domenica 29 maggio 2016

La Costituzione che s'ha da fare


Sono del parere che un testo approvato da un organo politico non possa essere revisionato che dallo stesso organo politico. Mi spiego: se la Costituzione della Repubblica Italiana è stata elaborata e approvata dall’Assemblea Costituente eletta ad hoc, la sua revisione dovrebbe avvenire per mano dello stesso organo, appositamente eletto. Questo non è stato possibile. Ogni tentativo fatto negli anni passati (le famose bicamerali) è miseramente fallito. Troppi interessi immediati rendevano complicato il raggiungimento di un esito super partes e super tempora, come la Costituzione richiede. La revisione di forza, fatta dal governo Berlusconi, trovò l’opposizione preconcetta e violenta da parte dell’universo mondo antiberlusconiano, culminata col referendum abrogativo del giugno 2006. Ce le ricordiamo tutte le laiche rappresentazioni sulla Costituzione “più bella del mondo”, che non si tocca! Il ricatto di ieri da parte degli avversari di non partecipare alla discussione e alla votazione in aula per delegittimare la riforma è lo stesso ricatto degli antirenziani di oggi, che non hanno voluto né discutere né partecipare al voto. In Italia è così: basta il pan per focaccia!   
A parti rovesciate e con argomentazioni scambiate la revisione l’ha fatta il governo Renzi. Ma, a differenza dell’ira nazionale, che si abbattè con successo su Berlusconi e sulle sue cose, contro Renzi non ci sarà nessuna crociata. Ci sarà la nota opposizione arlecchinesca, che va da qualche veterocomunista a qualche suonato reduce della destra, oltre ai grillini, che, povere anime vaganti, si masturbano con le loro non verificate differenze. A ottobre perciò sarà l’ennesimo trionfo di Renzi. Non ci vuole molto a capirlo: nessuno dei circa mille parlamentari odierni vuole mettere a rischio il proprio seggio; ognuno strapperà la durata fino al 2018 unguibus et rostris. Il problema riguarda i cittadini normali, che, sia pure a fatica, intendono liberarsi da appartenenze, ormai improbabili, e ragionare sulle cose.
Nello specifico, chi è di destra, identitaria o sociale che sia, la deve votare o no questa riforma? Ecco, questo –  direbbe Shakespeare – è il dilemma.
Alcuni punti fondamentali di questa riforma sono stati temi costanti di tutte le parti politiche, di destra, di centro e di sinistra. Sveltire le procedure di legge attraverso l’eliminazione del bicameralismo, rafforzare l’esecutivo per rispondere ad esigenze politiche diverse su urgenza europea, ridurre i costi della politica non c’è chi da trent’anni non li predichi e non li faccia suoi come propositi politici da concretizzare.
Siccome qui si ragiona da un punto di vista di destra, giova qualche ricordo. Uno dei primi, se non il primo in senso assoluto a parlare di riforma della Repubblica fu Giorgio Almirante nei primi anni Ottanta e da questa sua proposta gli derivò, dopo anni di ostruzionismo, qualche riconoscimento. Almirante proponeva una repubblica di tipo presidenziale, con maggiori poteri al presidente, che fosse eletto direttamente dal popolo e avesse più potere decisionale. Sintetizzo per necessità scrittoria. Qualcosa di una simile repubblica – i tempi da quando certe cose le diceva Almirante  sono cambiati – c’erano nella riforma del governo Berlusconi, poi bocciata dal referendum, e ci sono nella riforma di Renzi, che si appresta ad affrontare il giudizio popolare.
Se non fosse perché siamo in Italia tutti dovremmo essere d’accordo, perché in fondo chi più e chi meno certe cose tutti abbiamo sempre detto di volerle e di condividerle. Ma siamo in Italia e, come diceva il buon Machiavelli, si fa quel che conviene fare hic et nunc. Tra volpi e leoni occorre essere volpe e leone, ovvero tra italiani occorre essere italiano. Se fai l’austriaco o lo svedese, sei fottuto.
E, allora, ci si chiede: a chi giova una simile riforma? La risposta è immediata: giova a Renzi. Il quale, forte anche di una legge elettorale, l’Italicum, tra premio di maggioranza e liste parzialmente bloccate, si assicura il potere per almeno altri dieci-venti anni.
Se questo è un bene o è un male per l’Italia neppure se lo chiedono gli italiani. Temono che il combinato disposto “riforma-Italicum” congeli la democrazia, la riduca ad un mortificante gioco paroliero. Un po’ come accadde nella Roma dei Cesari, quando l’oratoria, ovvero il confronto politico, non era più quella dei tempi repubblicani, viva e nutrita di temi ed interessi vivi e vivificanti, ma pura finzione accademica, una sorta di recitazione.
Preoccupazione fondata, a dire il vero. I meglio disposti, tra i sostenitori della riforma – e tra questi non ci sono davvero Renzi e i renziani – riconoscono che la riforma poteva essere diversa, migliore, ma qualsiasi legge – dicono – va declinata con le circostanze reali. Una diversa forma di revisione della Carta costituzionale non è stata possibile, non sarebbe possibile. La realtà è sotto gli occhi di tutti e nessuno ha il pudore di usare argomenti da cristiano. Renzi usa toni e argomenti da Menenio Agrippa, convinto di rivolgersi a dei bifolchi, e di rimando contro di lui – si rifletta su quello che dice Brunetta – si rovesciano stupidate del tipo: bisogna votare contro per mandare a casa Renzi.  

