domenica 29 luglio 2012

Monti e gli eredi della sua agenda

Ognuno pensi/a per sé. Regola aurea. Monti in Russia, domenica 22 luglio, ha citato De Gasperi per dire che in fondo in Italia ci sono molti politici e un solo statista: i politici sono gli altri, quelli che pensano alle prossime elezioni, lo statista è lui, che pensa alle prossime generazioni. Detta così sembrerebbe quasi che lo statista sia colui il quale non si preoccupa delle elezioni, che sono, come ognuno sa, il momento più importante e qualificante della democrazia, ma piuttosto delle generazioni future; ergo, la democrazia ha la vista corta e non vede oltre le elezioni. Sillogismi, si dirà. Invece Monti pone una serie di seri interrogativi. La democrazia in Italia sta prendendo una forma diversa da quella tradizionale. Non solo in Italia, evidentemente. Non più un capo del governo che necessariamente coniuga elezioni e generazioni, consenso e prospettive, ma un capo del governo che si preoccupa solo di ciò che verrà (future generazioni) e una massa di politici che si preoccupa solo di ciò che è (consenso elettorale), laddove risalta uno iato forte tra esercizio del potere, che opera a prescindere, e consenso elettorale che non si capisce a che cosa è rivolto e mirato. Ma la politica, pur prendendo a causa della sua fluidità la forma del contenitore, adeguandosi alla mutante realtà, si pone sempre come obiettivo il benessere del popolo. E De Gasperi resta un esempio di politico e di statista, come il suo 18 aprile del 1948 ricorda.
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Lo sappiamo tutti che formalmente l’esperienza Monti è un’anomalia, checché ne dica Napolitano, che se n’è fatto ideatore e fattore. Ma è un’anomalia che rischia di diventare norma. Ormai i governi nazionali non dipendono dal popolo che si esprime per il consenso, per la conferma o il cambio, ma da quello che decide il sinedrio europeo. “L’Europa ce lo chiede”, “L’Europa ce lo impone”. Lo capimmo noi italiani fin da quando la Commissione europea bocciò Buttiglione, perché a domanda cosa pensasse degli omosessuali rispose che essendo lui cattolico, pur rispettandoli, non li approvava. Ne abbiamo avuto conferma con Berlusconi, il quale ha dovuto lasciare il governo per i suoi comportamenti extrapolitici, che tanto imbarazzo hanno creato in Italia, in Europa e nel mondo. Mettiamoci l’animo in pace: la democrazia, che già di per sé è filtro deformante della volontà popolare e nazionale, è una mera finzione. C’è chi governa per mandato europeo, ed è lo statista, di cui parla Monti; e c’è chi chiacchiera per mandato popolare, e sono i politici.
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Col senno del poi anche Ernesto Galli della Loggia riconosce che all’origine della costruzione europea “vi fu un atto di temeraria cecità geopolitica”, che “oggi riappare in tutta la sua drammatica evidenza la diversità tra l’«Europa tedesca» e l’«Europa mediterranea»”, che “a complicare ulteriormente le cose ci si aggiunge pure, grazie al dissennato allargamento a Est, la radicale diversità dell’«Europa balcanica»”; e riconosce che “A Sud delle Alpi e dei Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare fin dall’inizio, e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una democrazia della spesa (e quindi, alla lunga, del debito) alimentando uno spirito pubblico conseguente” (Un’antica diversità, “Corriere della Sera” di mercoledì, 25 luglio). Cecità, dissennatezza, inadeguatezza dell’Europa mediterranea ad interpretare correttamente la democrazia, ma qui siamo davvero alla follia pura! Si riconosca una buona volta per tutte che si è sbagliato a fare l’Europa come la si è fatta, e che ora occorre rimediare senza perdere altro tempo. In questo il ruolo di tutte le forze politiche è fondamentale.
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Ha detto Monti in una recente intervista (Ferruccio Pinotti su “Sette”, n. 30 del 27 luglio): “chi si loda si imbroda”. D’accordo, è un vecchio detto popolare. Da noi, nel Salento, si dice “ci se vanta sulu no mbale nnu pasùlu” (chi si vanta da sé non vale un fagiolo). Ma, da che è presidente del consiglio, Monti non fa che imbrodarsi, un po’ per vezzo, evidentemente compulsivo, e un po’ per servile vocazione di chi lo intervista. Pur concedendo che il settimanale del “Corriere della Sera” non è specialistico ma un periodico leggero d’integrazione informativa, non si può esaurire l’intervista ad un capo di governo chiedendogli il colore che preferisce, il libro, il film, la canzone, il primo amore e via gossipando. Accanto a simili domande, bisognava farne alcune un po’ più serie e interessanti. Invece, nella lunga intervista, Monti, su domande dell’intervistatore, ha ripetuto il repertorio noto da almeno un anno: dalle raccomandazioni della mamma a tenersi lontano dalla politica alla più recente citazione degasperiana sui politici e gli statisti. Conclusione inevitabile, forse da impaginare nella rubrica di culinaria: un Monti in brodo.
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Si fa sempre più strada in campo internazionale l’idea che il problema dell’Italia o per lo meno uno dei problemi che la rendono poco credibile è l’instabilità di governo. Questa sembrerebbe oggi la ragione per la quale il nostro Paese, cui pure si riconosce la diversità in positivo rispetto ad altri sul piano economico-finanziario, non gode del favore dei mercati e delle agenzie di rating. Ma, a riflettere, c’è nulla di più instabile del governo Monti? Non è forse questo governo il simbolo dell’instabilità, essendo nato con un termine ben preciso? Chi sarebbe così fesso da prestare soldi ad uno affetto da malattia incurabile e che ha i giorni contati? Chi compra Btp vuole garanzie e se non ne ha a sufficienza, allora o non compra o vuole tassi di interesse alti o altissimi a seconda della scadenza. Mi sembra giusto. La Germania finirà per farsi pagare due volte dai compratori di Bund: la prima volta quando glieli acquistano e la seconda quando deposita i denari ricevuti nelle sue banche e nelle sue aziende. Ma la Germania dopo Merkel avrà un suo clone, che di diverso avrà solo il nome.
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Si enfatizza, secondo un vezzo italiano che si esaltava ai tempi di Mussolini, che da Obama a Putin sono tutti pazzi per Monti. A parte che si confonde il garbo diplomatico con giudizi di valore, c’è da cogliere un messaggio, che è chiaro e che è stato pure recepito. I governi politici del dopo Monti devono continuare la sua agenda. Ma c’è una classe politica oggi in Italia in grado di governare il Paese con austerità, politica e non tecnica? C’è da disperare vedendo scorrere ogni giorno nei telegiornali i volti osceni e grotteschi dei vari Bersani, Alfano, Casini, Cicchitto, Di Pietro, Grillo, Fini, Schifani, Gasparri, Vendola, l’uno contro l’altro, in niente e su niente d’accordo. E sarebbero questi gli eredi dell’agenda Monti? I garanti di un governo stabile? La prima cosa che dovrebbero fare questi signori, che, intendiamoci, non sono fessi, è di coprirsi le vergogne come fecero Adamo ed Eva uscendo dall’Eden. Le vergogne, in questo caso, sono le loro assurde contrapposizioni su ogni cosa che riguardi il governo del Paese. Se non lo faranno, saranno cacciati via per sempre dall’eden politico italiano nudi, con le vergogne al vento.

