domenica 22 luglio 2012

Monti: il contagio

Una settimana, 16-22 luglio, di eclisse per Mario Monti, oscurato da Napolitano e dall’orribile faccenda della trattativa Stato-Mafia del 1992. Appena un avvio con la lettera di Monti al governatore della Sicilia Raffaele Lombardo per chiedergli di confermare le sue annunciate dimissioni entro il 31 luglio, poi più niente o quasi, come le solite frasi di circostanza per i vent’anni della strage di Via D’Amelio, in cui trovarono la morte il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta, l’accoglienza all’aeroporto per la cooperante sarda Rossella Urru liberata, regolarmente dopo pagamento di riscatto, regolarmente negato. Poi il contagio spagnolo: lo spread a quota 500 che lo travolge e fa pensare ad elezioni anticipate in autunno.
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La Sicilia è una delle regioni a statuto speciale e perciò gode di una certa autonomia. Perché questa intromissione di Monti? Così l’ha definita Gianfranco Fini, i cui uomini sono nella maggioranza che sostiene la giunta siciliana, e che ha ventilato l’ipotesi che Monti lo abbia fatto su suggerimento di qualcuno. Fini sospetta che Monti abbia dei suggeritori. Se lo dice lui! Fini, peraltro, nega che la Sicilia sia a rischio default. Nell’intervento di Monti vede una manovra elettorale. Certo è che Monti opera come un Commissario Straordinario con pieni poteri. Quel che non si capisce in questo Paese è perché ciò che non viene consentito ad un governo politico, votato democraticamente dal popolo, è consentito ad un governo nominato dal Presidente della Repubblica. Un governo, che, di fatto, opera come una dittatura, mascherata da una maggioranza parlamentare, che si compone di due partiti che in genere quando non si scannano si sbranano.
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Monti ha subito l’eclisse di Napolitano. Il Presidente della Repubblica ha sollevato davanti alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo per la faccenda delle intercettazioni relative alla cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Il Presidente è stato intercettato indirettamente e le sue parole sono agli atti dell’inchiesta invece di essere immediatamente distrutte, come chiede la Presidenza della Repubblica perché lesive dell’Istituzione. Si è subito levato il coro di approvazione nei confronti del Presidente della Repubblica, ad eccezione di Di Pietro, il quale ha detto che Napolitano non difende ma mortifica le istituzioni, di cui è il massimo garante. Di Pietro non ha torto. C’è, infatti, da chiedersi: ma qui dobbiamo fare astratto esercizio di rispetto della Costituzione o cercare la verità su uno dei più gravi casi criminosi della storia della Repubblica? E se le due cose non sono conciliabili, quale delle due sacrificare? A parole Napolitano sta con la ricerca della verità, nei fatti sta per limitarla entro astratti confini costituzionali.
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Intanto da quando Berlusconi è ridisceso in campo c’è una nuova ondata di inchieste giudiziarie nei suoi confronti. Una è davvero curiosa: secondo i giudici di Palermo sarebbe vittima di estorsione da parte di Marcello Dell’Utri. Insomma Berlusconi avrebbe dato a Dell’Utri dei soldi per comprare il suo silenzio sui suoi affari con la mafia. Altra faccenda intricatissima. La verità storica, non giudiziaria, probabilmente è che agli inizi degli anni Novanta Berlusconi entrò in contatto con la mafia. Per iniziativa di quale delle due parti non si sa. Si disse che Cosa Nostra voleva che Berlusconi le cedesse una rete televisiva. Mah! La verità potrebbe essere un’altra e cioè che Cosa Nostra voleva un grande e fortunato uomo d’affari per riciclare ingenti capitali sporchi. Dell’Utri sarebbe stato il tramite di quest’incontro. Una villa di ventuno milioni di euro, dati da Berlusconi a Dell’Utri per pagarla, non può essere un regalo. Fin qui lo capiscono pure al Gottolengo. Ma perché dovrebbe configurarsi il reato di estorsione? Berlusconi può sempre dire che lui i soldi a Dell’Utri gliel’ha dati per fraterna amicizia, come per fraterna amicizia gli ha riservato un loculo nella tomba di famiglia ad Arcore. Potrebbe dire; e Berlusconi lo dice! Ma i giudici non possono fare proprie argomentazioni, magari fondate ma prive di prove, che sono rumores.