Di qui a ottobre saranno mesi di chiacchiere e di insulti, mentre nessuno si preoccupa di stampare il testo della riforma e volgarizzato con semplici spiegazioni per i cittadini elettori. Non sarebbe la soluzione di tutti i problemi, ma almeno si tenterebbe di coinvolgere i cittadini e di metterli nelle condizioni di farsi un’idea. Cosa ben lontana che immaginano i capi di stato maggiore delle truppe politiche, che al momento opportuno proclameranno la mobilitazione generale.  E, fucile in spalla, chi ha capito ha capito!   

domenica 22 maggio 2016

Francesco, Pannella e i vecchi narcisi


Una delle ultime lettere di Marco Pannella, morto giovedì, 19 maggio, all’età di 86 anni, scritta il 22 aprile scorso dall’ospedale in cui si trovava, era indirizzata a papa Francesco e si concludeva con uno struggente “Ti voglio bene davvero”. Papa Francesco, appresa la notizia della sua scomparsa, ha subito espresso il suo cordoglio. Amorosi sensi, non proprio foscoliani.
Marco Pannella era uno dei grandi vecchi appassionati di papa Francesco; era in buona compagnia con Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano, Dario Fo. A pensarci bene, tutti vecchi narcisi, della politica e della cultura italiana. Narcisi atei, dichiarati! Uno più ammirevole dell’altro. Lo dico con convinzione e con un po’ di rammarico, non avendone di quelli nella parte politica nella quale mi riconosco. La mancanza mi mortifica e mi frustra. Quanti come me? Spesso in Italia ti trovi ad andare in un luogo della politica avendo accanto mediocrità e schifezze di compagni; e spesso i migliori compagni che vorresti avere vanno in un’altra direzione.
Tanto non m’impedisce di pormi alcune domande. Perché tanti vecchi e tanti narcisi alla porziuncola di questo papa, che più che un religioso pare un sindacalista a tempo pieno, che se ne strafotte delle anime, della dottrina, della spiritualità, tutto impegnato a fare prediche di stampo veterocomunista? La risposta è già nella domanda: tutti uniti nel narcisismo e nel comunismo, vecchio e nuovo; tutti uniti nell’odio di classe, nella rabbia antiricchezza. Questo papa vorrebbe che tutti gli esseri della terra fossero poveri; non tollera che ci siano dei ricchi. Un francescanesimo, il suo, che va oltre la regola francescana. San Francesco diceva agli altri: voi volete essere ricchi? Siatelo, il vero bene è la povertà. A noi piace essere col vero bene; e perciò siamo con la povertà. E, stando alle parole di Dante “’l venerabile Bernardo / si scalzò prima…[poi] scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro”. A dire il vero i nostri Pannella, Napolitano, Scalfari e Fo sono poco paragonabili a Bernardo, a Egidio e a Silvestro. Ma non facciamo i pignoli; si può essere diversamente francescani.
In uno dei fioretti di San Francesco si narra dell’ammansimento del lupo di Gubbio. Un lupo particolarmente feroce, che seminava il terrore nelle contrade di quelle splendide località umbre. Tutto nel medioevo era simbolo, si comunicava con simboli, si educava con simboli. Quell’ammansimento senza bastonature, ma anzi con la dolcezza dell’approccio conoscitivo e carezzevole, voleva dire che la parola è più forte del bastone e che non c’è lupo che non ceda alla bontà. Vuol dire, però, che anche i lupi, i più feroci, percepiscono immediatamente i sentimenti di chi si trovano di fronte. Il lupo di Gubbio avrebbe subito sbranato Francesco prima ancora che questi rivelasse la sua natura buona se non avesse avuto il dono naturale di conoscere subito l’altro.
