domenica 16 dicembre 2018

Matteo Renzi: divulgatore allusivo




Matteo Renzi, ex sindaco di Firenze, ex presidente della provincia di Firenze ed ex presidente del consiglio, il rottamatore-rottamato, sorprende ancora. La sera di sabato, 15 dicembre sul Canale Nove, il canale di Crozza, è andata in onda la prima puntata del documentario “Firenze secondo me”. E’ un percorso che Renzi, alla maniera di Alberto Angela, fa nella sua Firenze, per spiegare “che cosa questa città ha ancora da dire e da dare a noi cittadini del presente”.
I risultati Auditel dicono che è stato un flop perché a seguire il programma sono stati 367mila spettatori (1,8 dello share).
A me francamente è piaciuto e non lo dico perché mi ritrovo in quella parte di share che lo ha seguito, ma soltanto perché quello che pensano gli altri m’interessa solo per ragioni di studio.
Mi spiego.  Renzi è un politico che non fa mai niente per niente e neppure per quello che dice di fare. Dunque è legittimo pensare che, mostrando Firenze e dicendo che cosa questa città ha ancora da dire e da dare”, egli abbia voluto riferirsi allusivamente a se stesso, per dimostrare che lui ha ancora tanto da dire e da dare. Fin qui la lettura è abbastanza scoperta. La scuola italiana, soprattutto attraverso la storia della letteratura e dell’arte rende gli italiani un po’ fiorentini, nel senso che  c’è in ogni professionista che esca da indirizzi umanistici una componente di toscanità e in specifico di fiorentinità. Ognuno in quel che vede e sente cerca di vedere e di sentire altro: per visibilia ad invisibilia. E’ la formula già del simbolismo medievale, di cui Firenze è specchio, fin dal maestro Brunetto Latini.
Renzi maestro di retorica. Ma Renzi è anche allegoria del politico, che, accusato ed emarginato, cerca di riconquistare la scena e lo fa prima di tutto emarginendo gli altri a sua volta – vedi il suo ostentato disinteresse per il congresso del suo partito – e poi dando loro una lezione di cultura e di colloquialità.
Egli sa che oggi come oggi in Italia, su questo piano, ci sono davvero pochi competitors. Chi? Salvini o Di Maio? Fico o la Castelli? La Lezzi o Toninelli? Via, siamo alle scuole di recupero o alle serali!
Firenze non è solamente molto bella ma è un’enciclopedia del dìscere e del docère. A noi interessa, in questa sede, soprattutto la chiave politica, non certo per Firenze ma per la sua insolita e straordinaria guida: Renzi, appunto.
Due gli episodi particolarmente significativi di questa prima puntata. Il primo si lega ad un dipinto del Botticelli, che si trova negli Uffizi, intitolato Calunnia. In questo dipinto ogni figura rappresenta allegoricamente un vizio umano, nella fattispecie sono rappresentate per figure tutte le componenti che producono la calunnia: ignoranza, sospetto, rancore, invidia, frode. Chi giudica è Re Mida, che allegoricamente ha le orecchie d’asino. Renzi non ha dubbi: quel quadro descrive come meglio non si potrebbe la realtà politica dei giorni nostri, quando per danneggiare una persona si ricorre alle cosiddette fake-news. Come non vedere nella rappresentazione botticelliana la vicenda sua, personale e famigliare, di Renzi dico e della sua sodale Elena Boschi, anche lei calunniata negli ultimi tempi del suo governo?
Renzi rivendica orgogliosamente la sua fiorentinità, ergo la sua superiorità culturale. Io posso dirvi chi siete, cari avversari, nei modi e nelle forme che più mi piacciono, mentre voi siete condannati all’insulto diretto e al turpiloquio. Viene di pensare al Marchese del Grillo: io so’ io e voi non siete un cazzo!
L’altro episodio, edificante, politicamente fondato è quello della cosiddetta Elettrice Palatina, ovvero Anna Maria Luisa de’ Medici (1667-1743), figlia del Granduca Cosimo III e moglie del Principe Elettore del Palatinato Giovanni Carlo Guglielmo I. Questa, alla sua morte, donò alla città di Firenze la sua immensa collezione artistica col vincolo della inalienabilità. Renzi vede in quel gesto un grande progetto politico, quello che oggi chiamiamo di turismo culturale, che è fonte di ricchezza. I tempi hanno dato ragione all’ultima discendente dei Medici. Un monito – secondo Renzi – ai politici di oggi (gli altri, ovviamente!), i quali non solo non sanno vedere nel futuro ma neppure conoscono le risorse culturali del passato, rimasti all’irridente carmina non dant panem.  
Un discorso intelligente, quello di Renzi, fatto da una persona abile, che in ogni caso non ci fa superare tutte le nostre riserve sul personaggio arrogante e presuntuoso. Un simile discorso non poteva piacere a più di quanti è piaciuto. Vedremo alla seconda puntata che ci dirà.

domenica 25 novembre 2018

La rivoluzione dei cachielli




Si può far finta di niente. Noi italiani siamo maestri del far finta di niente. Ma nel nostro Paese c’è stata, il 4 marzo scorso, un’autentica rivoluzione. Negarlo non serve e può essere dannoso. Può essere che la rivoluzione fosse già in atto prima e che il risultato del 4 marzo sia stata una sua rappresentazione. Ma la rivoluzione c'è stata; che essa produca effetti veramente rivoluzionari è un altro paio di maniche. In che cosa si vede la rivoluzione? Nel ribaltamento degli uomini al potere e nelle modalità con cui sono giunti al potere. Intanto vediamo con chi abbiamo a che fare, chi sono i nostri rivoluzionari.
Non è facile rispondere alla domanda chi sono Luigi Di Maio, Barbara Lezzi, Danilo Toninelli, Alfonso Bonafede, Giulia Grillo, Laura Castelli ed altre “stelle” e “stelline”, più gli Alessandro Di Battista;  e potremmo continuare con la marea di illustri sconosciuti che siedono a Montecitorio e a Palazzo Madama. Già nelle elezioni del 2013 ci fu un'avvisaglia importante. I grillini, appena eletti, davanti alle sedi del Parlamento sembravano coi loro rolley e l'aria smarrita come tanti profughi appena sbarcati.
Chi di essi pensava veramente di trovarsi in così poco tempo ai vertici del potere senza nessuno sforzo, sull’onda dei vaffanculo di un comico rancoroso e di due paraculo come i Casaleggio, padre e figlio? 
Per definire i nostri rivoluzionari o forse rivoluzionati c’è un termine che potrebbe sembrare offensivo ma non lo è: cachielli. Il termine è dialettale, fa pensare a giovani vanesi, tanto irresponsabili quanto inconsapevoli di esserlo. Giovani che si atteggiano a persone serie, che si danno delle arie, che le sparano grosse come escono-escono, si trovino di fronte un loro pari o un luminare della scienza politica ed economica, del diritto e della medicina. La loro forza sta nel loro numero: hanno invaso l’ambiente politico come cavallette, stavo per dire come grilli. Il voto che li ha premiati nel Sud è stato plebiscitario; addirittura in alcuni collegi più eletti che candidati. 
Nella storia è già accaduto che un’intera generazione di politici o di intellettuali si siano caratterizzati per certi tratti comuni. Pensiamo, per esempio, agli scapigliati o ai crepuscolari, termini inventati dal critico letterario Giuseppe Antonio Borgese per indicare e definire alcuni giovani protagonisti di movimenti letterari di rottura nel loro ambiente. Una volta si indicavano le persone per come queste si facevano percepire. Come nei casi ricordati, il loro essere stava tutto nei loro nomi. Oggi si preferiscono nomi asettici, siglatici. Forse il più connotante è proprio grillini, non solo in riferimento al loro capo storico Beppe Grillo, ma per la colleganza all’insetto. Grilli parlanti, appunto! Saputelli, sempre pronti a pontificare e a sentenziare su tutto e su tutti. Come loro non c’è nessuno; prima di loro la disonestà, l’ingiustizia, la sciatteria, la negligenza.
Si tratta di persone giovani, tra i 25 e i 45 anni, per lo più di nessuna esperienza politica e amministrativa e di nessuna competenza, abili nel parlare, pronti a sfruttare le magagne del sistema, formidabili nel dare l’impressione di essere assolutamente estranei alla razza dei politici italiani, esperti di social e di rete. Capaci di dire le più grandi stronzate con naturalezza e noncuranza. Il ministro Toninelli prometteva un ponte a Genova sul quale poter portare i bambini a giocare, una sorta di Disneyland. La ministra Lezzi ritiene pochi i gradi dell’angolo giro, che ha la massima ampiezza, ne vorrebbe altri dieci, così 370 gradi. Presto si farà un’antologia di queste stravaganze che piacciono tanto alle persone che hanno figli più o meno della stessa età e della stessa cultura dei nuovi politici.
Questi giovani, disinvolti e arroganti, si atteggiano, menano vanto, presumono, non hanno difficoltà a dare dell’ignorante ad un professore di università, a mancare di rispetto a politici di lungo corso, ad esperti nelle più varie discipline; colpiscono nell’impunità, sanno di non essere dei bersagli. Hanno dentro il rancore di chi si sente frustrato. Il loro obiettivo è colpire chi sta meglio di loro, chi ha una bella professione, chi si è costruito una posizione. Ahi, l’invidia! Non indugiano ad inventarsi lauree mai conseguite, tanta è la loro autostima e tanto il disprezzo verso chi veramente le lauree ce l’ha e le competenze pure e conclamate. L’eurodeputato Marco Valli, grillino doc, si spacciava per laureato alla Bocconi e voleva proporsi in Europa come l’anti Draghi. E’ un poveraccio, che non sa distinguere tra errore e reato.
I grillini sarebbero comunisti se sapessero che cosa è il comunismo. Ma non lo sanno e dunque non avvertono neppure il disagio di un’esperienza storica da difendere, la dignità di una prova fallita. Sanno che gli altri sono dei figli di puttana; loro non sanno neppure di avere una madre.
Alcuni sono figli di ex missini, ovvero fascisti. Gli arrabbiati degli anni Sessanta-Ottanta, abituati a rompersi addosso le suppellettili di ogni locale dove si svolgevano i loro congressi di partito, di sezione o di provincia, di regione o di nazione. Molti elettori, ex missini, per corrispondenza di umorali sensi, si sono accodati al loro movimento, più convinti di poter mortificare gli odiati avversari che di poter ottenere dei risultati positivi per la nazione. Abbasso i vitalizi! Abbasso le pensioni d’oro! Non potendo essere tutti ricchi, allora tutti poveri! Viva la decrescita felice! Abbasso le grandi opere! Si dia a tutti il reddito di cittadinanza! Basta essere cittadini per avere diritto a tutto. Se i soldi lo Stato non ce l’ha per tutti, allora si prenda dai ricchi e si dia ai poveri. Sia la politica non l’opportunità per arricchirsi come nel passato, ma un’opportunità al ribasso, per avere un posto pur che sia. Ce l’hanno con la stampa perché non è lo specchio delle loro brame e non tollerano che vengano mostrati per quello che sono.
C’è da chiedersi: ma come è stato possibile un fenomeno del genere? Perché c’è stata una classe politica che non ha saputo difendere se stessa e il Paese. Come i re fannulloni diedero inizio a dinastie di maggiordomi, i politici disonesti e cialtroni, troppo sicuri di non venir mai spodestati, hanno lasciato che gli ultimi diventassero i primi. C’è solo da sperare che questi, dopo che i vecchi politici hanno meritato di diventare gli ultimi, riescano a dimostrare di aver meritato di essere diventati i primi.  Almeno questo!

