domenica 6 aprile 2014

La Chiesa di Francesco tra il dire e il fare


Oggi, a distanza di poco più di un anno dall’elezione al soglio pontificio si può tentare di vedere Papa Francesco oltre quello che appare. Finora i media ci hanno mostrato: Santa Marta, Piazza San Pietro, giri in papamobile, baci e abbracci di bambini, invalidi, vecchiette, borse portate personalmente a mano, uso di utilitarie, immagini in varietà di posizioni – l’ultima inginocchiato di spalle al confessionale – politici convocati a messa, conti pagati di tasca propria e tutto quell’insieme di ostentazioni che hanno creato in pochi mesi il mito del Papa innovatore. 
La prima impressione è che Papa Francesco abbia sempre una gran voglia di apparire e di piacere (verbo). Vanità che è rubricabile come peccato di lussuria. Il buon Papa Ratzinger ha detto che il Signore ha voluto questo e che lui per questo era inadeguato e dunque ha fatto “il gran rifiuto”. Possibile che il Signore volesse un Papa lussurioso? Bah!
C’è poi un altro genere di ostentazione, che è quello delle affermazioni clamorose, del consenso subito. «Chi sono io per giudicare?»; «L’essere umano è per la chiesa come un malato per l’ospedale: che fai ad un ricoverato, gli chiedi la sua fede o non intervieni subito a curarlo, a guarirlo?»; «Dicono che sono comunista perché sto coi poveri, ma i poveri sono il cuore del vangelo». Frasi che non possono passare inosservate. 
Così anche coloro che non sono in regola coi sacramenti trovano spalancate le porte del Signore. Di fronte a simili prese di posizione, come prima cosa, si deve onestamente riconoscere che è in atto non direi una riforma ma una revisione dottrinale, così alla buona, a spizzichi e mozzichi. Che, aggiunta all’ormai acquisita consapevolezza che tutte le religioni sono uguali, espone il cattolicesimo a traguardi importanti ma incerti.
In seconda battuta non si può non rilevare che anche qui c’è da parte del Papa una gran voglia di stupire. Quando si pensa al rifiuto di giudicare da parte della chiesa, che da sempre si è posta come magistero, viene di pensare ad un professore che a scuola mette a tutte le verifiche scritte e orali dei suoi alunni un bel dieci e al Preside che gli chiede ragione dice: e chi sono io per giudicare? In terza battuta, si coglie l’inevitabile ricaduta politica di certe affermazioni, che vanno in direzione della sinistra, sia a quella operaia, dei poveri e disoccupati, sia a quella radical-chic che vuole tutta una serie di liberalizzazioni: matrimoni gay, eutanasia, procreazione assistita, sacerdozio femminile, abolizione dei sacramenti attraverso un loro progressivo e indolore svuotamento. 
Insomma, questo Papa ha un confine mobile tra ciò che è il compito tradizionale e istituzionale della Chiesa e quello che lui si pone, per cui ogni volta ti sorprende. Difficile dire fino a che punto sia del tutto spontaneo e incurante delle ricadute o consapevole degli effetti religiosi e politici delle sue affermazioni e dei suoi comportamenti. Certo è che sta riposizionando la Chiesa, in conseguenza di un’idea della Chiesa fondata su una parte, non più in rappresentanza di tutto il corpo sociale ed ecumenico. La Chiesa dei poveri dice. E che vuol dire: che vorrebbe un’umanità di morti di fame?
La storia, che è sempre il riferimento ineludibile per trovare ragioni e spiegazioni, ci dice che la Chiesa non si è mai schierata con una parte sociale. La Chiesa, nel corso dei secoli, ha dimostrato di essere dei poveri e dei ricchi, dei deboli e dei forti, degli ignoranti e degli intellettuali. Ed ha avuto ragione, perché senza i ricchi-forti-intellettuali, i poveri-deboli-ignoranti sarebbero stati molto peggio e mai si sarebbero mossi dalle posizioni preistoriche. E’ la storia che produce le differenze sociali. Il vangelo vale per tutti; nei suoi contenuti il ricco e il povero si ritrovano purché obbediscano alle leggi del Signore Gesù Cristo figlio di Dio. Se i poveri sono il cuore del vangelo, i ricchi quale organo anatomico occupano?
Chi sceglie di stare da una parte, con una parte, lo fa o in buona fede o per calcolo. Escludo che un Papa lo faccia in buona fede; lo fa per calcolo. Ma chi ragiona e opera per calcolo è il politico, che calibra la sua azione in difesa di una parte piuttosto che di un’altra, nella consapevolezza di una necessaria dialettica per raggiungere degli equilibri. Chi si prefigge di portare una parte a prevaricare sull’altra non sta col vangelo, non sta con la democrazia. Non so se Papa Francesco sia o meno comunista – non mi sorprenderebbe se lo fosse – ma dovrebbe sapere che una sola ideologia nella modernità ha esplicitamente dichiarato di proporsi come obiettivo la dittatura di una parte sull’altra; e questa è la dittatura del proletariato. Sappiamo tutti che cosa è stato.
Ma Papa Francesco non stupisce solo per quello che dice e per quello che fa; stupisce anche per quello che non dice e per quello che non fa. Per esempio, non convince i sacerdoti ad indossare l’abito talare e ad uscire dalla chiesa per stare tra la gente, nella società, come una volta. Se è veramente convinto di quello che dice a proposito di povertà e di Chiesa povera, si liberi dello Ior, che è una banca e come tale deve rispondere, più che al Dio uno e trino della fede cristiana, al dio uno e quattrino della fede finanziaria. Se fosse veramente convinto della povertà della Chiesa dovrebbe rinunciare all’otto per mille.

Papa Francesco si è troppo secolarizzato e politicizzato, dimostra di aver appreso l’arte tutta italiana degli annunci ad effetto: a dire le cose che poi non fa e a fare le cose che non dice. 

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