Probabilmente avevano ragione i latini: pares cum paribus facillime congregantur. Francesco e i signori su riferiti sono tutti della stessa pelle, si ritrovano tutti nella stessa ideologia di fondo, nella stessa tipologia umana.
C’è qualcosa in questa nobilissima compagnia di santi vegliardi che inquieta. Come mai un papa, che dovrebbe guardare ai giovani, al loro futuro di credenti e di cittadini, ovvero di cittadini credenti, è così amato dai vecchi, che stanno per dare l’anima a Dio? A Dio, lo diciamo noi, perché loro non sanno nemmeno se ce l’hanno un’anima ed escludono che ci sia Dio.
E’ un aspetto grave. Il papa dovrebbe indicare la via dell’avvenire. “Io sono la via, la verità, la vita” dice Gesù Cristo e invece Francesco si compiace di avere l’affetto e l’ammirazione di tanti vecchi che sono al termine della loro onorevolissima esistenza. Francesco indica la via della povertà. Ma i giovani seguono quella del successo e della ricchezza o almeno del benessere. E’ nella loro natura e nella loro condizione.
Francesco è il simbolo di una società vecchia, rivolta all’indietro; ecco perché non ha nulla da dire alle nuove generazioni. Esse non hanno più guide spirituali; si scoprono sempre più masse informi prive di individualità, esseri nel mare magnum dell’essere, senza prospettive, senza valori, senza speranza che non sia quella di alzarsi il giorno dopo con un i-phon di nuova generazione.
Francesco, come già gli altri della compagnia, ha messo da parte i valori naturali e spirituali che hanno caratterizzato diecimila anni di storia. La dimensione spirituale non conta più, ogni differenziazione è bandita, perfino il genere degli uomini è contestato: si può essere maschi o femmine quanto si vuole, ci si sposa maschi con maschi e femmine con femmine, si prende in affitto l’utero di una buona donna (senza ironia!) et voila il pupo è fatto. Non importa di chi è figlio. Non è importante conoscere i genitori. Sono tutti uguali, l’uno vale l’altro; e via pure il nome di papà e di mamma. Genitore uno e genitore due. Una volta si era figli di mamma, per sottolineare l’aspetto umano della persona; o figli di puttana, per sottolinearne la scaltrezza. Oggi si è figli e basta; anzi, prodotti di laboratorio, orologi, macchine, elettrodomestici: pupo-robot.

A pensarci bene, sembrano tutti davvero dei robot, ognuno impostato in un certo modo per un certo fine. Napolitano è chiuso nel mondo della politica ed altro non vede fuori di sé. Scalfari è pago del suo essere dubbioso: fuori dal dubbio non c’è nulla. Fo si compiace della sua dotta comicità e d’altro non si preoccupa: fuori dal suo palcoscenico non c’è nulla. E Pannella? Anche lui, soprattutto lui. Il suo impegno era di portare i diritti civili a tutti, anche agli incivili, a quegli elementi che dei diritti civili si servono per meglio nuocere alla società: fuori dai diritti civili per Pannella non c’era nulla. Tutti uomini eccellenti, ma ad una dimensione, quella narcisistica. A tutti questi amici e sodali Francesco si è ben guardato dal dire: amici miei, fuori dagli stagni dove vi compiacete specchiandovi c’è un piccolo particolare, che lo crediate o meno, c’è Dio. Ma Francesco…   