domenica 11 novembre 2018

Italiani inventori di politica




Negli Stati Uniti d’America incominciano le manovre per le prossime presidenziali. Si cercano e si propongono candidature. L’ipotesi che possa correre anche Michelle Obama, moglie dell’ex presidente Barack Obama, dimostra una certa mancanza di prospettive politiche in quel Paese. Michelle sarebbe la seconda moglie di un ex presidente a tentare la corsa alla Casa Bianca, dopo la non fortunata esperienza di Hillary Clinton. Francamente non ci sembra una grande trovata proporre la moglie di un ex ad una carica politica, tanto più se si tratta di una carica apicale che più apicale non si può. Dà l'idea di un mondo piccolo. Di fronte alla mancanza di fantasia e di creatività americana noi italiani ci possiamo vantare di essere dei grandi inventori di politica. Passiamo a volo d’uccello su quest’ultimo secolo di storia.
Subito dopo la Grande Guerra, di cui si è appena commemorato il Centenario, quando l’onda lunga del comunismo sembrava dovesse travolgere l’Europa, l’Italia escogitò il fascismo. Questo fu nelle intenzioni del suo fondatore e dei suoi teorici il superamento della lotta di classe per trasferire la stessa a livello planetario fra paesi poveri e paesi ricchi. Benito Mussolini capì che il socialismo non era per l’Italia e più tardi lo stesso Lenin gli diede ragione, giudicandolo l’unico che avrebbe potuto fare la rivoluzione …col rosso ovviamente. Mussolini la fece col nero; e in questo si rivelò un inventore formidabile. Negli anni immediatamente successivi fu imitato in tutta Europa, dove nacquero e si svilupparono movimenti analoghi, alcuni dei quali addirittura giunsero al potere (Germania, Spagna), in altri lo influenzarono. Nella stessa Inghilterra il movimento fascista di sir Oswald Mosley ebbe una notevole simpatia e condivisione fino a lambire la casa reale. Del fascismo si può dire tutto il male che si vuole, ma se è diventato una categoria politica universale vuol dire che la sua importanza è pari alla sua forza semantica. Un’invenzione italiana! Che lo stesso Umberto Eco non ha mancato di rilevare nel suo Il fascismo eterno (1995, riedito in volumetto nel 2017, e subito balzato in testa alle classifiche).
Nel secondo dopoguerra l’Italia inventò una formula già avviata durante la guerra, il ciellenismo (da C.L.N. = Comitati di Liberazione Nazionale), ossia l’alleanza fra tutti i partiti e movimenti che avevano fatto la Resistenza, sfociata nella scelta repubblicana del 2 giugno 1946 e nella Costituzione (27 dicembre 1947), formula diventata più tardi dell’arco costituzionale. Fino ad un certo punto fu una scelta obbligata; divenne innovativa dopo.
La Democrazia Cristiana, che era il perno del sistema, anche potendo governare da sola, preferì farlo con partiti satelliti, che garantivano pluralismo di idee e di proposte e la tenevano al riparo dalla concorrenza esterna sia di destra che di sinistra. Le possibili minacce, infatti, le poteva tenere sotto controllo all’interno della coalizione, in cui si alternavano liberali, repubblicani e socialdemocratici. Una formula di notevole efficacia tattica.
La democrazia dei partiti durò fino agli inizi degli anni Novanta, quando scoppiò Tangentopoli, degenerazione in cui era tralignata. Ne seguì un’autentica rivoluzione che fece diverse vittime e mise fine alla Prima Repubblica. E qui si mise in moto ancora una volta il laboratorio politico italiano per un’altra invenzione italiana: il berlusconismo, un sistema che ha alla base lo strapotere economico e mediatico di un uomo di successo, spregiudicato fino all’ostentazione del vizio, dell’abuso e della commistione di interessi pubblici e privati. Un misto di liberalismo e populismo che ha fatto gridare qualcuno al lupo fascista.
Anche questa invenzione avrebbe fatto scuola in diverse parti del mondo. Si consideri l’analogo statunitense di Berlusconi che è Donald Trump, pur con notevoli sfumature. Il berlusconismo, che presenta aspetti e articolazioni diversi, in dipendenza dal carattere personale dei suoi interpreti, si può definire un sistema fondato su un “politico diversamente dittatore”. Un “berlussolini” che non ha bisogno di imporre nulla perché condizioni e uomini del suo paese sono particolarmente propensi e disposti a seguirlo, un po’ per necessità e un po’ perché c’è il vuoto in alternativa. Ancora una volta il laboratorio politico italiano ha dato al mondo un prodotto di “qualità”, alla stregua di un vestito di Valentino o di un bolide della Ferrari.
Oggi i sistemi politici, in difetto di ideologia, che è il propellente della loro efficienza, durano poco. Il berlusconismo è durato vent’anni circa con qualche colpo di coda sempre meno convincente. Dalla sua crisi, però, ancora una volta il genio italico è uscito alla grande, direi alla grandissima, indipendentemente da quali saranno o potranno essere i risultati. La nuova invenzione si chiama grillismo, ovvero M5S, che ha filiato altre stupefacenti soluzioni politiche, come la formula della triarchia Conte-Di Maio-Salvini, ossia un capo del governo di nessun potere decisionale e due sottocapi, che di fatto sono supercapi, i quali decidono sulla base di un contratto. Qui veramente siamo all’apoteosi dell’inventività. Sono entrati nel vocabolario politico parole con nuovi significati, come codice etico interno e contratto; altre con recuperi nobilitanti come populismo.
Che da questo si producano soluzioni efficaci è da vedere, ma intanto non si può non prendere atto della formidabile fantasia propositiva del Paese, che, quando tutto sembra crollare, ecco che vien fuori la trovata geniale.