mercoledì 25 luglio 2012

Mario Signore e il nuovo welfare


Mario Signore è filosofo che non esaurisce il suo compito nell’ermeneutica e nella storiografia filosofica, dentro l’accademia, secondo una tendenza prevalente in Italia, ma fa incursioni nell’attualità della polis, intercetta i problemi, li analizza, offre contributi di soluzione. Dà un senso al suo essere pensante e agente. «Solo così – dice – il filosofo non sarà il fantasma che si aggira, indesiderato ospite, tra esperti che rivendicano l’esclusività di “saper guardare a tutti”, ma un collaboratore discreto che aiuta a conoscere anche la scienza e l’esercizio economici, impedendo in qualche modo che diventino…antieconomici» e «ridurre i guasti di un economicismo autoriferito». Così nel suo ultimo libro: “Prolegomeni ad una nuova/antica idea di Welfare” (Lecce, Pensa Multimedia 2011, pp. 142). Ne ripercorriamo il percorso argomentativo, in condivisione di desiderio, dubbiosi nell’esito.
Parte dalla crisi epocale che stiamo vivendo, generata dal mercato globale, che ha messo in discussione le forme politiche, economiche e sociali, una fra tutte il Welfare. In ragione di questa crisi le classi dirigenti, i tradizionali governanti, sono sempre più a responsabilità limitata. Il mondo è in mano ad una élite globale, una sorta di Leviathan, che lascia ai governi nazionali spazi operativi sempre più residuali. «La mobilità del capitale – egli dice – e il potere ormai illimitato e senza vincolo dei mercati finanziari, lasciano nella solitudine e senza protezione gli individui, che dovrebbero tutelarsi da soli. […]… il “rischio” è divenuto insicurezza sociale, la flessibilità tanto enfatizzata dal mercato del lavoro si è trasformata in “precarietà” e perdita del futuro, per gli adulti e ancor più per i giovani» (pp. 28-29). E’ necessario perciò ripensare il Welfare, partendo proprio da una «rivoluzione antropologica», che richiede a monte un’operazione culturale importante, la conoscenza dell’uomo nella sua umanità, che è qualcosa di più dell’uomo, «comprendendo anche in sé il sovraumano e il post-umano» (p. 63). Egli ricorda con Heidegger che l’umanità dell’uomo va pensata più riccamente per poter dare una risposta adeguata alla domanda was ist Mensch?, a cui finora la nostra epoca non ha saputo rispondere (pp. 62-63). 
Per questo, occorre risemantizzare il linguaggio politico ed economico. Impresa non facile. Signore è d’accordo con Darhendorf che dobbiamo abbandonare Malthus e Darwin e tornare ad Adam Smith, perché «La ricchezza non equivale semplicemente al P.I.L. pro capite, ma a quell’insieme di condizioni che concorrono a formare il benessere», e «Un programma dettagliato per la reinclusione di quelle persone temporaneamente o permanentemente escluse è tanto necessario quanto possibile» (p. 71). 
Saltato il vecchio modello di Welfare, è necessario costruirne un altro su basi diverse e con soggetti diversi. Una forma solo apparentemente nuova, però, dato che – dice Signore – rimanda per certi aspetti «al Basso Medioevo, allorché istituzioni ecclesiastiche, corporazioni d’arte e mestieri, confraternite e misericordie operavano insieme per assistere i bisognosi, sostenere il credito per i poveri, intervenire per la cura di malati senza mezzi economici» (p. 31). E’ la Big society, come l’ha proposta il premier britannico David Cameron e in qualche modo richiamata di recente dal “Sole 24 Ore”, il quotidiano della Confindustria. Le comunità insomma dovrebbero prendere il posto dello statalismo centralistico, ormai incapace di provvedervi.
Quale il luogo in cui deve realizzarsi questa nuova forma di Welfare aperto e condiviso? Per Signore, che si rifà alla tradizione aristotelica, è la polis, il solo luogo in cui l’uomo può realizzarsi in tutta la sua interezza, umanità e complessità: «Solo nella realtà della città l’uomo ha la possibilità di realizzarsi come uomo-intero, sottratto all’astrattezza della mera individualità, attraverso un itinerario, ben chiaro nella Politica di Aristotele, che dalla vita personale conduce all’uomo “intero”, passando per l’esperienza della polis» (p. 51). All’interno di essa va fatta la ricerca delle categorie dei bisogni per redigere una vera e propria tavola, giacché l’uomo è un “animale con bisogni”. «Ogni concezione dei diritti – dice Signore – della libertà, della stessa dignità umana [deve] fare i conti con la condizione di bisogno degli esseri umani» (p. 91). Ma anche qui è necessario «almeno come ipotesi percorribile, la possibilità non solo di una globalizzazione degli scambi commerciali e finanziari, ma anche della globalizzazione di alcuni valori essenziali, tra i primi certamente il valore della solidarietà, che ha come riferimento universale, fondativo, la persona umana» (p. 69 e poi 129-130).
Una conversione radicale, perciò, verso la “filosofia pratica”, una filosofia che interpreta il mondo e lo cambia (p. 73). E se tra i bisogni economici e le libertà politiche si pone un problema di «contrapposizione che finisce col negare la rilevanza dei secondi, facendo leva sull’urgenza dei primi»?  Signore va oltre l’empirico suggerimento del primum vivere e suggerisce la «logica dell’et et, e non dell’aut aut, con la logica ad includendum e non ad excludendum» (p. 92). «La democrazia – aggiunge – cresce con il suo reale esercizio!» (p. 93). Essa «ha in sé la capacità strumentale di rendere più trasparenti le azioni politiche a favore dei bisogni di tutti, e di far pervenire ai politici la voce dei bisogni reali e preferenziali, e dello strumento adeguato, un nuovo Welfare, per soddisfarli» (p. 95). E’ col mercato-incontro, col dialogo aperto nell’agorà che si va verso «una società giusta prima ancora che verso un’economia giusta». Più che per la sua “società di  decrescita” Latouche, secondo Signore, va seguito per la sua «messa in discussione del primato dell’economia sugli altri aspetti della vita» (pp. 96-97).
Connesso con l’idea di un nuovo Welfare è il problema «tra ricerca della giustizia ed esercizio della democrazia, intesa quest’ultima come “governo per mezzo del dibattito” (p. 109). Convinto assertore della democrazia liberale, Signore è per una giustizia comparativa, ossia per una scelta sociale, aperta a giuste relazioni.
Il saggio ha un doppio profilo: è scientifico nella sua autoreferenzialità filosofica e nello stesso tempo ha un approccio dialogante col mondo esterno, come specificamente detto in apertura. Al netto delle ricche e dotte argomentazioni filosofiche, funzionali al sostegno e alla comprensione della tesi di fondo, ora in condivisione ora in dissenso con molteplici autori, Signore, senza mai citare una sola volta cristianesimo o cattolicesimo – lo fa nell’extra-time della Conclusione (pp.133-139) – in buona sostanza si “muove” entro le coordinate del pensiero cattolico, secondo la lezione ratzingeriana di fede e ragione. Non a caso il saggio si apre e si chiude con “fraternità”, che degli immortali princìpi dell’89 è quello che «ha conosciuto minore sviluppo sul piano etico-politico e sociale, fino quasi alla dimenticanza» (p. 19), ma meglio caratterizza questa nuova/antica idea di Welfare. Basata sulla fraternità, essa costituisce un passo oltre la solidarietà, pur importante ma risarcitoria, e perciò anche oltre la sussidiarietà, che, per Signore, «si impone come norma etica quasi sempre coniugata insieme alla “solidarietà”» (p. 137), prima di diventare anche, “meritoriamente”, un’indicazione giuridica.
Fraternità universale, dunque, in un incontro tra cristianesimo e illuminismo. Ma, se pur fosse possibile, nel mondo ci sarebbe altro, c’è altro. E su tutto aleggia e resiste l’utopia.  