domenica 15 maggio 2016

Renzi, il Vangelo e la Carta


Matteo Renzi ha ragione di ricondurre tutto a sé, sia nella buona che nella cattiva sorte, al punto che se la sua più importante impresa, la riforma costituzionale, non dovesse passare al referendum confermativo di ottobre, lascerà la politica. Ipse dixit.
Ovviamente non lascerà nulla. Il suo è il tipico modo di comportarsi dello spaccone. Ce ne sono di due tipi, di spacconi. Uno è quello che sa di valere poco e bluffa, si ostenta forte per far colpo sugli altri e far crescere il suo credito sociale. Se va, va; se non va, non ha perso niente. L’altro è quello che effettivamente ha una smisurata autostima e tiene a farlo sapere. Renzi appartiene al secondo tipo. Ma ha un difetto, che lo tradisce. Non riesce a gestire lo scarto tra ciò che è e ciò che rappresenta e teme che gli altri glielo contestino; è, come si dice, il suo complesso.
Come presidente del consiglio viene, nell’Italia repubblicana, dopo uomini come De Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti, Craxi, Berlusconi, per citare i più noti e importanti. Mai, neppure lontanamente, questo scarto è stato tradito da quei presidenti. E come loro: Togliatti, Nenni, Saragat, Einaudi, La Malfa, Scalfaro, Berlinguer, Almirante. Erano, quelli, assai più importanti, come uomini, di ciò che rappresentavano come politici. E stiamo parlando anche di presidenti della repubblica e di grandi leader, tanto più valorosi quanto più se la dovevano vedere con altri uomini della loro vaglia e in situazioni anche assai più difficili e drammatiche.
Si dirà: non si possono fare simili paragoni; e infatti non li facciamo. Vogliamo solo mettere in evidenza quello scarto caratteriale che c’è in ognuno di noi tra ciò che siamo e ciò che pensiamo di essere. Scarto che nelle persone mature e colte non traspare; in Renzi colpisce come un raggio laser negli occhi.
Dopo l’approvazione delle Unioni civili, modo di dire per nascondere i modi di fare, Renzi ha detto, come a rispondere alle critiche della Chiesa, che lui non ha giurato sul Vangelo ma sulla Carta. La sua solita smargiassata. Si liscia l’asso come al tressette, perché sa che la carta più forte ce l’ha il compagno. Lui l’asso se lo liscia con tutta quell’umanità che dalla legge sulle Unioni civili trae vantaggio; ne capta la benevolenza.
Gioca sul velluto, intorno non ha che rottamati e di fronte dei velleitari da rottamare. Neppure la Chiesa ha oggi granché da opporre all’ex sindaco di Firenze. Il quale si esprime per frasi fatte e ripetute fino alla noia. Del resto, che cultura ha mai potuto maturare? Le sue battute sembrano il punto d’approdo di tutto il suo sapere e operare, come se più che per la cosa in sé operasse per confezionarsi la battuta da esibire. Poco importa se sono soltanto delle banalità da bar dello sport. Questa me la preparo per la Chiesa – avrà pensato da tempo – et voila: non ho giurato sul Vangelo ma sulla Carta.
Ma la Carta è sicuro di conoscerla? O ha giurato su una qualsiasi? L’approvazione è passata, infatti, con l’ennesimo voto di fiducia, il nr. 53 in poco più di due anni, dal febbraio 2014 al maggio 2016, una media di 2,2 al mese che rende questo governo, ancor più dei precedenti, pur abusanti di questo “eccezionale” istituto, un’autentica dittatura. Sarà pure alla camomilla, ma sempre dittatura è. Io detto – dice Renzi – e voi eseguite.
Ora il voto di fiducia non significa che il governo è forte, caso mai evidenzia la sua debolezza; significa che non ha o che non controlla una maggioranza. La minaccia di passare allo scioglimento delle Camere, nell’eventualità di un voto negativo, spaventa i parlamentari che all’idea cadono in depressione. Sicché, non è un voto alla cosa in sé, neppure un voto al governo, ma un voto a se stessi: il seggio come psicofarmaco. Questa è la triste considerazione che va fatta. Un parlamento votato da una legge, bocciata come incostituzionale dalla Consulta, e perciò, se non formalmente, sostanzialmente composto di abusivi, vuole rimanere a dispetto di Dio e degli uomini fino all’ultimo. Renzi ne è il garante; Renzi è il forte di una masnada di deboli e depressi.   
I suoi presunti avversari, interni ed esterni, paventano derive autoritarie. Ma quando mai! Intanto non ci siamo coi tempi, perché la deriva autoritaria è già in atto, senza manganelli, polizia segreta, tribunali speciali, confini di polizia ed altro armamentario tipico delle dittature che non si vergognano di mostrarsi e di dirsi tali. Quella di Renzi è una dittatura, bella e buona.
Ma torniamo alla Carta, che, come uso, attraversa tutto il corpo umano, metaforicamente parlando, con grande disinvoltura. Al suo articolo 72, a proposito di approvazione di leggi, dice: “Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza”. Quale urgenza c’è mai stata in tanti voti di fiducia? Il voto di fiducia consente di scavalcare tutto l’iter dell’approvazione di una legge articolo per articolo, cancella gli emendamenti e impedisce il dibattito; una sorta di taglio del famoso nodo di Gordio con un colpo di spada.. Renzi ha posto la questione di fiducia perfino per leggi, come quella sulle Unioni civili, che incideranno anche antropologicamente sulla società italiana. Ha trattato un problema così complesso e grave come l’intervento per il crollo di un cavalcavia. Prepotenza o ignoranza?
Ma Renzi ha un’idea tutta sua dell’urgenza. Prima le cose non si facevano mai e, avendo egli capito perché non si facevano, ricorre al voto di fiducia che fa sfrecciare il governo sul traguardo come un bolide di Formula Uno. Ma, allora, per governare questo paese ci vuole la dittatura? La Carta non prevede nessuna dittatura, anzi è decisamente contro. Ma la Carta non poteva neppure prevedere uno come Renzi.