domenica 21 ottobre 2018

Tre giorni surreali e tre uomini in barca




Mi è venuto di pensare in questi giorni di comiche politiche nazionali ad un romanzo del 1889, a Tre uomini in barca dello scrittore inglese Jerome K. Jerome. E’ un libro umoristico con qualche episodio esilarante.
Che c’entra con le nostre cose? C’entra, pur con una piccola variante, siccome andare in barca da noi è anche una metafora, significa andar d’accordo. E mi viene di pensare subito per l’uno e l’altro significato, il letterale e il metaforico, ai nostri tre uomini al governo: Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Giuseppe Conte, rispettivamente due vice-presidenti e un presidente del consiglio, i quali, appunto, vanno in… barca. Lo hanno dimostrato di recente nella comica faccenda del decreto fiscale.
Nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei Ministri del pomeriggio del 20 ottobre, in cui è stato trovato l’accordo su questo decreto, detto della “pace sociale” e invece stava per essere motivo di guerra politica, Salvini ha esordito definendo surreali gli ultimi tre giorni. Nel corso dei quali, ancora una volta, Di Maio ha fatto la figura molto simile a quella di Renzo nei Promessi Sposi, quando se la prese con don Abbondio e col suo latinorum. E’ di tutta evidenza che Di Maio avverte una certa inadeguatezza nell’esercizio politico relativo al ruolo che si è ritagliato. Altrimenti non avrebbe minacciato di rivolgersi alla Procura per un documento da lui stesso vergato, sua ipsa manu.
Mettiamo che abbia avuto ragione nel merito – il che sarebbe tutto da dimostrare – nella faccenda della manina del peccato, della mano cioè che avrebbe, a suo dire, manipolato il testo in direzione condono generalizzato a tutti gli evasori fiscali, ci chiediamo: perché non chiamare subito Salvini per chiedere spiegazioni e trovare una composizione?
Le risposte sono due. La prima, potrebbe essersi sentito preso per il culo da Salvini – volgariter – e, arrabbiatosi, ha pensato: mo ti mostro io di che sono capace!
La seconda potrebbe essersi accorto di non aver seguito come doveva il testo del decreto e, non volendo ammettere di essere stato quanto meno leggero, l’ha buttata sull’acido.
Nell’uno come nell’altro caso, emerge la sua malafede e dalla figura del pirla o, come noi al Sud diciamo, della testa di cazzo, non si salva. E’ vero, può presentarsi davanti ai suoi e menar vanto: volevano fotterci, ma noi ce ne siamo accorti e abbiamo reso pan per focaccia.
Ma quanti si accontenteranno della pezza a colore? E’ la seconda volta che Di Maio grida alla manina! alla manina! La prima volta insinuò alludendo alla manina di qualche funzionario del Ministero; la seconda è andato oltre, dicendo da subito che la questione era politica. Almeno in questo ha dimostrato – se è stata sua l’idea di metterla sul politico! – di far capire che non intendeva impelagarsi in questioni di chi è stato a manipolare il testo e che tagliava corto. Questo decreto così com’è non lo vogliamo. Dunque o lo si corregge o nada!
Tante parole sono volate in questi tre giorni. Alcune le ha dette di Maio, altre Salvini. Il capo dei leghisti in un primo momento ha preso in prestito una frase di Curzio Malaparte: cosa fatta capo ha! dalla celebre Ballata dell’Arcitaliano. Come dire: ormai è andata così e non se ne parli più. Ma quando ha capito che l’altro, Di Maio, avrebbe creato problemi al governo, ha lasciato che la "cosa" perdesse il "capo". Resta tuttavia che nulla accade a caso e nulla passa senza lasciare conseguenze.
La prima conseguenza è che fra i due è finita la fase delle smancerie, non si fidano più l’uno dell’altro. E quando due soci in affari non si fidano gli affari vanno in malora.
Intanto a rendere sempre più surreale l’ambiente politico italiano è il diffondersi di un’epidemia che si ha ragione di definire di tipo psichiatrico. Alcuni giornalisti e intellettuali – vedi Andrea Scanzi e Maria Giovanna Maglie – difendono  a spada tratta il governo Di Maio-Salvini, ma solo dopo aver premesso di non appartenere a quei partiti e di non condividerli. E, allora, perché li difendono?
O si vergognano di dire di condividerli, perché taluni comportamenti sono oggettivamente e universalmente da condannare; o li difendono, pur non condividendoli, per fare un dispetto a quanti del Pd o di Forza Italia rappresentano i falliti d’antan, responsabili del disastro in cui versa il Paese.
Ma sembra cosa sensata? Per non parlare del cane diceva il titolo del romanzo di Jerome. Noi potremmo dire: per non parlare dei cani.

giovedì 18 ottobre 2018

Un anno fa la scomparsa di Donato Valli




Il 18 ottobre dell’anno scorso se ne andava Donato Valli, nella sua Tricase, dove era tornato a vivere da qualche tempo.
Lo conobbi al mio primo anno d’Università, quando era fra gli assistenti di Aldo Vallone con Ennio Bonea e Luigi Manna e lavorava alla Biblioteca centrale dell’Università, poi con insegnamento di Bibliografia e Biblioteconomia. La sua ambizione era la cattedra di italianistica, che avrebbe conseguito un po’ di anni dopo. All’epoca aveva già prodotto importanti saggi su Girolamo Comi, Luigi Fallacara, Clemente Rebora, Umberto Saba e Piero Bigongiari, raccolti nel volume Saggi sul Novecento poetico italiano in una collana diretta da Aldo Vallone e Mario Marti. Un libro che Vallone ci avrebbe fatto studiare per l’esame di Letteratura Moderna e Contemporanea.
Per la malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni aveva un po’ abituato l’ambiente culturale salentino e gli amici alla sua assenza da eventi e iniziative, nelle quali per decenni era stato protagonista assoluto. Mario Spedicato aveva cercato di coinvolgerlo nelle iniziative della Società di Storia Patria, senza mai riuscire a vincere le resistenze della signora Enza, che intorno al suo Donato aveva steso una rete di solida protezione. E, tuttavia, la notizia della sua morte destò in tutti dolore e commozione.
Valli è stato il dominus della cultura salentina per circa un cinquantennio, dagli anni Settanta del Novecento fino agli inizi degli anni Dieci del Duemila. Dalla Biblioteca provinciale alla cattedra universitaria di Letteratura Moderna e Contemporanea, dalla codirezione de L’Albero dell’Accademia Salentina di Lucugnano al Rettorato, alla Biblioteca Salentina di Cultura, alla Società di Storia Patria, attraverso studi critici pubblicati con editori locali e nazionali, sui più importanti autori italiani, convegni di studio, conferenze, presentazioni di libri e di mostre, non solo nello specifico della critica letteraria. Ne sono testimonianza i tre volumi Aria di casa, in cui ricorrono in gran parte i suoi interventi per così dire extra moenia, per indicare scritti e discorsi fatti per le più varie circostanze fuori dell’ufficialità accademica. Un esempio di docente universitario aperto alla società e alle pubbliche istituzioni; un signore ed un amico che non sapeva mai dire di no.
Ebbe per sodali e collaboratori studiosi di altissima elevatura, da Aldo Vallone a Mario Marti, da Oreste Macrì all’insubre Maria Corti, da Nicola G. De Donno a – negli ultimi anni – Antonio Lucio Giannone e Carlo Alberto Augieri.
Resta a tutt’oggi il critico e lo storico di Girolamo Comi per eccellenza, di cui ha curato l’opera poetica e di cui custodiva il Diario di Casa, che avrebbe dovuto pubblicare cinquant’anni dopo la di lui morte, a partire da quest’anno, essendo morto il poeta-barone nel 1968.
Valli è stato un esempio di intellettuale integralisticamente organico, avendo volto la sua azione culturale alla promozione della sua terra, valorizzandone risorse umane e materiali. Un’opera, che ha attraversato il suo impegno di critico letterario ed è andata oltre. Tre i punti fondamentali del suo straordinario vissuto: la produzione critica, il Rettorato decennale, nel corso del quale l’Università si è arricchita di nuove facoltà, uscendo da una fase di formazione, e la sua disponibilità ad offrire il suo contributo a quanti glielo chiedessero, sia per una presentazione di libro, sia per l’organizzazione di un evento.
Se avesse avuto anche maneggio politico – era cattolico e dunque democristiano – avrebbe potuto raggiungere traguardi assai più alti, a cui forse lui non voleva neppure arrivare. La politica, infatti, la viveva con molto disagio, ma allo stesso tempo ne era attratto, forse per il ricco ambiente tricasino in cui viveva, dove c’erano i Codacci Pisanelli e i De Benedetto, l’uno ministro della Repubblica, l’altro presidente della Provincia. La politica l’avrebbe vissuta anche con sofferenza estrema, per le note vicissitudini giudiziarie nelle quali si ritrovò per la sua buona fede. In una lettera, che non cito testualmente per non perdere tempo a trovarla, poiché non ricordo l’anno, confessò che le scorrettezze in politica non sono solo di chi le compie ma anche di chi le vede e non le denuncia; e si doleva di non averlo fatto quando avrebbe dovuto. Ma era anche un uomo pratico e sapeva che nella vita non si può inciampare ad ogni pietra.
Aveva un carattere che appariva burbero. Solo un meccanismo di difesa, il suo. Dietro la scorza c’era una persona cordialissima e profondamente umana, che sapeva apprezzare anche quello che non condivideva se gli riconosceva giustezza di propositi e di ragioni.
Il suo ricordo, unitamente a quello di tanti altri dell’ambiente, Vallone, Politi, Marti, Macrì, Rizzo, Donato Moro, De Donno, Pisanò, ci richiama ad una realtà, quella delle forme di cultura letteraria, che non è più la stessa di prima. Gli studi letterari stanno cedendo terreno agli studi storiografici, sociologici, politici ed economici. L’irruzione invasiva dei socials e di altre tecnologie della comunicazione ha cambiato il costume, i rapporti, gli interessi. La cultura letteraria si è ristretta sempre più in una ridotta, in cui i pochi sopravvissuti vivono come nella Fortezza Bastiani. La percezione è che la cultura letteraria non è più l’élite dell’intellighenzia, ma una forma residuale di un mondo che sta precipitosamente cambiando. Forse il Salento non avrà più una stagione letteraria come quella che ha caratterizzato il Novecento. Ma le sue figure più imponenti, e fra queste Donato Valli, restano esempi e richiami di difficile elusione e lasciano ben sperare.