domenica 22 luglio 2012

Monti: il contagio

Una settimana, 16-22 luglio, di eclisse per Mario Monti, oscurato da Napolitano e dall’orribile faccenda della trattativa Stato-Mafia del 1992. Appena un avvio con la lettera di Monti al governatore della Sicilia Raffaele Lombardo per chiedergli di confermare le sue annunciate dimissioni entro il 31 luglio, poi più niente o quasi, come le solite frasi di circostanza per i vent’anni della strage di Via D’Amelio, in cui trovarono la morte il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta, l’accoglienza all’aeroporto per la cooperante sarda Rossella Urru liberata, regolarmente dopo pagamento di riscatto, regolarmente negato. Poi il contagio spagnolo: lo spread a quota 500 che lo travolge e fa pensare ad elezioni anticipate in autunno.
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La Sicilia è una delle regioni a statuto speciale e perciò gode di una certa autonomia. Perché questa intromissione di Monti? Così l’ha definita Gianfranco Fini, i cui uomini sono nella maggioranza che sostiene la giunta siciliana, e che ha ventilato l’ipotesi che Monti lo abbia fatto su suggerimento di qualcuno. Fini sospetta che Monti abbia dei suggeritori. Se lo dice lui! Fini, peraltro, nega che la Sicilia sia a rischio default. Nell’intervento di Monti vede una manovra elettorale. Certo è che Monti opera come un Commissario Straordinario con pieni poteri. Quel che non si capisce in questo Paese è perché ciò che non viene consentito ad un governo politico, votato democraticamente dal popolo, è consentito ad un governo nominato dal Presidente della Repubblica. Un governo, che, di fatto, opera come una dittatura, mascherata da una maggioranza parlamentare, che si compone di due partiti che in genere quando non si scannano si sbranano.
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Monti ha subito l’eclisse di Napolitano. Il Presidente della Repubblica ha sollevato davanti alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo per la faccenda delle intercettazioni relative alla cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Il Presidente è stato intercettato indirettamente e le sue parole sono agli atti dell’inchiesta invece di essere immediatamente distrutte, come chiede la Presidenza della Repubblica perché lesive dell’Istituzione. Si è subito levato il coro di approvazione nei confronti del Presidente della Repubblica, ad eccezione di Di Pietro, il quale ha detto che Napolitano non difende ma mortifica le istituzioni, di cui è il massimo garante. Di Pietro non ha torto. C’è, infatti, da chiedersi: ma qui dobbiamo fare astratto esercizio di rispetto della Costituzione o cercare la verità su uno dei più gravi casi criminosi della storia della Repubblica? E se le due cose non sono conciliabili, quale delle due sacrificare? A parole Napolitano sta con la ricerca della verità, nei fatti sta per limitarla entro astratti confini costituzionali.
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Intanto da quando Berlusconi è ridisceso in campo c’è una nuova ondata di inchieste giudiziarie nei suoi confronti. Una è davvero curiosa: secondo i giudici di Palermo sarebbe vittima di estorsione da parte di Marcello Dell’Utri. Insomma Berlusconi avrebbe dato a Dell’Utri dei soldi per comprare il suo silenzio sui suoi affari con la mafia. Altra faccenda intricatissima. La verità storica, non giudiziaria, probabilmente è che agli inizi degli anni Novanta Berlusconi entrò in contatto con la mafia. Per iniziativa di quale delle due parti non si sa. Si disse che Cosa Nostra voleva che Berlusconi le cedesse una rete televisiva. Mah! La verità potrebbe essere un’altra e cioè che Cosa Nostra voleva un grande e fortunato uomo d’affari per riciclare ingenti capitali sporchi. Dell’Utri sarebbe stato il tramite di quest’incontro. Una villa di ventuno milioni di euro, dati da Berlusconi a Dell’Utri per pagarla, non può essere un regalo. Fin qui lo capiscono pure al Gottolengo. Ma perché dovrebbe configurarsi il reato di estorsione? Berlusconi può sempre dire che lui i soldi a Dell’Utri gliel’ha dati per fraterna amicizia, come per fraterna amicizia gli ha riservato un loculo nella tomba di famiglia ad Arcore. Potrebbe dire; e Berlusconi lo dice! Ma i giudici non possono fare proprie argomentazioni, magari fondate ma prive di prove, che sono rumores.
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Inquieta il comportamento del giudice Paolo Borsellino, che, intervistato da due giornalisti francesi, due giorni prima della strage di Capaci, pur senza entrare nello specifico dell’incontro Berlusconi-mafia, dà per certo che Mangano, lo “stalliere di Arcore”, era la testa di ponte della mafia al Nord e addirittura passa delle carte ai due giornalisti dicendo “non dite che ve le ho date io”. Tutto questo lo abbiamo vista su La 7 la sera di giovedì, 19 luglio, in occasione del ventennale della strage di Via D’Amelio. Una strage che ha aspetti incredibili, come la sparizione dell’agenda rossa di Borsellino. Dove andò a finire? Racconta l’ex giudice Ayala, anche lui del pool antimafia, che, giunto in Via D’Amelio immediatamente dopo lo scoppio della 126 carica di esplosivo, riconosciuto il corpo di Borsellino e quel che rimaneva della sua auto, prese la borsa dove c’era l’agenda rossa, e la consegnò ad un ufficiale dei carabinieri, il quale sparì per sempre. Ayala non è in grado di dire neppure se era in borghese o in divisa. Un filmato ritrae quel “soggetto” con la borsa che si allontana. Un signore in borghese! Ma, allora, Ayala consegna un reperto così importante ad uno sconosciuto? Mi chiedo che cosa sarebbe accaduto e di quanti reati sarebbe stata accusata una qualsiasi altra persona che avesse compiuto quel gesto.
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Questa strage rientrava nella famigerata “trattativa Stato-Mafia”. A detta di Napolitano e di Monti “Non c’è alcuna ragione di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità, ritardi e incertezze nella ricerca della verità”. Peccato che l’uomo non abbia due bocche come ha due mani. Si potrebbe dire: non sappia la bocca destra quello che fa la bocca sinistra. Napolitano, infatti, ha sollevato davanti alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione sulle intercettazioni che lo riguardano in quanto Presidente della Repubblica nei confronti della Procura di Palermo che sta cercando di fare chiarezza sulla morte di Borsellino. Come dire: per rispettare un’astrattezza costituzionale – altro che ragion di Stato! – si sacrifica la verità. Che equivale a dire: italiani, mettetevi l’animo in pace, del perché e per colpa di chi è morto Borsellino nessuno mai deve sapere. In compenso, di qui all’eternità, potete compiacervi dei soliti bla bla bla istituzionali, che ogni anno ricordano e commemorano l’eroe Borsellino. Un vero peccato che a levare la voce del cittadino sia il solo Di Pietro nel coro di osanna ipocriti a Napolitano, che qualunque cosa dica o faccia, è l’optimum costituzionale!
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I teoremi – si sa – sono anch’essi astrazioni. Ma, che dire delle tante sostituzioni che in seguito alle stragi del 1992 si fecero a livello governativo? Mancino sostituì Scotti al Ministero degli Interni, Conso sostituì Martelli alla Giustizia, fu licenziato il responsabile dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato. Che pensare se i duri della lotta alla mafia, come Scotti, Martelli e Amato, vengono sostituiti con uomini più disponibili a cedere? E infatti Conso revocò a 334 detenuti il regime di carcere duro, meglio noto col nome di 41 bis. “Mia sola iniziativa” ha più volte detto Conso. E che pensare del Presidente della Repubblica Scalfaro, che sceglie il capo dei cappellani penitenziari per dire che il tempo di Niccolò Amato era scaduto? Lasciamo stare se tutto questo fu fatto per il bene di tutti e per il male di qualcuno. Un dato è certo: il metodo osservato non è affatto da democrazia, che i tanti suoi sacerdoti dicono di voler sempre salvaguardare; lo vedono tutti che è un metodo che non si discosta minimamente da un’altra Cosa Nostra.

