l’incarico a Monti nel novembre del 2011 fu un piano risalente ad almeno cinque mesi prima, qualcosa che i costituzionalisti definiscono «forzatura», un’azione borderline, che forse è esagerato definire golpe, come altri senza tanti scrupoli hanno detto. Testimonianze del calibro di De Benedetti, di Prodi e di Monti stesso non lasciano dubbi. Per poco nella rete di Friedman non cascava pure Napolitano, il quale prudentemente declinò la richiesta di un’intervista.
Testimonianze che chiariscono i vari ruoli, soprattutto quello di Passera, il quale nel documento economico che gli era stato richiesto da Napolitano aveva previsto la patrimoniale, che avrebbe prodotto ottantacinque miliardi di euro. Cosa, poi, non accaduta per l’opposizione di Berlusconi.
Friedman si spoglia dell’osservatore scientifico e indossa le armi del combattente per ammazzare il gattopardo, proponendo una ricetta in dieci punti, che spiega uno per uno. E qui dimostra la sua ingenuità, non tanto perché per ogni punto importante presuppone condizioni che in realtà non esistono, quanto perché legge tutto in maniera ottimistica, come se non avesse a che fare con una realtà complicatissima, come la nostra.
Carattere piuttosto gioviale e diretto Friedman non nasconde antipatie e simpatie. Le prime nei confronti di D’Alema, di Letta, di Casini, di Alfano, di ex democristiani ed ex comunisti in genere, nei quali ravvisa i gattopardi; le seconde, anche se non esplicitate, nei confronti di Berlusconi e in ultimo di Renzi, a cui concede un’apertura di credito francamente eccessiva.

Stupisce che un americano, così ligio alle leggi dello Stato, nulla dica sulla posizione quanto meno anomala di Renzi. Che questo giovinotto si trovi al potere, in condizioni di sostanziale vantaggio personale, senza aver mai superato una prova elettorale, solo in seguito ad un’operazione di partitocrazia degenerata e ridotta  a “quattro amici al bar”, a Friedman sembra non interessare nulla. Per lui Renzi è come se fosse stato investito dalla più rigorosa procedura democratica. A lui pensa si debba affidare la spada di Sigfrido per ammazzare il drago-gattopardo. Cui Friedman si pregia di aver dato con questo libro il suo contributo. 

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