domenica 14 ottobre 2018

Governo: dopo il voto di scambio, il ricatto




In Italia, da sempre luogo di sperimentazioni politiche, si sta affermando in maniera continua e pacchiana un nuovo modo di far politica. Intesa, questa, non come soluzione dei problemi del Paese, ma come processo di conquista di consenso elettorale. Il cosiddetto populismo nasce proprio di qui. Se tu vuoi il consenso dell’elettore devi parlare e agire come l’elettore parla e se potesse agirebbe pure. Tante espressioni volgari, arroganti, tracotanti, continuamente ripetute da Salvini e in maniera più soft da Di Maio, lasciano cogliere lo scarto tra le parole e il perché del loro uso. Come se chi le pronuncia volesse far capire che, pur potendo usare un modo diverso di esprimersi, usa quello apposta perché di maggiore effetto con la gente.
Ovvio che dietro le parole ci sono i fatti, ci dovrebbero essere i fatti. Le tre grandi promesse del governo pentaleghista sono abrogazione della legge Fornero sulle pensioni, abbassamento delle tasse con la flattax e il reddito di cittadinanza. Tre obiettivi che, stando al far di conto, come da sempre funzionano le cose, sono irraggiungibili, salvo che non si voglia far precipitare il Paese nel disastro di qui a poco. Ma – dice Salvini, il più ostinato a volere l’abrogazione della Fornero – più dicono che questa legge non si tocca e più io la tocco.  Che ricorda il ritornello di quella canzoncina del bambino discolo: ma io che sono Carletto, la faccio nel letto, per fare un dispetto a mamma e papà. Mamma e papà siamo noi, paese Italia.
A dire il vero un po’ di infantilismo in quel Salvini c’è. Forse bisognerebbe prevedere per il futuro un’équipe di psicologi nei più importanti palazzi del potere.
Di Maio fa lo stesso: più si cerca di far capire che il reddito di cittadinanza, oltre che impossibile per mancanza di soldi, è una grandissima minchiata e più lo pone come condizione per non far cadere il governo e tornare al voto. Che, secondo lui, significherebbe un autentico plebiscito per il suo partito.
Siamo in presenza, almeno dai modi usati, di autentici boss della malavita: o fai questo o per te è la fine. Dopo il voto di scambio di massa, ora il ricatto di massa.
Il buon Bernardone – se è lecito un riferimento colto in questo mondo di barbari felicemente incolti – era un mercante di Assisi; pagò un riscatto a quei tempi importante per riavere il figlio Francesco che era stato catturato dai perugini, ma quando si accorse che questo prendeva soldi e merci dalla bottega per distribuirli a quanti si trovavano a passare di lì, lo cacciò via, per evitare il fallimento. Perché delle due l’una: o il lavoro, fonte di crescita e di progresso, o lo sperpero che è l’inizio del disastro. L’esempio riporta al XII secolo, ma non è cambiato nulla. Dare denari, che peraltro non ci sono, a persone per non farle lavorare, in nome di un malinteso senso di giustizia distributiva, è una serie di dannosissime balordaggini. Dice: ma lo ha promesso in campagna elettorale. E, allora? Siccome deve mantenere la promessa è lecito buttare il Paese in una rovina, che inevitabilmente finirà per coinvolgere in primis proprio quelli che si era voluto favorire? Se così dovesse accadere questi due signori si stanno candidando al Premio Masaniello.
Ci sono poi, ma il poi non ha affatto significato temporale, quelli che, pur oggi in minoranza, non ne vogliono sapere di fare la fine che si paventa. Siamo in democrazia, è vero, e dovremmo rispettare le regole del gioco. Se hanno vinto degli scellerati, dovremmo accodarci alle loro scelleratezze? Ma qui è in gioco la sopravvivenza di un Paese che ha raggiunto da tempo un buon livello di progresso e di benessere, a cui legittimamente non si vuole rinunciare. Quando è in gioco il benessere conseguito si ha ragione anche di non essere pedissequo osservatore di leggi suicide.
La situazione non è per niente facile. Si tratta di salvare la faccia a chi si vanta di averla messa per ottenere certi risultati e nello stesso tempo salvare la condizione generale del Paese, che non può rinunciare ad alcune condizioni acquisite: l’Europa e l’Euro, garanti della nostra condizione di Paese avanzato.
E’ una difficile impresa, nella quale le persone più autorevoli, ad iniziare dal Presidente della Repubblica Mattarella, si preoccupano anche di salvare la faccia alla democrazia mentre cercano di esercitare la loro moral suasion nelle due direzioni. 
L’obiettivo è di stemperare le tre grandi mete di questo governo: aggiustare e non abrogare la legge Fornero, estendere la flattax che già esiste per alcune categorie, rimpinguare il reddito di inclusione. Non sarebbe una sconfitta per il governo, ma mezza sì; mentre per il Paese sarebbe una mezza vittoria. 
Chiudere questa prima partita con un pareggio non sarebbe male. Per vincere o per perdere c’è sempre tempo.         