mercoledì 18 luglio 2012

Camillo uno e bino. Giulia Licci e il lato poetico dell'omosessualità

Giulia Licci è come un fantasma che si aggira nel Salento. Vive anagraficamente a Ruffano, discendente di un’antica famiglia della borghesia professionale e terriera. Lei stessa è stata insegnante di italiano. Ma non va in giro, non si lascia vedere. Dire però che non vede è un errore. Calza per lei la metafora della cecità del poeta, colui che vede senza vedere o, come diceva di Omero il Manzoni “d’occhi cieco, e divin raggio di mente”. Da diversi anni ormai con brevi raccolte di pochi e lievi brani poetici, rigorosamente in ottonari, propone i problemi più spinosi e inquietanti dei nostri tempi. Lo fa con una vena d’ironia; dà l’impressione sia di giocare sia di prendersi gioco, riconducendo la drammaticità della vita in una visione che ha del fiabesco e del sapienziale. I suoi protagonisti sono animaletti, avvenimenti, politici, letterati (Manzoni, Moretti, D’Annunzio). Ha il gusto della preziosità. Qualche anno fa Vanni Scheiwiller le pubblicò in volume le sue raccoltine, Poesie 1942-1998, con un saggio introduttivo di Nicola G. De Donno, consacrandone la fama. Ora, la raccomandiamo a Crocetti.
Nell’ultima sua raccolta, intitolata Camillo (GR edizioni, Besana in Brianza, maggio 2012, pp. 28), in cui la Licci recupera una certa freschezza evoco-allusiva, in sei brevi brani poetici propone un’idea di omosessualità dai caratteri spiazzanti. L’omosessualità, per intenderci, non nella sua dimensione erotica o istituzionale (coppie di fatto, matrimoni gay) ma come condizione dell’essere umano nella sua psicofisicità.
Come al solito parte da un personaggio o da un fatto importante; questa volta da una ricercatezza culturale. Inutile chiedersi chi è Camillo, se è il giovane studente Camillo Strozzi o il letterato Camillo Scroffa (1526-1565). Probabilmente sono la stessa persona. Per la curiosità del lettore Camillo Scroffa, poeta giocoso vicentino, conobbe a Padova da studente un maestro di grammatica, Pietro Fidenzio Giunteo da Montagnana, ridicolo e pedante, il quale dedicava i suoi carmi ai potenti della Repubblica Veneta con lo pseudonimo di Glottochrysius Petrus Fidentius Juncteus. Lo Scroffa nel 1562 pubblicò «I cantici di Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro», in cui era compresa anche l’«Amorosa elegia di un appassionato pedante al suo amatissimo Camillo» e l’attribuì a quel suo maestro. Uno scherzo, dunque, che diede il nome a certa poesia giocosa e pedante detta appunto fidenziana. Non ci sarebbe da meravigliarsi se la Licci sia in possesso perfino della relativa “cinquecentina”.
Che dice la Licci? Nel I brano, (vv. 6) pare che sia lo studente Camillo Strozzi innamorato, colto ad accarezzare i peli della barba del suo signore e maestro Fidenzio; nel II brano (vv. 6) è Fidenzio che vagheggia il suo Camillo “nell’auletta senza sole / perché assente era Camillo / e pedante la lezione”; nel III (vv. 8) è ancora il maestro Fidenzio “visionario di una bocca / dolce rosea esigua bocca”; nel IV (vv. 8) si adombra che il giovane Camillo sia morto e che Fidenzio si strugga di nostalgia per lui finché un angioletto dal cielo scende sulla Terra a consolarlo; nel V (vv. 11) l’angioletto non vuole indagare su questo amore per “far poi pettegolezzi”; nel VI ed ultimo (vv. 6) l’angioletto è solo messaggero d’amore (“non li dipinse sozzi”) ché i madrigali di Fidenzio sono “adorni di gaiezze femminine / che conservano ancor oggi / un profilo di angioline”.
Ecco la substantia della poesia della Licci. Cosa suggerisce, l’amore per un ragazzo, dunque gay, mascherato da “gaiezze femminine…un profilo di angioline”? Ovvero la condizione di ogni essere umano che ha in sé questa a volte inconfessata attrazione per il suo stesso sesso? La Licci è una poetessa, non spacca il capello in quattro delle dispute morali.
La risposta potrebbe trovarsi in una ricerca di recente pubblicata in America, secondo cui il venti per cento di chi ostenta intolleranza nei confronti degli omosessuali, in realtà è attratto fortemente da persone del suo stesso sesso. Fosse così, una simile lettura potrebbe avere un effetto socialmente educativo, suggerire a quanti ostentano virilità e disprezzo per i gay di starsene zitti per paura di finire in quel venti per cento. Ecco, come a volte poesia, scienza e buona educazione s’incontrano!