domenica 8 maggio 2016

Avvocati difensori o liberi cittadini?


Dal Salento un caso a dir poco singolare. Gli imputati al processo legato all’operazione di polizia “Eclissi” davanti alla Corte d’Assise di Lecce hanno minacciato di ricusare gli avvocati che in sede di dibattimento negano l’esistenza della sacra corona unita e fuori del tribunale sostengono che la mafia nel Salento esiste – e come! – per dissuadere il governo dal togliere a Lecce la Corte d’Appello. Per gli avvocati è un bel problema. Difendendo la permanenza a Lecce della Corte d’Appello essi fanno gli interessi propri, ma con argomentazioni che nuocciono ai loro clienti. Non possono essere servi di due padroni, specialmente se uno dei due sono loro stessi. E qui si configurerebbe un difetto di deontologia, dato che un avvocato non può dire o fare cosa che nuoccia ad un suo assistito nell’ambito delle accuse di cui è fatto oggetto.
Cosa chiedono gli imputati di mafia? Che i loro avvocati abbiano una sola voce, quella della difesa dei loro assistiti, dentro e fuori del tribunale. Chiedono, insomma, ai loro avvocati di rinunciare al loro essere dei liberi cittadini e dei professionisti con le proprie opinioni, con le proprie capacità critiche, in grado e nel dovere di dare anche un contributo importante alla lotta alla mafia. Che, come ognuno sa, è il male dei mali della società meridionale e ormai anche, purtroppo, della nazione.
Ma il problema va ben oltre la sortita apparentemente stravagante di questi imputati e pone un quesito che interessa tutta la società: la sacra corona unita, esiste o non esiste più in questo angolo d’Italia? Secondo alcuni storici, Andrea Apollonio, per esempio, questa organizzazione ha cessato di esistere nel 2003. “La Sacra corona unita ha compiuto una parabola storica lunga, tutto considerando, circa un ventennio, esaurendo definitivamente la propria spinta propulsiva criminogena – in quanto mafia a vocazione monopolistica – nella prima parte del primo decennio degli anni Duemila. E, cerrto, ho avuto modo di riflettere sullo strano destino della Sacra corona unita: sottovalutata negli anni di massima espansione e radicamento, ampiamente sopravvalutata oggi, che non esiste più in quanto struttura mafiosa, ed è divenuta piuttosto un brand, un «marchio» che, ove possibile, la criminalità locale sfrutta per i propri abietti fini; ma che non risponde più alla realtà delle cose”. Questo si legge nelle pagine introduttive del suo recente volume Storia della Sacra corona unita. Ascesa e declino di una mafia anomala(Rubbettino, 2016). Questa affermazione, così netta e chiara, andrebbe nella direzione favorevole agli imputati del suddetto processo e darebbero ragione a metà agli avvocati che li difendono.
A metà perché, a rigor di logica, non si può sostenere una verità in un luogo e negarla in un altro. Gli imputati, quando chiedono agli avvocati di essere consequenziali, difendono se stessi; e questo è un loro sacrosanto diritto. Senonché, da che mondo è mondo, gli avvocati non difendono innocenti o colpevoli, difendono imputati e basta e nell’esercizio professionale fanno di tutto, entro l’orizzonte giudiziario, di far assolvere i loro assistiti o di ridurre al massimo la pena ove questi dovessero risultare senza dubbio alcuno responsabili e condannabili.
A questo punto, più che gli imputati a minacciare i loro avvocati di ricusarli, dovrebbero essere gli avvocati, tutti, con alle spalle l’intero ordine, a minacciare di non difendere più gli accusati di mafia, stante uno status insuperabile di conflittualità. Si profila un braccio di ferro davvero importante sul piano etico-professionale. Come venirne fuori?
Se si trattasse di reati comuni e generici si potrebbe dire che in fondo un avvocato che difende un assassino non è vincolato a dover difendere l’assassinio in generale anche fuori dal tribunale. Ma qui si tratta di mafia e il caso è completamente diverso, direi singolare. E’ proprio la singolarità della richiesta degli imputati di mafia che potrebbe loro nuocere, connotandosi essa come tipicamente mafiosa, e quindi del tutto contraria ai loro interessi se questi sono nel dimostrare di non essere mafiosi. La loro pretesa, infatti, di impedire ai loro avvocati di dire che esiste la mafia  non solo serve a se stessi a difendersi dall’accusa, che è sempre circostanziata,  ma tende a difendere i loro sodali che sono fuori. Se la Corte d’Appello dovesse lasciare Lecce i malavitosi, di ogni ordine e grado, sarebbero meno vigilati dallo Stato.