domenica 7 ottobre 2018

Il mondo sottosopra di Silvestro Seccato




Silvestro Seccato, pensionato da qualche anno, in buona salute, persona di garbo e sensata, abitudinario fino all’ossessione, avverte una  certa inquietudine. Dalla televisione ha appreso che in giro ci sono malintenzionati che cercano i bensensati e gli abitudinari per torcer loro il collo.
Ha paura. E’ un timido. Il suo motto è stato sempre: piegati giunco, che passa la piena. Pensa di adeguarsi al nuovo corso di cose; in fondo, che gli costa? Provaci, Silvestro! Ed incomincia subito dai primi gesti domestici.
Ecco, dice, ora mi verifico nella condizione voluta dal nuovo ordine, pardon, disordine delle cose. Sono un malsensato…sono un malsensato…sono un malsensato. Bisogna iniziare proprio così, col ripetersi ciò che si vuole diventare.
Le scarpe estive dismesse, dove le metto? Naturalmente nella scarpiera. Ma no! Son proprio un fesso. Questo è buonsenso, se lo sa il grillino o il leghista sono fottuto; mo le metto nel frigorifero. Ecco, accanto alle mozzarelle…ah, già, le mozzarelle non possono stare nel frigorifero; le metto sotto il cuscino del divano. Meno male che mi son ravveduto in tempo. E le scarpe che ho ai piedi? Già, ma queste cazzo di scarpe come me le son messe? Guarda un po’, la destra al piede destro e la sinistra al piede sinistro. Da non crederci, sono proprio un inguaribile benpensante. Cerco guai, senza avvedermene. Ma se me le scambio di piede, come faccio a camminare? Sarà una tortura. Mo ci provo. Caracolla…saltella…come camminasse sulle spine.
Esce e…peggio non gli poteva andare! S’imbatte in un corteo in favore degli onesti “prima di tutto”. Li guarda ai piedi, hanno tutti le scarpe al posto giusto. Chiede prudentemente a uno che se ne sta in disparte preoccupato. Ma non dovrebbero portare le scarpe al contrario? No, almeno questo lo capiscono, gli risponde quello. Ma camminano in maniera ordinata! Sì, ma non per scelta, sono come pecore, si muovono d’istinto. Ma non sembrano degli scalmanati! No, sono perfettamente clonati, uno uguale all’altro. Ma se ci vedono, si accorgono che siamo quelli di…prima, ci aggrediscono… E noi cerchiamo di non farci notare. Si risolleva un po’. C’è ancora qualcuno che …ragiona. Ecco, un’altra parola sbagliata, che è meglio non pensare proprio.
Torna a casa, ma la porta è chiusa. Dall’interno la moglie gli grida di entrare dalla finestra, è più in linea col cambiamento. Sì, dal comignolo come la befana!, le risponde e subito si porta la mano alla bocca come a strozzarsi la battuta di buonsenso. Poi si sobbarca a fatica, ha una certa età. Ma non lo deve neppure pensare. Dicono che perfino la condizione di anziano è nel mirino dei malsensati. Va in cucina; ma non c’è più il frigorifero. La moglie – ah, le donne, sono sempre più preveggenti – ha pensato bene di metterlo dove prima c’era il barbecue in giardino, sotto il grande albero di noce. E il barbecue? Boh, vedremo. Avrà pensato che almeno il giardino non lo si può spostare dove vogliono gli antibensensati. Ma, allora, ha benpensato? Sorte nostra, se lo vengono a sapere chi ci salverà?  Gli viene un dubbio: dove avrà sistemato il letto? Rientra in casa. Cerca la camera da letto, ma non la trova, al suo posto c’è il garage.
Carlettaaa, mi dici come faccio ad entrare la macchina in questo nuovo garage? Ma, caro, non la devi entrare, sei proprio irrecuperabile. La lasci fuori, il vecchio garage è la nuova camera da letto, le vecchie gomme consumate sono i materassi e quelle vecchie batterie esauste i cuscini. Sapessi che piacere!
Il povero Silvestro è smarrito, non capisce più niente. Gli viene dentro come una bolla d’acqua. Si precipita nel bagno. Bagno? Al posto del water e del bidè c’è il barbecue. E tutt’intorno gli attrezzi da giardinaggio.
Come hai fatto a cambiare tutto così in fretta, Carlaaa? Ma perché urli? Mi son fatta aiutare dai Di Peio, sai, il papà e la mamma del nuovo sottosegretario ai giochi di quartiere, quello delle cinque stelle. E loro ti hanno aiutata? Certo, vedessi che partecipazione! Non facevano un passo senza ricordarmi dei grandi benefici del cambiamento.
Ha come l’impressione di un incubo. A forza di sentire tutte le sere in televisione urlare sulla Fornero, sul reddito di cittadinanza, sulla riduzione delle tasse, sui migranti, sulla ricostruzione del ponte a Genova, sul governo del cambiamento, sulle opposizioni che non ci sono, Renzi Martina Zingaretti…ma vaffanculo, non riesce più a distinguere la realtà dal sogno. E si mette a sperare che sia davvero un sogno per indigestione di …cazzolate. Da Cazzola!

giovedì 27 settembre 2018

Ma c'è ancora la legge in Italia?




A sentire Di Maio e Salvini sembra che in Italia non ci sia più legge. Di fronte al “popolo”, al suo bene, alla soluzione dei suoi problemi, cessa tutto. Ripetono la parola “italiani” in una breve dichiarazione di un minuto più di quanto non facesse Almirante in un comizio di un’ora.
Per leghisti e cinquestelle siamo in presenza di un “popolo-dio” e come nel medioevo i crociati gridavano deo lo vult, alle obiezioni che vengono loro mosse i due vice-presidenti rispondono: il popolo lo vuole, noi gliel’abbiamo promesso e guai a chi ci impedirà di farci mantenere la promessa! Come se il nuovo esecutivo, detto del cambiamento, non avesse l’obbligo comunque di muoversi e di agire all’interno di un quadro costituzionale e delle leggi vigenti.
E’ stato forse abolito in Italia il sistema politico-giudiziario, per cui dei gruppi politici al potere agiscono come truppe di occupazione, che rispettano solo le leggi del  “paese di provenienza”?  
Renzi rischia di essere stato l’ultimo fesso d’Italia. Tale appare oggi per aver chiesto due anni fa il referendum per una castigatissima riforma della Costituzione! Avrebbe potuto strafottersene, come stanno facendo ora Di Maio e Salvini.
Il loro modo di fare è tipico dei periodi di anarchia, quando non c’è più legge, non c’è chi la fa rispettare e comanda il più forte, sentendosi legittimato dal favore popolare, l’alfa e l’omega delle loro preoccupazioni.
I due hanno giurato davanti al Presidente della Repubblica di rispettare la Costituzione. Pensavano forse che fosse tutto uno scherzo, un atto puramente formale, un maquillage?
In una democrazia, quando un governo si accorge di non poter mantenere le promesse elettorali fatte dai suoi esponenti politici, benché fatte in un sistema di macroscopico voto di scambio, non deve sentirsi colpevole di uno sgarro, ma responsabilmente ridimensiona il suo programma, fa quello che può fare o semplicemente lascia. Insistere a voler fare a tutti i costi quanto promesso non è concepibile. Ci sta che un politico o un governo si sbagli, si faccia male i conti, fallisca in tutto o in parte. Quel che conta non è l’interesse del singolo politico o di una classe politica, ma del Paese nel suo insieme.
Crolla il ponte Morandi a Genova. La colpa è subito di Autostrade, a cui si vuol togliere subito la concessione, obbligarla a pagare la ricostruzione del ponte ed escluderla dal parteciparvi. Un’esecuzione sul posto! Quante volte abbiamo sentito persone nei bar ragionare in questo modo? Se fossi io gli toglierei le concessioni e li costringerei a pagare tutto; così imparano! Di Maio e Salvini sono come gli avventori del bar dello sport, né più né meno.
Noi, che i bar li frequentiamo per il caffè o il gelato, ci chiediamo: ma non c’è più una legge che regola simili situazioni?
A chi obietta a Di Maio e Salvini che Autostrade potrebbe fare ricorso al Tar, la risposta è di un’arroganza degna del peggior modo di essere mafiosi. Dicono: lo faccia, intanto paghi e taccia! Non diversa la risposta per i ricorsi per il taglio dei vitalizi ai parlamentari. Intanto glieli abbiamo tagliati, facciano pure ricorso!
Il Ministro dell’Economia Tria dice che non ci sono i soldi per fare tutto quello che i due neogiacobini vogliono. Tria è un signor professore universitario di economia. Di Maio è un signor nessuno. Neppure se dovesse avere il cento per cento dei voti sarebbe mai qualcuno. Ma intanto dice: un Ministro dell’Economia serio deve saper trovare i soldi. Dunque Tria non è serio; si metta da parte! Il portavoce del Presidente del Consiglio, Rocco Casalino, laureatosi all’Università del Grande Fratello, ha detto che i funzionari del Ministero dell’Economia boicottano le iniziativfe del governo.
Ma dove stiamo? In quale organizzazione di evasi ci troviamo? Qui non si tratta di essere pro o contro il populismo, che è solo un modo di pensare e di operare ma sempre nel perimetro della legge, bensì di una sistematica e pragmatica ignoranza dei comportamenti politici e delle procedure amministrative. Preoccupa non la loro presunta sicurezza di essere nel giusto, inteso come legale, quanto il loro non voler considerare che le questioni nel nostro Paese si devono regolare con le leggi esistenti. Non si chiedono neppure se una cosa la possono fare o meno. E se qualcuno glielo dice, è pronta la risposta: non possiamo fare questo? beh, noi intanto lo facciamo; poi si vedrà.
Questo percorso potrebbe portarci fuori strada. Attenzione, per ora è solo una parte politica che intende muoversi a prescindere dalle leggi! Nel momento in cui altri si rendono conto della bagarre, allora potrebbero ricorrere tutti a sistemi e a metodiche più politicamente spicciative e redditizie. Il che, fuor dal linguaggio più castigato, vorrebbe dire che ai loro modi disinvolti di ignorare la legge si potrebbero contrapporre modi altrettanto disinvolti, per non dire del tutto illeciti. A la guerre comme à la guerre!
Prima o poi questi due signori si troveranno a dover fare una duplice serie di conti. Immancabilmente con le leggi dello Stato da una parte e col loro “popolo-dio” dall’altra. Il quale – lo sappiamo per tantissimi precedenti avvenuti nella storia – quando si sente tradito o raggirato o si accorge che il leone a cui credeva di essersi affidato è solo un asino allora si trasforma in un mostro di ingratitudine e di ferocia.
Non vogliamo evocare scenari apocalittici, peraltro improponibili per una lunga serie di motivi, ma questo governo ci sta abituando ad un modo di far politica del tutto fuori dalle regole e per certi aspetti dalle leggi. Dove potremmo arrivare ce lo dobbiamo chiedere.
L’arroganza di Di Maio e la prepotenza di Salvini, al di là se possono o meno nel breve termine sortire effetti positivi, stanno producendo guasti alla politica e alla società che potrebbero essere assai gravi per la credibilità dello Stato di diritto e della democrazia. 