domenica 15 luglio 2012

Monti in guerra col mondo

Al tempo di guerra – dell’ultima guerra mondiale – grandi manifesti riproducevano un muro con un enorme orecchio e la scritta “Taci! – Il nemico ti ascolta”. E’ con la stessa preoccupazione che Monti ha stigmatizzato le parole del Presidente di Confindustria Squinzi che ha parlato della spending review del governo come di “macelleria sociale”, trovandosi perfettamente d’accordo con Susanna Camusso, leader della Cgil. Monti si è infuriato. Dichiarazioni come queste – ha detto – si prestano ad essere strumentalizzate dai mercati e fanno salire lo spread. Ora, a parte il fatto che è ridicolo pensare che i mercati hanno orecchi dappertutto al punto da servirsi di una dichiarazione tutto sommato informale per fare speculazioni finanziarie, c’è da rilevare un clima sempre meno tollerante negli ambienti politici italiani. Si capisce, allora, perché alcuni giornali, con in testa il “Corriere della Sera”, si sono trasformati ad organi di stampa al servizio “della patria e del regime”. Non resta che istituire un nuovo Minculpop per censurare tutto ciò che a detta di Monti può danneggiare la patria inseguita da un baratro più rapido di quanto non sia l’Italia ad allontanarsi dal suo orlo.
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Il vero motivo dell’arrabbiatura di Monti non è il pericolo derivante dai mercati, ma il non riuscire a tenere in anestesia il popolo italiano, che, a fronte di due soggetti, così distanti tra loro, come Cgil e Confindustria, che improvvisamente si trovano d’accordo nel definire “macelleria sociale” i provvedimenti del governo, potrebbe svegliarsi dal torpore e chiedere ragione di quanto gli sta accadendo. Ecco il vero motivo che ha mandato in bestia il flemmatico Monti! Per ora il popolo italiano ha dimostrato di capire e vanitoso com’è nel sentire che tutto il mondo dice un gran bene del suo Presidente del Consiglio ha accettato tutto, dall’allontanamento della pensione alla pressione fiscale, dalla perdita del posto di lavoro alla riduzione del potere d’acquisto del salario. Ma se i suoi due grandi capi sociali sono d’accordo nel dire che delle sue misere carni si sta facendo “macelleria” il popolo potrebbe perdere la pazienza, esattamente come Jacques bonhomme, quello che ha dato il nome alle jacqueries. Dio ci liberi!
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Ma la sortita di Monti contro Squinzi può avere un’altra chiave di lettura. Se in Italia tutto si dice e tutto si fa in funzione dello stramaledetto spread, che peraltro va per fatti suoi, che accadrà di qui alla primavera prossima se dovesse persistere questo spread di Damocle sulla testa degli italiani? Se la rimozione di Monti dovesse essere percepita dal “tiranno senza volto” che è il mercato finanziario come una scelta di debolezza vorrebbe dire che noi per non subire l’impennata dello spread dovremmo tenerci sine die Monti al governo e magari pure Napolitano al Quirinale. Siamo al mau-mau dei bambini per farli stare buoni. Ero e resto dell’idea che si doveva andare a nuove elezioni fin dall’autunno scorso. Era la dimostrazione che il Paese non aveva paura e che i padreterni tecnici possono dare una mano al proprio paese senza arrogarsi diritti che non dovrebbero stare più né in cielo né in terra. Un governo misto di tecnici e politici sarebbe stata la risposta giusta; se tanto non era possibile allora si doveva votare. Il Paese ha sacrificato la politica e la democrazia all’arroganza di quattro presuntuosi che a tutt’oggi per mantenersi in piedi hanno bisogno di spaventare gli italiani con fantasmi inesistenti.
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Quindici esponenti del Pd, tra cui Paolo Gentiloni, Pietro Ichino e Umberto Ranieri, hanno scritto un documento sulle prospettive del loro partito, vogliono che il Pd porti l’agenda Monti nella prossima legislatura. Della serie che questo Monti, come temevano i sostenitori della politica, non lo sradica più nessuno. Dicono i quindici nel loro documento: «considerato che la fase di crisi e di difficoltà non si concluderà in tempi brevi e che i processi virtuosi avviati (pensiamo solo allo spostamento di prelievo dai redditi di lavoro ai patrimoni) daranno i loro frutti solo attraverso un’azione di governo pluriennale, noi intendiamo promuovere nel Pd una trasparente discussione sulle strade che vanno intraprese perché obiettivi e principi ispiratori dell’agenda del governo Monti – collocati dentro un disegno almeno decennale di cambiamento del Paese – possano travalicare i limiti temporali di questa legislatura e permeare di sé anche la prossima». Mentre il golpe strisciante contro la politica continua con gli interventi di Napolitano: no a riforme costituzionali al termine della legislatura, sì a riforme elettorali – praticamente è lui che fa l’agenda politica del Paese – i politici sono come suonati, neppure si rendono conto di non contare più niente e che rischiano perfino di essere travolti dalle prossime elezioni.
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“L’Italia ha iniziato un percorso di guerra, un durissimo percorso di guerra” ha detto Monti alla 52ª Assemblea dell’Abi (Associazione Bancaria Italiana) mercoledì, 11 luglio. E’ in guerra all’esterno contro i pregiudizi che hanno gli altri nei nostri confronti, ma è in guerra anche all’interno contro i vizi propri degli italiani. Un contro gli uni e contro gli altri che finisce per dare ragione agli stranieri che ci vedono male, se poi noi stessi ci riconosciamo dei vizi dei quali dobbiamo liberarci. Insomma, Monti è contro tutti. Ha detto che stiamo combinati malissimo e che la strada per uscire è lunga e dura. In contemporanea il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha detto che l’Italia è in recessione. L’Inps scopre di aver ereditato dall’Inpdap un debito di sei miliardi di euro. Ma subito tutti, a partire dalla Fornero, rassicurano: le pensioni non sono a rischio. Brutto segno quando s’incomincia a rassicurare su un pericolo. Parafrasando: confirmatio non petita insidiae manifestae.
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Ogni tanto ne dice una. Al contrario di Berlusconi che parlava sempre come si chiacchiera nel bar dello sport, tra una barzelletta sulle donne e un gol annullato dall’arbitro, Monti parla sempre come se si trovasse nel salotto dei grandi banchieri e imprenditori. Ha ragione Epifani, ex segretario generale della Cgil. Monti, attaccando la concertazione e ritenendola responsabile dei guai dei nostri giorni, ha parlato da uomo di destra. Sì, di destra ha dimostrato l’arroganza e la presunzione dei padroni. La concertazione in democrazia è fisiologica, che non sia possibile oggi, nella condizione in cui ci troviamo, è un conto, ma che non lo sia in assoluto è un altro. La Camusso, attuale segretario generale della Cgil, gli ha dato dell’ignorante e di chi parla senza sapere di che cosa. Ma Monti, che ha già perso quell’aureola della vigilia, si sta proponendo come l’uomo della provvidenza, sta ipotecando almeno trent’anni della nostra storia, quindici passati e quindici futuri: i passati per dire che sono stati una sequela di errori, i futuri di salvezza, ovviamente grazie al taumaturgo, che sarebbe lui.
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Quanto accade in Spagna potrebbe indurci ad essere più riconoscenti a Monti, che in fondo tiene l’Italia in una condizione ancora accettabile. Ma, pur non potendo ipotizzare una diversa condizione, né in meglio né in peggio, bisogna tenere gli occhi bene aperti su quanto accade. Quello spread che tanto sonno ha tolto agli italiani e che per Berlusconi è stato più puntuto di dieci procure nemiche, non scende, anzi sembra essere insensibile ad ogni iniziativa. L’Italia è come un’auto che ha un volante che non risponde all’autista, che gira a vuoto. Prima o poi potrebbe finire contro un muro. A parte i sorrisi, la cordialità, il rispetto di cui gode Monti in campo internazionale, e per lui anche noi, cosa che dovrebbe convincere Berlusconi a lasciar perdere un suo rovinoso ritorno, in realtà la crisi continua a procedere come se fosse qualcosa di impostato e che qualunque cosa si faccia lei va avanti per fatti suoi. Si sta diffondendo in Italia e in Europa una sorta di consapevole impotenza. Chi si ostina a pensare come si poteva pensare fino a dieci anni fa non ha capito niente di quanto sta avvenendo e non si sforza neppure di capire, forse non è in grado. Finora sembra che perfino la storia si sia impigrita, ma in genere quando arriva il momento qualcosa lo partorisce e se lo farà non sarà certo qualcosa di scontato.
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Siamo virtuosi – ha detto Monti arrabbiato dopo il declassamento dei Titoli di Stato da parte dell’agenzia di rating Moody’s – ma invece di premiarci ci puniscono. Ma cosa vuole Monti, pensa che bastino le chiacchiere, indecenti di Berlusconi, edificanti sue, per far cambiare parere ai mercati internazionali? Ma non è lui che non perde occasione di sparlare dell’Italia e degli italiani, stracarichi di vizi, con cui si è in guerra? Monti rimprovera Squinzi di aver detto cosa che avrebbe dato adito ai mercati di danneggiare l’Italia, ma lui non si priva di nessun piacere – da perfetto italiota – di sparlare del suo Paese. Il declassamento da parte di Moody’s è arrivato puntuale dopo il suo discorso di guerra all’Abi dell’altro giorno. Stia attento a quello che dice, piuttosto!

mercoledì 11 luglio 2012

Ternitti di Mario Desiati, dalla dissoluzione familiare al recupero dei valori sociali

“Ternitti” evoca una malattia letale, il terribile mesotelioma pleurico, tristemente noto per le innumerevoli morti di lavoratori nelle fabbriche di Eternit e nelle località dove sorgevano; anzi, ne è la causa. Nell’omonimo romanzo di Mario Desiati (Mondadori 2011) è soprattutto una metafora. Lo scrittore di Locorotondo unisce nell’intreccio di questa storia vicende famigliari, ambientate negli anni Settanta e poi Novanta del secolo scorso, polarizzate su singoli personaggi di una famiglia salentina del Capo di Leuca (Antonio e Rosanna Orlando, Mimì, Biagino, Arianna). Sulla protagonista Mimì Orlando lo scrittore concentra le tematiche maggiori del romanzo, sullo staglio di fenomeni sociali di più ampia portata, emigrazione con conseguente dissoluzione familiare e patologie di lavoro, riferimenti a fatti che hanno segnato la storia italiana negli anni terminali del Novecento: strage di Bologna del 2 agosto 1980, sbarchi di clandestini extracomunitari sulle coste salentine. La realtà viaggia diegeticamente con la metafora. L’andar narrativo avanti e indietro non è solo una scelta estetica, una condizione non più rispondente alla classica tripartizione temporale, è un’indicazione di lettura, come un seguire due film in contemporanea su due video diversi. Ternitti devasta i polmoni di chi lavora nelle sue fabbriche come l’emigrazione devasta fatalmente la famiglia. Non c’è resistenza che tenga nell’uno come nell’altro caso; proteggersi è inutile.

Per lo scrittore di Locorotondo c’è uno studio dietro la sua storia, sul Salento più basso, estremo, su luoghi fisici, costumi sociali, sentimenti, comunicazione. Desiati dimostra di conoscere perfettamente i luoghi, gli ambienti, le abitudini degli abitanti e la lingua. Forse ha qualche difficoltà ad innestare il dialetto del Capo di Leuca, dall’inflessione ambigua e scivolosa, con vocali aperte e sfrangiate e consonanti strascicate, all’italiano. Ma chi ha contezza della varietà, anche linguistica, di cui è fatta la Puglia, non si meraviglia.

La scelta del Capo di Leuca come location è funzionale al messaggio del romanzo. L’ambiente si è caratterizzato fino ad anni assai vicini del Novecento per la sua forza, compattezza e chiusura. E’ quello che ha resistito di più alla modernizzazione, resa traumatizzante, quando è arrivata, da tanti fenomeni connessi, crisi dei valori tradizionali, scorciatoie nel sesso, nell’alcol e nella droga.

Il luogo dove i nostri vanno ad alloggiare a Zurigo è una fabbrica dismessa di vetro, laddove, indipendentemente dalla rispondenza reale – molti emigranti hanno alloggiato veramente anche per anni in fabbriche dismesse, palazzi abbandonati, baracche allestite dai datori di lavoro – il vetro è già simbolo di fragilità e frantumazione. Dove la giovanissima Mimì, contravvenendo alle più ferree leggi dell’onore familiare, va a giacere di notte nella branda del giovane compaesano Pati, così vicino ai genitori da sentirne il respiro. Ma già Mimì si presenta a quindici anni come una donna senza incertezze: ha bisogno di calore fisico e affettivo e se lo va a cercare, poi sarà quel che sarà.