Qui la partita è assai più complessa di quanto appaia. La mafia, vera o presunta, rivendica il diritto e la forza di condizionare scelte importanti delle istituzioni. Se così non fosse, gli imputati di mafia potrebbero semplicemente affermare: la mafia esiste e dunque la Corte d’Appello non si muove da Lecce, ma noi che c’entriamo? E qui la parola passerebbe agli avvocati. I quali, pur convinti che la mafia esiste, devono fare di tutto, secondo la loro deontologia, per dimostrare che i loro assistiti nulla hanno a che fare con essa. Le cose nella giustizia hanno sempre funzionato così. Pretendere che dei professionisti si deprivino della loro componente sociale più importante, ossia di fare esercizio di libertà, se non è mafia, è qualcosa di peggio.

domenica 1 maggio 2016

Berlusconi a Roma fa er più


Il modo come Berlusconi è uscito dall’angolo in cui lo tenevano Salvini e la Meloni, l’uno per conto della Lega e l’altra di Fratelli d’Italia, ricorda come Omar Sivori, uno dei fuoriclasse della Juventus dei primi anni Sessanta del secolo scorso, riusciva, palla al piede, a liberarsi da un groviglio di avversari.
La vicenda romana, benché i protagonisti l’abbiano ingarbugliata con cambi di propositi, è di estrema semplicità e linearità. Candidato-sindaco a Roma per il centrodestra era stato inizialmente nominato dalla triplice Berlusconi-Salvini-Meloni Guido Bertolaso, il responsabile della protezione civile ai tempi di Berlusconi. Poi questi, sentiti i malumori del giorno dopo, aveva rinunciato, accampando le solite scuse di circostanza: mi voglio dedicare ad altro. Bertolascio uno! Successivamente era stato convinto a riaccettare, ma subito dopo Salvini e Meloni sono usciti allo scoperto e hanno detto, chiaro e tondo, che la sua candidatura non andava bene, che non reggeva al confronto con quelle forti degli avversari.
A questo punto iniziava un braccio di ferro tra Salvini-Meloni da una parte e Berlusconi-Bertolaso dall’altra, che doveva necessariamente finire, non col dorso della mano a toccare la superficie del tavolo, come accade nella gara sportiva, ma con la caduta definitiva del perdente, che doveva essere Berlusconi. Una sconfitta, la sua, che sarebbe dovuta essere un’uscita definitiva dalla scena politica.
Invece è accaduto che l’ex Cavaliere, con una mossa magistrale, ha spiazzato tutti, ottenendo da Bertolaso la rinuncia – Bertolascio due! – e dichiarando il sostegno di Forza Italia ad Alfio Marchini, come del resto auspicavano da giorni i moderati del centro, Casini in testa.
Quasi incredulo il duo Salvini-Meloni si è ritrovato a dover difendere il ko subito. E’ di tutta evidenza, infatti, che l’alleanza del centrodestra non esiste più, per lo meno non esiste come prima, non esiste a Roma. Se i due non vogliono compromettere la situazione delle altre città, in cui ancora sono tutti e tre insieme, devono ribadire che il centrodestra non è finito. Accettare la batosta romana, dunque, per evitarne altre in giro per l’Italia. Hanno morso ferro!