domenica 26 agosto 2018

Tra ponti che crollano e migranti che invadono




Il disastro di Genova del 14 agosto, crollo del ponte Morandi, ha dimostrato quanto non c’era bisogno di dimostrare. Siamo un popolo di sciattoni, di furbastri e di infingardi. Quel ponte scricchiolava da tempo, era già stato rattoppato. Uno studio del Politecnico di Milano appena qualche mese prima ne aveva diagnosticato i mali. Lo sapevano tutti che era a rischio crollo.
Ma come fare? Chiudere quel ponte per i lavori di riparazione o di rifacimento significava privare la città di un percorso assolutamente indispensabile e insostituibile per chissà quanto tempo. Senza quel ponte la città è divisa in due, le sue attività paralizzate, il danno economico enorme. Dunque, tiriamo avanti fidando nella buona stella.
Ora, bisogna dire che la buona stella in Italia è tradizionalmente molto generosa. Ma non c’è stella che non abbia un limite, che non faccia pagare alla fine il troppo elargito con una spaventosa catastrofe. Ed è quanto avvenuto. 
Allora i problemi sono due, entrambi riconducibili alla politica. Uno è più tecnico e particolare, l’altro più amministrativo e generale. Chi avrebbe dovuto provvedere al controllo e apportare gli opportuni interventi? Autostrade, che è la società privata responsabile, o lo Stato con i suoi organismi? L’altro rimanda più direttamente alla politica, avendo dovuto per tempo la città di Genova dotarsi di un percorso alternativo per non rimanere paralizzata dall’inagibilità del ponte per chiusura temporanea per riparazioni o per improvvise e imponderabili cause naturali.
Come sempre accade, si è scatenata una battaglia sulle responsabilità del disastro, trasformatosi in occasione per fare vendetta di veri e presunti avversari politici, non badando minimamente al danno che si sarebbe prodotto all'immagine del Paese. Pur di vedere i nemici nella polvere non si è badato a spese. E’ storia vecchia.
Si punisca Atlantia, la società che controlla Autostrade in Italia; si puniscano i Benetton che hanno il 30% delle azioni di Atlantia, rei – a detta del vice-presidente del Consiglio Di Maio, di aver foraggiato il Pd in campagna elettorale. Via la concessione ad Autostrade! Non si compri più nulla dai Benetton. Una tragedia nazionale è stata trasformata in una campagna propagandistica senza eguali. Diversi sì, i Cinquestelle, ma nel peggio degli italici vizi.
Dimentichi i nuovi Robespierre che gli italiani costruiscono grandi opere in tutto il mondo e che sputtanarli, come hanno fatto Di Maio e compagni, è alto tradimento consumato nei confronti della Nazione. Dimentichi che i Benetton sono un marchio di eccellenza nel campo della moda e della produzione di indumenti e che invitare a non comprare più i loro prodotti equivale a far fallire una delle più importanti aziende del Made in Italy.
Ma, a prescindere dalla tenuta di quel ponte e dai controlli mancati, possibile che una città come Genova per anni e anni non abbia mai pensato di provvedersi di percorsi alternativi?
Lo stava facendo. Da qualche anno aveva in progetto la costruzione della cosiddetta Gronda, autentica alternativa al ponte che ormai stava per superare i limiti di età. Era stato costruito nella seconda metà degli anni Sessanta.
E chi si era opposto alla Gronda? Sentite! Sentite! Quel grande uomo di Beppe Grillo, che solo qualche tempo prima, per ostacolarne la costruzione, aveva detto che il ponte Morandi non sarebbe mai crollato. Che cazzo capisce un comico ormai giunto anche lui a fine vita e privo anche lui, peggio del ponte Morandi, di controlli?
Chi si opponeva erano i Cinquestelle, come si oppongono a tutte le grandi opere, alle grandi infrastrutture. E chi ha urlato più di tutti per il crollo del ponte? I Cinquestelle, che, probabilmente, hanno pensato di giocare d’anticipo e prima di essere accusati hanno accusato a loro volta.
Dicono e fanno quel che vogliono i Cinquestelle approfittando di non avere nessuna opposizione credibile, col Paese frastornato dalla crisi europea e intento a tifare Salvini per il suo impegno antimmigrazione. A proposito della quale c’è da trasecolare a sentire i Pd e Forza Italia in difesa di una politica migratoria fallimentare, contro cui si è espresso il popolo italiano il 4 marzo scorso. Nessuna proposta alternativa ma pietismi e buonismi da fatebenefratelli, non da politici responsabili di fronte al più grave problema avuto dall’Italia in tutta la sua storia repubblicana, ma da pax christi e da charitas. Che sono istituzioni importantissime e nobilissime finché parlano i loro veri rappresentanti; diventano maschere quando parlano gli impostori della politica.
Nessun senso di orgoglio nazionale di fronte alle continue provocazioni dell’Europa, che continua a scaricare sul nostro Paese tutte le responsabilità di una migrazione che nessuno vuole ma che nessuno vuole fermare veramente.
Questo governo deve inventarsi l’opposizione al suo interno. Di fatto ci sono quattro ministeri che operano ognuno per conto proprio senza nessun coordinamento. Il Ministero dell’Interno adotta una politica di durezza e di rigore per respingere i migranti, contro cui agisce il Ministero della Difesa le cui navi vanno a raccoglierli in mare, che poi il Ministero di Giustizia obbliga a farli sbarcare e quello degli Esteri ricorda che anche noi siamo stati migranti. Finché non arrivano i preti a dire: ce li prendiamo noi. Come se i preti in Italia costituissero un altro Stato! 