Conseguenza dell’emigrazione è la dissoluzione famigliare, la perdita dei valori tradizionali. Un po’ come la Milano di “Rocco e i suoi fratelli” del 1960. Ma se nel film di Luchino Visconti il processo di dissoluzione è favorito dagli incontri dei protagonisti con la gente del luogo, nel romanzo di Desiati il processo fatalmente implode, perché anche a Zurigo, come in ogni altra città svizzera, gli emigranti di prima e seconda generazione costituivano gruppi chiusi, impenetrabili, fino ad avere storie d’amore e perfino a litigare e a picchiarsi tra di loro, come realisticamente descrive Desiati, a volte anche indulgendo in gratuito turpiloquio (coglioni, fica), in inaspettate stecche lessicali. Se l’autore voleva evidenziare la dissoluzione familiare anche di gruppi chiusi e consapevolmente protetti non poteva scegliere di meglio del Capo di Leuca, dove fino a pochi anni fa chi scendeva in certi paesini dell’entroterra aveva la sensazione di calarsi nella macchina del tempo e trasferirsi almeno a cinquant’anni addietro, pur provenendo da una località di confine.

Ternitti è il più salentino dei romanzi, non solo per l’ambientazione, la descrizione dei paesi (Scorrano, Tricase, Lucugnano, Alessano, Gagliano, Tiggiano, Corsano ecc.) e dei luoghi (la meravigliosa scogliera che da Leuca porta a Tricase, Marina Serra, il Ciolo), le tradizioni popolari, le prèfiche, le parasìe, le focarazze, ma soprattutto perché c’è la protagonista, Mimì Orlando, una donna che vive la modernità con una straordinaria compostezza interiore, tipica della saggezza senza tempo delle donne salentine. Mimì vive la condizione di stuprata della sua giovinezza, che inevitabilmente poi per spontanea compensazione reitera in anni non più giovanili (nel gioco di piccoli amori, partite a calciobalilla, pegni di verità), con la consapevolezza piena della sua condizione, in un equilibrio interiore che coniuga l’inevitabilità di un presente, da vivere con gentilezza, nonostante tutto, e un richiamo di quei valori della sua tradizione, ormai sfocati ma non tanto da non essere avvertiti e rispettati. La protagonista li sa trovare nei momenti più drammatici appartandosi a “parlare” coi suoi antenati, come gli antichi greci andavano a chiedere risposte agli oracoli. L’amore per il fratello deviato, “l’uomo rotto”, il dispiacere per la figlia quando la sente sempre più lontana da lei, la gioia quando la sente recuperata, sono i valori familiari di ritorno, quelli che alla fine fanno pensare positivo e sperare. Essi verbalizzano la superiorità dello spirito, che dalla dissoluzione finisce per recuperare il recuperabile e va avanti, sulla materialità, che, identificata in ternitti e nel suo terribile male, uccide per sempre. Che è anche la vittoria della metafora sulla realtà, della tradizione saggia sulla modernità sconsiderata.

domenica 8 luglio 2012

Monti e la spending review

Monti a Kiev ha portato sfiga. Non c’era bisogno che qualcuno glielo dicesse. Lui è fatto per i funerali. E poi al calcio non vuole bene. Qualche tempo fa voleva addirittura sospendere i campionati per due-tre anni. Nessuno gli ha mai detto né lui si è accorto che il calcio fa soldi. Eppure lui di soldi se ne intende! Sulla tribuna d’onore ha portato male alla nostra Nazionale. Che Dio lo maledica! Ha portato il suo ruolo di menagramo e lo ha imposto ad una Nazionale che fino a quel momento aveva alternato momenti di incertezze a momenti esaltanti, in un crescendo finale rossiniano. Poi, è arrivato lui. Probabilmente la Nazionale avrebbe perso, perché non c’è Cristo che tenga, gli spagnoli sono terribilmente più forti; i nostri per giunta erano più stanchi per aver avuto un giorno in meno di riposo e i tempi supplementari e i rigori in più di Italia-Inghilterra. Alcuni giocatori erano rotti e potevano giocare con infiltrazioni. Prandelli ha fatto il resto. Mentre gli spagnoli, che in condizioni normali ci surclassano, erano tesi e concentrati; i nostri si autocompiacevano sapendosi temuti e si esaltavano nell’affrontare gli avversari di petto a petto. La Nazionale, forse, senza Monti e senza Prandelli, avrebbe perso lo stesso, ma senza quel quattro a zero che rimarrà nella nostra storia pur esaltante come una macchia. Questa volta Napolitano – eppure è napulitanu! – non se l’è sentita di trattenere quello iettatore di Monti in Italia. Io lo avrei rinchiuso nelle segrete del Quirinale.
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Al vertice italo-tedesco di mercoledì, 4 luglio, Monti ha detto che l’Italia non ha bisogno di aiuto. Riferimento allo scudo anti-spread. Bene, anzi, benissimo! E gli italiani? Beh, di aiuto avremmo bisogno, altro che! Arrivano i tagli; questa volta del super Bondi. In Italia ormai passiamo da un super ad un altro super. Saranno altre centinaia di migliaia di posti di lavoro che cadranno; aumenterà la disoccupazione, ancora assistita, dato che si tratta di impiegati che comunque hanno diritto allo stipendio. Monti ha voluto fare il guappo con la Merkel: non abbiamo bisogno di aiuto grazie ai sacrifici degli italiani. Ma, fino a quando abuteris patientia nostra direbbe Cicerone. Per carità, nessun parallelismo con Catilina, nobili genere natus, ma la pazienza è quella che è, indipendentemente se a farcela esaurire è il bocconiano Monti o il congiuratore Catilina. Voglio proprio vedere che accadrà quando gli italiani si troveranno nella materiale impossibilità di campare. Monti non solo riduce le entrate nelle tasche degli italiani, ma aumenta le uscite. Te ddhu sciah pijamu! – diciamo noi salentini.
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L’esperienza Monti alla fine qualcosa ce la farà apprendere, ed è che noi italiani non siamo in grado di vivere con la democrazia. Quanto è accaduto nell’ultimo ventennio, da Ciampi a Monti, ci dice senza ombra di dubbio che la democrazia non è per noi. Bisogna prenderne atto. Non solo e non tanto per le ruberie, la corruzione, lo sperpero e quant’altro, ma soprattutto per il modo in cui interpretiamo il dibattito politico. Veniamo meno alla più elementare delle regole democratiche: chi vince le elezioni governa, chi perde fa l’opposizione. Da noi, invece, si contesta in radice chi le vince, accusato di essere un impostore, uno che non può ricoprire la carica che ricopre per una serie di ragioni (conflitto di interessi, indagini della magistratura, incompetenza, malversazione, indegnità per i suoi cattivi costumi). Il confronto democratico da noi è guerra civile, al punto che paralizziamo la vita del Paese. Il fatto che si ricorra sempre più frequentemente a dei tecnici al governo è la chiara dimostrazione di non essere in grado di governare politicamente. Per delegittimare chi governa si scoprono cose di cui vergognarsi per la pretestuosità sistematica. Un esempio? Lo sanno tutti che la nostra Costituzione è vecchia, che va cambiata. Ma appena se ne parla, e a farlo è chi governa, le opposizioni si scatenano in sua ottusa difesa: la Costituzione non si tocca; e quei disonesti di giudici intruppati si presentano provocatoriamente in toga e col libretto della Costituzione in mano all’inaugurazione dell’anno giudiziario, come le guardie rosse a Piazza Tien An Men col libretto di Mao. Questa è la democrazia italiana! Ma, è democrazia? Se lo fosse, non ci sarebbe ogni tanto un Ciampi o un Monti o, prima o poi, qualcuno di peggio.
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Monti aveva promesso che non avrebbe fatto un’altra manovra. E, invece, eccone una che tra le tante fatte finora è la più odiosa, è quella che creerà ai cittadini i disagi più gravi: la cosiddetta spending review, che vuol dire revisione della spesa allo scopo di garantire lo stesso servizio a minor costi. Di qui al 2014 si prevedono risparmi per 26 miliardi di euro: 4 e mezzo nel rimanente 2012, dieci e mezzo nel 2013 e undici nel 2014. Che si perde? Si eliminano degli ospedali e dei tribunali; si tagliano diversi organici della pubblica amministrazione, della difesa, della scuola, con inevitabili nuovi disoccupati. Sì, è vero, meno auto blu, meno provincie, meno permessi retribuiti ai sindacati. Ma come si fa a dire che i servizi comunque sono garantiti? Chi conosce la situazione degli ospedali e dei tribunali ha ragione di preoccuparsi. Già oggi anche per delicati interventi chirurgici ci si ricovera il giorno prima e si è dimessi il giorno dopo. Qualcuno muore strada facendo. Chi mette piede in un tribunale e non è un addetto ai lavori resta sgomento dalla confusione e dal modo di procedere di giudici e avvocati, che a volte assumono testimonianze in piedi, in un angolo, tra un viavai di gente come ad una fiera di bestiame. Tagliare ospedali e tribunali significa mettere in ginocchio la sanità e la giustizia. Saranno pure tecnici i signori ministri di Monti, ma sono dei gran bugiardi perché non dicono chiaro e tondo alla gente che non solo è finito lo stato sociale, ma perfino lo stato in sé.
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Ciascuno, nel suo privato, può rendersi conto di che cosa sia la spending review. Io l’ho fatta, sissignori! Il mio risparmio è di 335 € al mese. Sì, ma invece di tre caffè al giorno, mi sono ridotto ad uno (- 1,60 al giorno, 48 € al mese); non prendo più il gelato o il the la sera (- 1,50 al giorno, 45 € al mese); non gioco più la mia schedina di superenalotto da un euro (- 3,00 la settimana, 12 € al mese); invece di un rotocalco la settimana e due quotidiani al giorno, mi limito al “Corriere della Sera” (- 10,00 la settimana, 40 € al mese), vado più in giro a piedi che in auto (- 2,00 al giorno, 60 € al mese), niente passeggiata al mare la domenica (- 5,00, 20 € al mese); niente giornate leccesi con gli amici (- 10,00 la settimana, 40 € al mese), niente piacere di dare qualcosa a chi me la chiede per strada (- 10,00 al mese) e soprattutto meno libri (- 60,00 al mese). Ho conservato inalterata solo la spesa dei medicinali, che purtroppo cresce sempre più. Come posso dire che la mia spending review mi garantisce quello di prima a minor costo? Si tratta di sopravvivere, ma con l’avverbio sopra che fa aggio sul verbo vivere e suona come un ironico sfottò, perché più che di sopra si tratta di sottovivere. I tagli effettuati dal governo sulla sanità, la giustizia, sui dipendenti pubblici peggioreranno i servizi dei relativi settori, creeranno ulteriore disoccupazione e metteranno in ginocchio il Paese. La spending review dei cittadini ricade direttamente sui consumi. Ed è la fame generale!

