Ci sono alcune ingenuità nel
libro di recente pubblicato dal giornalista statunitense, esperto di economia
Alan Friedman, da anni residente in Italia, Ammazziamo
il gattopardo (Milano, Rizzoli, 2014). La prima è proprio nel titolo che è
poi intenzionale. Ma il gattopardo che dovremmo ammazzare noi italiani siamo
noi stessi. Dunque una sorta di suicidio collettivo, dato che è improbabile che
in Italia vi siano non-gattopardi disposti ad ammazzare i gattopardi; ovvero
una guerra di tutti contro tutti, perché tutti pensano che i gattopardi siano
sempre gli altri.
La celeberrima frase «dobbiamo
cambiare tutto perché tutto rimanga com’è» è importante in sé; ma lo sarebbe di
meno se a pronunciarla nel celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa fosse stato
il vecchio Principe di Salina. La si sarebbe potuta prendere per la saggezza di
un anziano aristocratico che ne ha viste tante nella vita. Invece no, la
pronuncia il nipote, il giovane Tancredi che partecipa ai cambiamenti
risorgimentali con la convinzione che bisogna farlo “perché tutto rimanga
com’è”.
Si può discutere a lungo sul
significato di una simile filosofia di vita, che, a ben riflettere, non è solo
siciliana, ma di un intero popolo, dalle Alpi al Lilibeo, se non vogliamo
proprio riconoscere che è una categoria universale. Del resto se vogliamo
beneficiare del sole e della luna, l’eterno stato di cose, dobbiamo seguirne i
percorsi, voltandoci ora da una parte ora dall’altra.
Passando al piano concreto-esistenziale,
chi mette a rischio la propria vantaggiosa posizione per cambiamenti veri ma
dagli esiti incerti? E se il cambiamento, in questo caso finto, assicura la
conservazione, chi non è disposto a farlo? Non è che l’abbiano capito solo i
siciliani; la sicilianità dell’assunto è nella consapevolezza e nel dirlo con
cinico compiacimento.
Nel libro di Friedman il
gattopardo è un po’ banalizzato e ridotto alla stregua di uno che fa finta di
voler cambiare per conservare l’inconservabile, l’inutile, perfino il dannoso.
Oggi in Italia bisogna cambiare, ma cum
grano salis, magari pure con qualche strappo, ma senza avventatezze e gesti
demiurgici. Il documento sottoscritto da Zagrebelsky, Rodotà e compagni sulle
modalità governative di Renzi per molti aspetti è condivisibile. Zagrebelsky e
Rodotà sarebbero i gattopardi e Renzi no? Bisognerebbe piantarla con le
esemplificazioni.
Noi italiani siamo culturalmente
incapaci di operare una vera rivoluzione – questo è assodato – di più, non
riusciamo nemmeno a fare riforme radicali e coerenti. E’ un bene, è un male? Si
può discutere a lungo. Siamo come un albero dal tronco solido, su cui possiamo
innestare qualsiasi varietà compatibile di pianta ma alla fine i nuovi virgulti
vengono deprivati di linfa dai polloni che rispuntano più in basso sul vecchio
tronco e prendono il sopravvento. Non direi che è un castigo di Dio o della
Natura; dico che siamo fatti così e che per sopravvivere ci dobbiamo regolare
di conseguenza. Come? Come fanno i contadini, i quali ripassano a togliere i
polloni per far meglio crescere i nuovi virgulti.
Torniamo al libro. L’aspetto più
importante di questo libro sotto il profilo cronachistico e perciò a futura
storiografia è quello relativo a Friedman, il quale per la sua autorevolezza scientifica
e per l’essere uno straniero, ha goduto di confidenze che i soggetti
interessati non avrebbero mai fatto ad un giornalista italiano; testimonianze
che illuminano ciò che prima si poteva intuire, ossia che il passo indietro di
Berlusconi e l’incarico a Monti nel novembre del 2011 fu un piano risalente ad
almeno cinque mesi prima, qualcosa che i costituzionalisti definiscono
«forzatura», un’azione borderline,
che forse è esagerato definire golpe, come altri senza tanti scrupoli hanno
detto. Testimonianze del calibro di De Benedetti, di Prodi e di Monti stesso
non lasciano dubbi. Per poco nella rete di Friedman non cascava pure
Napolitano, il quale prudentemente declinò la richiesta di un’intervista.
Testimonianze che chiariscono i
vari ruoli, soprattutto quello di Passera, il quale nel documento economico che
gli era stato richiesto da Napolitano aveva previsto la patrimoniale, che
avrebbe prodotto ottantacinque miliardi di euro. Cosa, poi, non accaduta per
l’opposizione di Berlusconi.
Friedman si spoglia
dell’osservatore scientifico e indossa le armi del combattente per ammazzare il gattopardo, proponendo una
ricetta in dieci punti, che spiega uno per uno. E qui dimostra la sua
ingenuità, non tanto perché per ogni punto importante presuppone condizioni che
in realtà non esistono, quanto perché legge tutto in maniera ottimistica, come
se non avesse a che fare con una realtà complicatissima, come la nostra.
Carattere piuttosto gioviale e
diretto Friedman non nasconde antipatie e simpatie. Le prime nei confronti di
D’Alema, di Letta, di Casini, di Alfano, di ex democristiani ed ex comunisti in
genere, nei quali ravvisa i gattopardi;
le seconde, anche se non esplicitate, nei confronti di Berlusconi e in ultimo
di Renzi, a cui concede un’apertura di credito francamente eccessiva.
Stupisce che un americano, così
ligio alle leggi dello Stato, nulla dica sulla posizione quanto meno anomala di
Renzi. Che questo giovinotto si trovi
al potere, in condizioni di sostanziale vantaggio personale, senza aver mai
superato una prova elettorale, solo in seguito ad un’operazione di
partitocrazia degenerata e ridotta a
“quattro amici al bar”, a Friedman sembra non interessare nulla. Per lui Renzi
è come se fosse stato investito dalla più rigorosa procedura democratica. A lui
pensa si debba affidare la spada di Sigfrido per ammazzare il drago-gattopardo.
Cui Friedman si pregia di aver dato con questo libro il suo contributo.
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