domenica 19 agosto 2018

Diario d'agosto: 1. Fuci fuci a lle talare



Diario d’agosto

1. Fuci fuci a lle talare

Piove quasi ogni giorno verso le due pomeridiane in questo agosto 2018. Tuoni e lampi minacciano acquazzoni. Poi piogge qua e là, in alcune parti del paese sì e in altre no.
E’ piovuto tanto anche a giugno: piogge ben più consistenti. Una stagione balorda. I fichi sugli alberi si sono aperti come fiori carnivori con bocche vermiglie spalancate. Guai a mangiarne! Ti assale l’acidità allo stomaco.
Il clima mi ha ricordato certe estati della mia fanciullezza, quando d’estate era un fuci fuci a lle talare. Avevamo i telai pieni di filze di tabacco appese per essiccarlo in una campagna a duecento metri da dove abitavamo d’estate.
In quella campagna c’era una chiesa sconsacrata di proprietà della chiesa. Noi, che l’avevamo in affitto, la adibivamo a rifugio. Era, invece, un’importante testimonianza paleocristiana. Vallo a sapere! Oggi completamente demolita, non si sa da chi e perché.
Era intitolata a San Donato (cappedda te Santu Tunatu), in realtà il titolo spettava a San Antonio Abate, il santo del fuoco. L’equivoco del nome dipendeva dal fatto che si trovava al confine fra due contrade, Santu Tunatu e Sant’Antoni. Non escludo che quelli che abitavano in territorio di Sant’Antoni la chiamassero diversamente da noi che abitavamo a Santu Tunatu.
C’era stato in passato tutto un complesso abitativo contiguo alla chiesetta, già allora diroccato. Prova che aveva conosciuto tempi migliori.
Era stata costruita con materiali poveri, raccolti in loco, alla base e agli angoli aveva autentici megaliti informi. Un contrafforte era stato costruito di recente all’esterno a rafforzare la parete laterale sud-est perché non cedesse alla spinta.
Sull’ingresso vi era una bifora murata. Un piccolo campanile a vela in alto poggiava sull’estremità destra. La campana non c’era più. Il tetto a spiovente era coperto da embrici a capriata. All’interno la copertura era a cannicciata, poggiava su un asse centrale e su assi laterali di legno. Pochi fregi.
A destra, entrando, c’era una colonnina monolite in pietra leccese con su una vaschetta, era la pila dell’acqua santa o forse un rudimentale battisterio. In fondo nell’abside semicircolare con volta a cupola l’altare a tre pezzi, tipo dolmen, due pezzi laterali di sostegno e uno orizzontale da piano. L’abside, rivolta a oriente, era affrescata con Dio Pantocrator, che dava l’idea di un abbraccio al mondo. Le pareti laterali lo stesso, ma non ricordo più i santi e le scene, che si vedevano e non si vedevano per lo stato di degrado dell’intonaco.
A sinistra, poco prima dell’altare c’era l’ossario, una botola con una chianca per coperchio, che noi ragazzini spostavamo per curiosarci dentro. In pieno imperversare della Spagnola nel 1918 aveva funto da lazzaretto.
Quando la lasciammo noi, verso la metà degli anni cinquanta, la chiesa venne trasformata dai nuovi affittuari in una casupola nella quale tenevano tutti gli attrezzi di campagna ed anche le bestie, un mulo e delle pecore. Le pareti furono picchettate per far aderire un nuovo intonaco e coperte da uno strato di calce. Rimase in piedi fino agli anni ottanta, poi giù com’altrui piacque.
In quella chiesa mettevamo al sicuro in fretta e furia e talare te tabbaccu per preservarle dalla pioggia. Guai se il tabacco, durante il processo di essicazione, si bagnava! Alla consegna veniva scartato e bruciato. E addiu fatica te nn’annu!
Ma l’acqua d’estate è bugiarda e isterica. A momenti pensi che ti debba sotterrare con un diluvio, poi tutto si risolve in breve con quattro gocce svogliate. Ma non mancano forti acquazzoni che lasciano il segno nelle campagne con muretti a secco che si sbriciolano e alberi sradicati.
Qualche minuto dopo che avevamo messo dentro il tabacco ecco che riusciva il sole, prepotente, bruciante. Ed era ancora un fuci fuci a lle talare, per riesporle al sole. A volte si andava e veniva due tre volte in questo fuci fuci tra sole e pioggia.

domenica 5 agosto 2018

Grido d'allarme del giornalismo salentino alla VII Edizione del Premio "Antonio Maglio"




La settima edizione del Premio giornalistico “Antonio Maglio”, svoltasi sul piazzale davanti al “Museo Messapico” ad Alezio, la sera di sabato, 4 agosto, è stata anche l’occasione per fare il punto sullo stato del giornalismo nazionale, minacciato da una crisi che per certi versi è strutturale, in seguito al diffondersi di mezzi di informazione, i social, assai più diffusi e preferiti dal pubblico, e da una classe politica che è sempre più insofferente della stampa e di ogni corpo intermedio che filtri e medi tra lei e il pubblico. Una situazione che non rassicura la politica italiana e che con la minaccia alle sue classiche istituzioni, partiti-sindacati-giornali, mette in discussione il futuro della stessa democrazia.
Variamente argomentata, questa crisi è emersa dalla relazione dell’On. Giacinto Urso, Presidente del Premio, e dagli interventi di Nicola Marini, Presidente Emerito e Tesoriere dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, e del Segretario Generale della Federazione Nazionale della Stampa Raffaele Lorusso.
L’intervento di Alessandro Barbano, a cui è andato il “Premio alla Carriera”, che di recente ha dovuto lasciare la direzione de “Il Mattino” di Napoli, dopo sei anni, ha dato alle riferite argomentazioni la testimonianza di un mondo, quello del giornalismo, sempre più alla mercé “del mercato”, ovvero degli editori e dei politici che impongono e revocano scelte a seconda degli interessi del momento. Barbano, che sulla sua vicenda si è espresso con dignità ed equilibrio, ha ricordato Maglio nel suo essere stato un insuperato direttore e ha voluto ribadire che all’insegna del suo esempio continuerà nella carriera di giornalista. Che – ha voluto dire con fermezza – non è affatto conclusa.
La manifestazione, tuttavia, condotta da Marcello Favale e dagli interventi-blitz di Adelmo Gaetani, si è svolta ad altissimo livello ma soprattutto nella serenità e nella gioia di ricordare figure indimenticabili, come quella dell’intestatario del Premio Antonio Maglio, di cui è stata letta una lettera della figlia Manuela, e di Alessandro Leogrande, di recente scomparso, a cui era stato assegnato il Premio nella sua prima edizione nel 2012. Toccanti le parole della lettera di ringraziamento della madre.
Il Primo Premio di quest’anno è stato assegnato a Giulio Mola, barese di cinquant’anni, per l’inchiesta sul calcio minorile “Quelli che pagano per un contratto…”, apparsa sul quotidiano  “Il Giorno” di Milano, in cui mette a nudo i retroscena di un mondo, quello del calcio minorile, in cui si verificano fenomeni ai limiti dell’assurdo e del criminoso.
I due secondi premi sono andati a Elisa Forte e Andrea Gabellone. La Forte sul quotidiano torinese “La Stampa” ha svolto l’inchiesta “Noia, rabbia, solitudine: com’è dura la vita dei bambini geniali”, sui bambini molto dotati e vivaci, a cui la scuola italiana non sa e non riesce a dare accoglienza e giusta valorizzazione. Gabellone è stato premiato per il reportage sull’immigrazione “Al confine della realtà” apparso sul quotidiano “il Manifesto”, in cui racconta la disgraziata vita degli immigrati in talune realtà italiane di confine (Bardonecchia) fra oggettive difficoltà di inserimento e proibitivi tentativi di attraversare il confine con la Francia.  
Riconoscimenti straordinari sono andati a taluni protagonisti del giornalismo salentino che nel corso degli anni hanno realizzato e condotto testate giornalistiche ormai affermate e di prestigio. Una targa è andata a Nicola Apollonio per i quarant’anni del suo mensile “Espresso Sud” e a Ugo Buccarella, Loris Coppola e Nicola Ricci per i venti anni del settimanale di informazione e tempo libero “Salento in tasca”.
Ma non solo giornalismo. Da quest’anno il Premio ha voluto attenzionare il mondo dell’imprenditoria e del lavoro. Una targa speciale è stata assegnata a Benedetto Cavalieri, titolare dell’omonimo pastificio magliese, giunto a celebrare il centesimo anno dalla fondazione. Stesso riconoscimento è andato a Giuseppe Coppola, operatore nel campo della viticoltura e del turismo.
Molti premi sono andati ai premiati. Oltre alla tradizionale “trozzella” e un “quadretto” raffigurante un tronco d’olivo del fotografo Longo, confezioni di prodotti tipici della nostra economia: vini, olio, pasta, caffè; ovviamente delle aziende che col “Premio” hanno un rapporto particolarmente contiguo.  
Molte le personalità presenti alla cerimonia, fra cui il Sindaco di Alezio Andrea Vito Barone, che ha fatto istituzionalmente gli onori di casa, e alcuni amministratori dei comuni vicini. Il Prefetto Carlo Schilardi, che di recente ha ricevuto dal Ministero un incarico a Napoli, ha chiuso la cerimonia, dando appuntamento all’anno prossimo.