mercoledì 4 luglio 2012

"Gli occhi di mia figlia" di Vittoria Coppola, un romanzo borghese

Il romanzo di Vittoria Coppola, “Gli occhi di mia figlia” (Lupo Editore – Edizioni Anordest 2012), che si è affermato con 162.000 voti come il miglior romanzo del 2011 Rai tg1, secondo il sondaggio della rubrica Billy, offre una trama lineare, tradizionalmente intesa secondo uno sviluppo logico-temporale, dove il tempo non fa capricci e rispetta le sue regole. La trama prevale sull’intreccio, nessuna sovrapposizione, nessuna proiezione in avanti, nessun flash-back. Solo alla fine c’è un brusco salto all’indietro, che spiega e chiude una vicenda fin lì piuttosto grigia, che si conclude con un vissero tutti felici e contenti.
I due romanzi ottocenteschi, posti nello scaffale della libreria di casa della protagonista, tradiscono il gusto dell’ambiente familiare in cui si svolge gran parte della vicenda: La Signora dalle Camelie di Alexandre Dumas figlio e Storia di una capinera di Giovanni Verga. Non può non avere significato l’aver infilato, l’autrice, tra questi due libri, una lettera sconvolgente e rivelatrice che la madre scrive alla figlia per svelarle il terribile-meraviglioso segreto. Terribile perché ha privato la figlia di vent’anni di felicità insieme al suo uomo e alla figlia, data per morta in sul nascere; meraviglioso perché rivela che la figlia è viva ed ha, a sua volta, una figlioletta.
E’ il trionfo dei buoni sentimenti, con un po’ di strappa lacrime, come nei fotoromanzi di una volta, quali si raccontavano negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso sui rotocalchi ”Sogno”, “Bolero” e “Grand’Hotel”, le letture delle giovani sognatrici di quel tempo, prima che gli sceneggiati televisivi imponessero altri gusti.
La vicenda si svolge tra Siena e Parigi. Dana Sampieri è una ragazza di diciotto anni, alle prese, con gli esami di stato e con lezioni di inglese e di cucito. Il classico esempio di ragazza borghese, di famiglia benestante, figlia unica, avviata a fare un buon matrimonio, regolarmente scelto dalla famiglia, ovviamente per il suo bene. I genitori, molto attenti a non far mancare niente alla formazione di questa loro figliuola, occupatissimi nei loro affari, piuttosto freddi e distanti, la madre soprattutto, la trascurano sul piano affettivo. Unica finestra è l’amica Flavia, alla quale affida per lettera afflizioni e speranze, come in un romanzo semiepistolare. Per non contraddire i genitori sembra stare al progettato matrimonio con il promesso sposo, un giovane avvocato dalle brillanti prospettive professionali. Ma presto s’invaghisce di Andrè, un giovane pittore, rimasto orfano con una sorellina, il quale dipinge per strada volti di donne. Dana approfitta dell’assenza dei genitori, lontani per affari, per abbandonarsi totalmente a questo amore; ne resta incinta. Decide allora col suo uomo di trasferirsi a Parigi; ma, quando lo dice ai genitori, rivelando anche il perché, non accade nessuna tragedia familiare. Anzi essi l’aiutano ad andarsene e a sistemarsi nella capitale francese. Un banale incidente fa nascere prematuramente la bambina; ma…morta. Così dicono e così si fa credere al lettore, che “vede” perfino la bara bianca della piccola. Lei è distrutta, non vuole più rimanere a Parigi, non vuole più stare col suo uomo; se ne torna a Siena, scrive al suo ex promesso, con lui si sposa; se non è felice è comunque serena. La coppia non può avere figli e lei ha una specie di giardino d’infanzia ed è paga di questo lavoro che la fa stare accanto ai bambini. Rachele, in particolare, la affascina coi suoi occhi; è figlia di Margherita, una giovane donna, che, risulterà essere figlia di Dana e Andrè per rivelazione di un’infermiera dell’ospedale in cui la donna aveva partorito, e della madre, che sul punto di morte, le dice di cercare la lettera posta tra Dumas e Verga. Era stata proprio la madre di Dana a corrompere i medici di quell’ospedale, sottrarre la neonata, farla passare per morta, affidandola poi ad Andrè, al quale aveva scritto una lettera dicendogli che Dana era troppo giovane e caratterialmente debole per assumersi responsabilità di madre.
Importante nella vicenda è Flavia. E’ con lei che la giovane si confida. E’ lei che riesce a sapere la verità, a ritrovare il giovane pittore e a ricomporre la famiglia dell’amica. Dana, infatti, divorzia dal marito e riprende a vivere col suo Andrè, con la figlia Margherita e con la nipote Rachele.
Ma anche i malvagi non erano malvagi. I genitori di Dana, che sembravano trascurare la figlia, in realtà vivevano il dramma di una grave malattia che aveva colpito la madre, e che la faceva viaggiare e soggiornare per cure ora in India ora in Svizzera. La sottrazione della bambina, per quanto crudele oltre ogni immaginazione, si giustifica con l’eccessiva apprensione della madre che non ha fiducia nella figlia e la ritiene incapace di affrontare situazioni di disagio.
E’ una storia non male, questa della giovane salentina di Taviano, scritta in maniera chiara e semplice. La scrittura è così rapida ed essenziale da far sembrare il testo un canovaccio per successivi sviluppi narrativi. I personaggi si tengono, e tuttavia mancano di autonomia. Dana è doppia. C’è una Dana che non sopporta l’oppressiva pianificazione borghese perfino dei sentimenti e si ribella, scegliendo l’amore. Ma c’è una seconda Dana, che si conforma in maniera troppo convinta per non essere artificiosa e rispondente all’ideologia del romanzo. E poi c’è Andrè, abbandonato, che non fa nulla per cercare la sua Dana, privo di quell’istinto che, da che mondo è mondo, governa i giovani innamorati. I più compatti, come personaggi, sono proprio i genitori di Dana, i coniugi Sampieri, gli interpreti del costume borghese.
Comunque inteso, questo romanzo apre nuovi scenari nell’universo dei giovani e della famiglia. La ribellione non è più vista come la risposta definitiva all’oppressione familiare; c’è il monito ai giovani di non giudicare sbrigativamente certi comportamenti dei genitori, che possono avere ragioni serie; c’è il monito ad essi di fidarsi di più dei figli e di non considerarli degli incapaci; c’è l’esigenza di costruire una famiglia finalmente intesa non come occasionale e scontata unione di un uomo e una donna, ma come ricerca e recupero di sentimenti e di valori durevoli e condivisi. Romanzo di formazione per certi aspetti, formativo per altri.