Ma la mossa di Berlusconi, che si trova alla vigilia degli ottant’anni, induce a rivedere l’intero stato di salute del centrodestra, per constatare purtroppo che si è prossimi al decesso. Marchini, infatti, non potrà mai essere finalmente l’erede di Berlusconi, il tanto atteso, per tutta la sua storia famigliare e personale. I due sconfitti della questione romana, a loro volta, non hanno né la statura né la credibilità per assurgere a veri leader nazionali. Salvini non avrà mai dagli italiani nessuna investitura nazionale né un riconoscimento del genere, perché rappresenta, per storia, categorie politiche di riferimento e carattere, gli interessi di una sola parte del Paese e gli umori dell’estremismo, a volte becero e violento, condannato dall’Europa in Italia come altrove. La Meloni è ben poca cosa, non tanto lei come persona quanto il seguito politico che le sta dietro.
Nella fase attuale, nel centrodestra, non si vede come un certo modo di pensare e certi interessi sociali possano trovare un gruppo dirigente ed un leader di forte e qualificata rappresentatività. Al momento il migliore, ancora una volta, si è rivelato lui, Silvio Berlusconi. Il che non consola nessuno e non facilita l’avvio di un processo veramente nuovo.
A questo aggiungasi il gran casino che ormai regna sullo scenario politico generale, in cui il centrodestra è ammagliato con alcune fasce del centrosinistra. Un governo a trazione Pd si mantiene in piedi sorretto da una parte dell’«opposizione» (Alfano-Verdini), mentre una parte della maggioranza fa la vera, anche se inutile e mortificante, «opposizione» (Bersani, Cuperlo, Speranza).
Il Movimento 5 Stelle aveva ragione di chiedere al Presidente della Repubblica di intervenire perché si definisse meglio il quadro politico. Gli italiani avrebbero ragione – il condizionale è d’obbligo – di sapere da chi sono governati per un verso e da chi sono rappresentati nell’importante compito di vigilare sulla maggioranza e sull’esecutivo per un altro. Sappiamo com’è andata a finire. Mattarella ha risposto di non avere un motivo costituzionalmente valido per intervenire in una questione che presenta tutti i profili di legittimità.
A dire il vero Mattarella avrebbe avuto ragione di dire: signori, la bussola è impazzita, non funziona, la colpa non è mia, ed io non ne ho una di ricambio. Potrei riparare quella che c’è, ma la Costituzione me lo impedisce. La situazione odierna lui l’ha ereditata. Cosa c’entra lui con un parlamento eletto con una legge incostituzionale? Cosa c’entra lui con l’incarico ad uno che neppure era stato eletto deputato o senatore? E cosa c’entra lui col famigerato patto del nazareno, che, a quanto si sente, ha responsabilità perfino se piove o se non piove?
Quando si verificano certe situazioni, escono fuori alla grande le persone risolute, spregiudicate, che sanno quello che vogliono e che conoscono i percorsi per ottenerlo. Ecco, appunto, i Berlusconi per un verso; i Renzi, per un altro. A sinistra come a destra, le leve del comando ce l’hanno i cosiddetti moderati: sono loro che alla fine decidono, lasciandosi dietro malumori, lamentele e minacce. Ma le chiacchiere non cuociono il riso (proverbio cinese).

Se è consentito chiudere con una battuta, che poi tanto battuta non è, forse quelli del centrodestra vanno cercando ciò che hanno già. Ma a lorsignori pare che il governo Renzi, con annessi e connessi, sia di centrosinistra?