domenica 22 luglio 2018

Trattativa Stato-mafia: Borsellino deve morire




Il 26° anniversario della strage di via D’Amelio a Palermo, avvenuta il 19 luglio 1992, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta, è stato anticipato di pochi giorni dalla deposizione da parte della Corte d’Assise di Caltanissetta delle motivazioni della sentenza del processo quater, quello dei depistaggi (30 giugno). 1.865 pagine in cui i giudici spiegano perché le indagini su quel terribile atto di guerra della mafia contro lo Stato furono depistate da settori dello Stato stesso. Ed è coinciso con le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Palermo (19 luglio), che conferma che la trattativa Stato-mafia ci fu ed ebbe come effetto l’accelerazione della strage di via D’Amelio. Condannati, come non poteva non accadere, i soli militari coinvolti. I politici dell’establishment? Alcuni morti, altri moribondi; poi il solito Marcello Dell’Utri, refugium peccatorum, e l’ex Ministro degli Interni Nicola Mancino, il quale non poteva …pagare per tutti. Ma la verità acclarata di queste due sentenze è che lo Stato sa essere criminale quando lo ritiene “necessario”.
Che lezione deve trarre il popolo italiano da quest’altra tristissima vicenda? Se invece di vivere in un paese democratico vivessimo in una dittatura, probabilmente la magistratura non sarebbe giunta alle conclusioni a cui è giunta e cioè che a depistare le indagini sulla strage sono stati uomini delle stesse istituzioni.
Ma la domanda d’obbligo per chi ancora non ha il cervello in umido è per conto di chi hanno agito i depistatori? Cui prodest? si chiedevano i latini. A chi ha giovato la morte di Borsellino e a chi sono giovati i depistaggi per non giungere a sapere chi è stato e perché?
La risposta è scontata. La trattativa con quel che segue ha giovato alla mafia; ma la mafia non è tale se non ha agganci organici agli apparati delle istituzioni. Senza questi agganci non si può parlare di mafia.
Certo non basta la colpevolezza di un questore o di qualche ufficiale dei Carabinieri per dire che lo Stato ha tradito se stesso, che Borsellino è stato ucciso con la complicità dello Stato. Ma il caso Borsellino giunge in Italia dopo molti altri gravissimi eventi terroristici, a partire dal caso Mattei dell’ottobre 1962, in cui quando non è stata affermata la presenza dello Stato non è stata nemmeno esclusa o nelle fasi esecutive dei misfatti o nei successivi depistaggi.
Si sa che la mafia ricorre all’eliminazione degli ostacoli che le impediscono di operare nel malaffare e nel potere quando non ha altri metodi e quasi sempre dopo averli esperiti tutti. La soluzione traumatica è l’extrema ratio.
La lezione che si può trarre dalla vicenda Borsellino è devastante. Per un verso si conferma che una parte dello Stato, deviata si dice, è organica alla mafia in forme stabili e continuative. Dal caso Mattei ad oggi sono trascorsi 56 anni, sono tanti, sono troppi per non avere il timore che il male di cui è affetto lo Stato è cronico e sempre pronto a riacutizzarsi. Per un altro il sospetto che nell’affare Borsellino sia implicata la politica in una delle sue più importanti evoluzioni degli ultimi cinquant’anni, ci fa pensare che questa nostra democrazia, che si sputtana al punto di dire papale-papale di essere lei stessa colpevole dei mali di cui soffre il paese, non è più da preferire ad occhi chiusi ad una dittatura solo perché questa occulta le malefatte e lei no. Per non giungere all’assai più deprimente conclusione che una dittatura si può macchiare di nefandezze quanto si vuole, ma non lo fa mai in combutta con un soggetto, come la mafia, che è per definizione e storia nemica dello Stato.  Si può tollerare che lo Stato non riesca per debolezza a fronteggiare la mafia, ma non si può tollerare che diventi esso stesso mafia al punto da determinare svolte politiche con metodi e materiali mafiosi. Il Paese non può porsi di fronte ad una scelta tra una democrazia mafiosa e una dittatura che almeno garantisce la tenuta dello Stato.
Quando ciò accade gli esiti potrebbero essere terribili. Da cittadini non ce lo auguriamo, ma non possiamo neppure cedere al ricatto di un “soggetto” che, nonostante processi su processi, sentenze su sentenze, alla fine rimane sempre inconoscibile e perciò irresponsabile.

domenica 8 luglio 2018

Populismo o ruspantismo, sempre Salvini è




Forse sbaglio o forse no se attribuisco a Matteo Salvini, capo della Lega, vicepresidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell’Interno, l’esclusiva di un certo cafonismo politico, un misto di populismo e di ruspantismo, di cui lo stesso si compiace e si gloria. Diffuso, è diffuso, ma non al livello raggiunto da lui.
Roberto Fico, esponente di spicco dei Cinquestelle, anima di sinistra del Movimento, Presidente della Camera, non scherza neppure lui quanto ad atteggiamenti irrituali e cafoneschi. Basti pensarlo con le mani in tasca, comu nnu pampasciune, mentre la banda suona l’Inno Nazionale in una pubblica cerimonia in Sicilia.
Ma, che ce ne siano altri, come Salvini o quasi o peggio, nell’essere irriguardosi o insofferenti o ignari dell’etichetta, cambia poco per quanto stiamo per dire. Che non è solo questione di cafonaggine, ma anche di autentica visione prepolitica delle istituzioni.
La sentenza della Corte di Cassazione, in base alla quale alla Lega vanno sequestrati i danari fino all’estinzione del debito di 49mln di euro che ha nei confronti dello Stato in seguito ai fondi pubblici di finanziamento ai tempi di Umberto Bossi, è stata colta da Salvini come un attacco della magistratura alla democrazia, un’aggressione alla Lega e pertanto lo stesso ha deciso di rivolgersi al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per avere giustizia. Come in Turchia – ha detto – vogliono eliminare il più forte partito politico del Paese.
E l’alleato Cinquestelle? Un po’ d’imbarazzo per Luigi Di Maio nel dire che dopotutto è una questione vecchia, dei tempi di Bossi. Vecchia nel merito, d’accordo, ma nel modo come la sta gestendo Salvini è di oggi, è di un partito che sta al potere e in posizione anche di punta.
Ora è di tutta evidenza l’infantilismo di un simile comportamento. E’ come se un bambino, che crede di aver ricevuto un torto dalla sua maestra, minaccia di dirlo alla mamma o al papà. Loro sì che te la faranno pagare!
Che può fare Mattarella? Niente, perché non può fare niente. Non può un Presidente della Repubblica intervenire in alcun modo. Ci mancherebbe altro! Qualsiasi studente di scuola media inferiore sa che lo Stato di Diritto si qualifica per la divisione dei poteri. Evidentemente Salvini non ha studiato neppure i principi più elementari di questo grande traguardo della civiltà giuridica. Non stiamo parlando di Montesquieu o di Locke o di Tocqueville, ma semplicemente della nostra stessa Costituzione.
Se Salvini, in un moto di stizza, a tanto si è esposto è perché coerentemente coi suoi quotidiani gesti di ruspantismo, ha pensato che Mattarella potesse intervenire in un modo qualsiasi a trargli il ragno dal buco, escluso che a lui si sia rivolto per avere un finanziamento una tantum a fondo perduto.
Ma tu guarda a che cazzo di condizioni siamo arrivati!
Di fronte alle giuste rimostranze di quasi tutto l’ambiente politico, alleato Cinquestelle compreso, Salvini ha fatto marcia indietro. Non andrò da Mattarella a piangermi addosso per le ingiustizie che sta subendo la Lega dalla magistratura, ma a raccontargli le cose belle che ho fatto e sto facendo al Ministero dell’Interno. Parole che se non sono di sfottò sono di ironia irrispettosa se consideriamo che Mattarella è da sempre critico verso la politica delle espulsioni e dei porti chiusi a proposito dei migranti. Cose belle le considera lui! Ma Mattarella?
La quaestio salviniana pone problemi in parte vecchi e in parte nuovi. Vecchi, perché in fondo la pratica del sottobanco c’è sempre stata. Salvini può aver pensato: Mattarella non potrà formalmente intervenire, ma potrà sempre servirsi della sua moral-suasion per ammorbidire la magistratura o a non esigere il debito o a ratealizzarlo. Facciamo pure noi dell’ironia, quasi fosse una cartella da rottamare. Nuovi, perché il rivendicato cambiamento di questo governo – in verità più dei Cinquestelle che della Lega – sta naufragando nel peggiore dei modi.
Fin qui di cambiamento si è visto poco. Invece aumentano i casi di peggioramento del vecchio, a cui un Grillo, sempre incredibile, dà del suo con le sue straminchiate: le buche a Roma non ci sono, la Xylella non esiste e via con questi Sim-Sala-Bim, da autentico esorcista o illusionista da baraccone.
L’Italia ci mette poco, dopo aver assaggiato un po’ del “nuovo”, a reclamare il vecchio: arridatece er Puzzone! 
Nessun riferimento a Berlusconi. Ma nel centrodestra s’incomincia ad avere qualche mal di pancia. Che Berlusconi, come diceva Fabrizio De Andrè, possa dare oggi buoni consigli perché non più in grado di dare cattivi esempi può essere, quel che conta però è che un ambiente umano, importante per quantità e qualità, ci riferiamo al centrodestra, non può continuare a riconoscersi, sia pure con tutti i distinguo di questo mondo, in un’élite politica, la Lega, che con la destra ha poco a che fare. L’apertura di credito di Berlusconi a Salvini probabilmente durerà fino alle Europee del 2019, poi accadrà sicuramente qualcosa, che non ci vuole molto a capire trattarsi della rottura della più bizzarra alleanza politica della pur bizzarra politica italiana: essere alleati di una forza che è al governo mentre si fa opposizione a quel governo.