domenica 1 luglio 2012

Monti e il baratro che cammina

Il capolavoro retorico di Mario Monti è il baratro che cammina. Ha detto: quando ho preso in mano il governo l’Italia era sull’orlo del baratro; poi son riuscito ad allontanarla da lì, ma il baratro ci ha inseguiti e noi non siamo riusciti ad allontanarci abbastanza; e ora siamo ancora sull’orlo. Per dirla papale papale, la situazione è ancor più drammatica di prima, quando almeno c’era un Berlusconi con cui prendersela e a lui si imputava strumentalmente e stupidamente la causa di tutti i mali, nazionali ed internazionali. Ancora oggi si sente da quel partito tentacolare della sinistra italiana che la colpa di Berlusconi, non potendone oggi imputarne altre, è stata quella di negare la crisi. Obiezione meschina, perché la crisi c’era e non per colpa di Berlusconi; poi poteva essere gestita in maniera teatrale con urla e strepiti, con si salvi chi può e giaculatorie varie, o esorcizzata perfino negandola per infondere coraggio al Paese. Sbagliava Berlusconi negando o sbaglia Monti insistendo col baratro che cammina? Nessuno dei due, evidentemente; giacché la realtà non la cambi con le chiacchiere né in un senso né in un altro. Stavamo male, stiamo peggio! Ma se lo vengono a sapere i tedeschi del “baratro che cammina” si faranno grasse risate e non potranno fare a meno di considerarlo una lustige Person (un personaggio comico).
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La Camera ha approvato definitivamente la riforma del lavoro, elaborata da Elsa Fornero e definita dal presidente della Confindustria Giorgio Squinzi una “boiata”. Così Monti può presentarsi al vertice europeo del 28-29 giugno con in tasca la risposta che l’Europa voleva da noi in materia di lavoro. Il politicamente corretto del ministro Fornero impone di considerare i cambiamenti apportati, specialmente sul versante dei licenziamenti facili, come utili perché nessuna proposta può considerarsi immodificabile. Fornero dixit. Ma sappiamo perfettamente che se non dovesse dare i frutti sperati la colpa cadrà proprio sui cambiamenti apportati. Intanto la Fornero fa parlare di sé. Ha detto che il lavoro non è un diritto è un merito. L’affermazione ha in sé una certa verità, bisognerebbe specificarla la verità. Se si tratta di un lavoro posto a concorso è evidente che il merito è richiesto. Ma se si tratta di un lavoro e basta che serve ad una persona a mantenersi e a mantenere la famiglia è un diritto. Se no come farebbe a spiegare la Fornero l’art. 4 della Costituzione, che recita “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”?
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Cantiamo vittoria, duplice, sulla Germania. Gli Azzurri a Varsavia, il 28 giugno, hanno vinto l’ennesima sfida coi tedeschi, buttandoli fuori dall’Europeo di calcio; i Grigi a Bruxelles. Nella stessa sera Mario Monti ha sconfitto – così dicono i giornali – la Merkel, facendo passare la sua linea dello scudo a difesa dallo spread dei paesi virtuosi, tra cui evidentemente l’Italia. Sulla prima vittoria non c’è alcun dubbio, Mario Balotelli ha rifilato due reti fantastiche al bravissimo portiere tedesco, che alla fine è sceso sotto, come si dice in gergo, per partecipare alla manovra dei suoi compagni, nel tentativo di agguantare un improbabile pareggio. Sulla seconda non si può dire altrettanto, occorre tempo. Casini ha esultato – ma ormai non fa che esultare – perché finalmente l’Italia è ben rappresentata nel consesso internazionale. Speriamo che Monti sia riuscito veramente a combinare qualcosa di buono. Quanto si vede e si sente in giro induce quanto meno a non enfatizzare. Lo spread sale e scende a capriccio e l’economia italiana è così disastrata come quella di un paese in guerra.
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Massimo D’Alema, in un’intervista al “Corriere della Sera” (domenica, 1 luglio) ha rivendicato ai socialisti e al francese Hollande il successo del vertice europeo del 28-29 giugno. Rivoltosi all’intervistatore Dario Di Vico ha detto: “Legga il documento approvato dai socialisti europei prima del Consiglio di Bruxelles. Troverà anticipati tutti i punti qualificanti dell’accordo successivamente raggiunto tra i governi. Tutti. Il meccanismo anti spread, la clausola salva-banche e tante altre cose. […]. Senza la vittoria di Hollande alle elezioni francesi non sarebbe stato possibile ottenere nessun risultato”. Poi ha cercato di cooptare Monti al centro-sinistra: “In un nuovo centrosinistra europeo Monti può trovarsi a perfetto agio. E’ una personalità liberale che con la sua azione può mitigare le resistenze stataliste che ci sono ancora tra i socialisti”. Non sembra proprio una bella prospettiva per Monti, che non è abituato a fare il politico che “mitiga”. Questo lascia pensare che i problemi più seri per Monti arriveranno quando si entrerà nel semestre bianco e il Presidente della Repubblica non potrà più sciogliere le Camere. Allora si scateneranno tutti, coperti dal divieto costituzionale lo metteranno sulla graticola.
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Intanto godiamoci questo avvilente spettacolo da provinciali, quali inguaribilmente siamo. L’Italia degli M & M (Mari e Monti). Mario Balotelli è una stella, è il nuovo italiano, e tutto questo perché non è bianco; e poco importa se è un discolo. Mario Monti è una stella pure lui, e tutto questo perché non è un politico; e poco importa se tanto rispetto per gli italiani proprio non ce l’ha. La stampa italiana sta cercando di creare un’opinione pubblica da tifo, intrecciando politica e sport, costume e cultura. Se tanto dovesse continuare ci ritroveremo con una tifoseria tanto sguaiata da produrne un'altra uguale e contraria. Il modo come si sta strumentalizzando la nazionale di calcio e il giocatore Balotelli è vergognoso e pericoloso. Immagino che se oltre al negro in nazionale ci fosse un omosessuale dichiarato saremmo al top della strumentalizzazione. Ma così l’Italia si spaccherebbe tra tifosi della nazionale e tifosi dell’antinazionale. Il rischio è di avere in odio perfino il tricolore se questo viene usato strumentalmente per avvolgere idee e principi che non saranno mai condivisi almeno da metà degli italiani, col sospetto che perfino l’altra metà faccia finta per pusillanimità, altrimenti detta politically correct, di condividerli. Non dimentichiamo che solo di recente gli italiani hanno recuperato i segni di italianità e di nazione dopo la strumentalizzazione del regime fascista. I “nuovi” italiani stanno bene, purché non se ne faccia una bandiera.