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Inquieta il comportamento del giudice Paolo Borsellino, che, intervistato da due giornalisti francesi, due giorni prima della strage di Capaci, pur senza entrare nello specifico dell’incontro Berlusconi-mafia, dà per certo che Mangano, lo “stalliere di Arcore”, era la testa di ponte della mafia al Nord e addirittura passa delle carte ai due giornalisti dicendo “non dite che ve le ho date io”. Tutto questo lo abbiamo vista su La 7 la sera di giovedì, 19 luglio, in occasione del ventennale della strage di Via D’Amelio. Una strage che ha aspetti incredibili, come la sparizione dell’agenda rossa di Borsellino. Dove andò a finire? Racconta l’ex giudice Ayala, anche lui del pool antimafia, che, giunto in Via D’Amelio immediatamente dopo lo scoppio della 126 carica di esplosivo, riconosciuto il corpo di Borsellino e quel che rimaneva della sua auto, prese la borsa dove c’era l’agenda rossa, e la consegnò ad un ufficiale dei carabinieri, il quale sparì per sempre. Ayala non è in grado di dire neppure se era in borghese o in divisa. Un filmato ritrae quel “soggetto” con la borsa che si allontana. Un signore in borghese! Ma, allora, Ayala consegna un reperto così importante ad uno sconosciuto? Mi chiedo che cosa sarebbe accaduto e di quanti reati sarebbe stata accusata una qualsiasi altra persona che avesse compiuto quel gesto.
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Questa strage rientrava nella famigerata “trattativa Stato-Mafia”. A detta di Napolitano e di Monti “Non c’è alcuna ragione di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità, ritardi e incertezze nella ricerca della verità”. Peccato che l’uomo non abbia due bocche come ha due mani. Si potrebbe dire: non sappia la bocca destra quello che fa la bocca sinistra. Napolitano, infatti, ha sollevato davanti alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione sulle intercettazioni che lo riguardano in quanto Presidente della Repubblica nei confronti della Procura di Palermo che sta cercando di fare chiarezza sulla morte di Borsellino. Come dire: per rispettare un’astrattezza costituzionale – altro che ragion di Stato! – si sacrifica la verità. Che equivale a dire: italiani, mettetevi l’animo in pace, del perché e per colpa di chi è morto Borsellino nessuno mai deve sapere. In compenso, di qui all’eternità, potete compiacervi dei soliti bla bla bla istituzionali, che ogni anno ricordano e commemorano l’eroe Borsellino. Un vero peccato che a levare la voce del cittadino sia il solo Di Pietro nel coro di osanna ipocriti a Napolitano, che qualunque cosa dica o faccia, è l’optimum costituzionale!
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I teoremi – si sa – sono anch’essi astrazioni. Ma, che dire delle tante sostituzioni che in seguito alle stragi del 1992 si fecero a livello governativo? Mancino sostituì Scotti al Ministero degli Interni, Conso sostituì Martelli alla Giustizia, fu licenziato il responsabile dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato. Che pensare se i duri della lotta alla mafia, come Scotti, Martelli e Amato, vengono sostituiti con uomini più disponibili a cedere? E infatti Conso revocò a 334 detenuti il regime di carcere duro, meglio noto col nome di 41 bis. “Mia sola iniziativa” ha più volte detto Conso. E che pensare del Presidente della Repubblica Scalfaro, che sceglie il capo dei cappellani penitenziari per dire che il tempo di Niccolò Amato era scaduto? Lasciamo stare se tutto questo fu fatto per il bene di tutti e per il male di qualcuno. Un dato è certo: il metodo osservato non è affatto da democrazia, che i tanti suoi sacerdoti dicono di voler sempre salvaguardare; lo vedono tutti che è un metodo che non si discosta minimamente da un’altra Cosa Nostra.

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