domenica 25 dicembre 2016

Dal Mattarellum al Pazzarellum


Come è noto l’Italicum, la nuova legge elettorale entrata in vigore il 1° luglio di quest’anno, quintessenza di ogni sistema elettorale per Matteo Renzi, senza neppure essere applicata una sola volta, probabilmente sarà abrogata e sostituita con un’altra più rispondente alla bisogna. Chi vuole cambiarla dice: la legge è stata concepita in una fase in cui c’era in Italia il bipolarismo e dunque andava bene: o vinceva l’uno o vinceva l’altro; oggi c’è il tripolarismo e dunque al previsto ballottaggio potrebbe vincere il terzo incomodo, come è già accaduto in alcune città nelle Amministrative. Il terzo incomodo è nella fattispecie il Movimento 5 Stelle. I tre poli più o meno si equivalgono e perciò per pochi voti di scarto uno vince, l’altro va all’opposizione e l’altro rimane al palo. Per evitare che ciò accada è necessaria una legge diversa, proporzionale, che garantisca a tutte le forze politiche una propria rappresentanza. Questo il ragionamento, semplice semplice. Insomma una legge elettorale come un guardaroba di stagione, né più né meno. Ieri andava bene il maggioritario, oggi il proporzionale.
In realtà anche nel regalare il governo al Movimento 5 Stelle attraverso l’Italicum c’è tutta l’improntitudine di Matteo Renzi. Il quale aveva fatto l’Italicum come un vestito su misura, certo che ad indossarlo sarebbe stato lui. Le cose sono andate diversamente e l’arma che avrebbe dovuto usare lui rischia di essere usata da altri proprio contro di lui. E che il vincitore potrebbe essere il Movimento 5 Stelle è motivo di maggiore preoccupazione. 
Il Movimento di Grillo ha dimostrato di non saper affrontare e risolvere i problemi del Paese – vedi il caso Roma – mentre non ha al suo interno una dialettica trasparente e democratica; anzi, per certi aspetti, che neppure tende a nascondere, presenta chiari profili di eversione. Articoli 67 e 97 della Costituzione palesemente violati. Opacità nelle decisioni politiche del Movimento, che risponde ad un’azienda privata, la “Casaleggio Associati”. A Roma, vetrina al negativo del Movimento, c’è un’autentica guerra civile, in cui a distinguersi sono le donne, le solite Furie ed Erinni. La minaccia eversiva del Movimento 5 Stelle provoca la reazione di una minaccia altrettanto eversiva, quella dell’establishment, che cambia le regole del gioco a partita iniziata.
Ma, signori, siamo in una repubblica democratica o in una monarchia d’antico regime? La formula politica d’antico regime si condensava in tre parole “rex facit legem”, ovvero il re fa la legge. Se così funzionava, poteva accadere – ed accadeva – che il re, avendo nelle sue mani tutti i tre i poteri (legislativo esecutivo giudiziario), abrogasse una legge quando lo riteneva conveniente e ne facesse un’altra. Il passaggio allo stato moderno, con la separazione dei poteri, rovesciava la formula in “lex facit regem”, ossia è la legge che fa il re. Ora, sostituiamo la parola re con la parola potere. Nel momento in cui chi detiene il potere decide di cambiare una legge che non gli conviene più in quanto potrebbe farglielo perdere in favore di un suo concorrente si ricade nella formula d’antico regime, si azzera lo stato di diritto.
Si obietta che bisogna scegliere fra un danno formale ed un danno sostanziale. Il danno formale è evidente: non si cambia una legge elettorale quando si teme che a vincere sia l’avversario, neppure quando questi è considerato un pericolo per la democrazia, come accadeva nella Prima Repubblica, con l’esclusione di Pci e Msi, perché considerati antidemocratici. Il danno sostanziale è che con questa legge si rischia di consegnare il paese ad una minoranza mentre si deprivano di rappresentanza altre minoranze, magari minoranze di poco meno numerose. Se tanto accade in presenza di un elettorato che ormai, a parte qualche impennata referendaria, si astiene dal voto, allora si capisce ancora meglio il rischio che si corre. I cinque Stelle potrebbero essere i proverbiali quattro gatti.
L’ipotesi che a beneficiare dell’Italicum sia un movimento politico di per sé illegittimo – è al vaglio una precisa denuncia di incostituzionalità presentata dall’avv. Venerando Monello, presidente dell’European Lawyers Association – e per di più incapace di governare il Paese, è fondata. Il Movimento di Grillo, che oggi ha il 25 % dei voti, andava fermato, leggi alla mano, in primis la Costituzione, quando si è proposto alcuni anni fa e faceva solo ridere coi vaffaday del suo leader. Oggi è tutto più difficile e gravido di conseguenze. Si può anche capire che tra il danno formale e il danno sostanziale nell’immediato si scelga il primo, ma in prospettiva le cose potrebbero avere altre conseguenze.
Ma non è finita. Con che legge si vuole sostituire l’Italicum? Pare con una legge che farebbe tornare il Paese al sistema proporzionale col voto di preferenza; ossia si vorrebbe riportare il Paese all’epoca dei partiti, solo che oggi di partiti non ce n’è e quelli che ci sono non hanno nulla dei vecchi gloriosi partiti del tempo che fu. Cose da pazzi, allora? Pare proprio di sì. Dal Mattarellum si potrebbe passare ad un sistema elettorale, che, buono in sé, è Pazzarellum se si considera che viene applicato ad una realtà che non esiste. Per tornare alla metafora del guardaroba, sarebbe se a inizio estate venisse rinnovato come se si fosse a inizio inverno con cappotti e sciarponi.
Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera” di venerdì, 23 dicembre, ha scritto che “Non c’è nulla di male nel ripensare ai tempi (per definizione felici) della propria giovinezza ma è un male usare tale ossessione per condizionare il destino di un Paese”.

Non gli si può dare torto. Ma quando in un paese si mettono in discussione quotidiana le leggi fondamentali, ovvero le regole della convivenza politica, vuol dire che la situazione è ormai fuori controllo. Che significa? Che a fare la legge è il factum, così come si presenta volta per volta.

domenica 18 dicembre 2016

L'età renziana continua coi proconsoli


Bisogna convincersi, farsene una ragione: Renzi non è un episodio della politica italiana, non è un Goria o un Letta; è l’inizio di un’età, che gli storici chiameranno renziana. Così come per Giovanni Giolitti.
Renzi ha poco di paragonabile al grande politico di Dronero; Giolitti veniva dagli alti ingranaggi dello Stato, più simile a Ciampi; il Nostro è un politico di professione, viene dal nulla. Ha una laurea in giurisprudenza, punto e basta. A quarant’anni aveva già fatto il presidente della provincia, poi il sindaco di Firenze e infine il presidente del consiglio dei ministri. Prima di essere il rottamatore, è stato il propositore di se stesso. Si è proposto in tutto, perfino ai giochi di Mike Bongiorno. Dai boy-scout ha preso il senso del gruppo e del capo; uno destinato a primeggiare anche quando subisce una sconfitta. Come dire? Se perde la guerra vince la pace.
E’ stato letteralmente defenestrato dal voto popolare del 4 dicembre. Ma è caduto senza farsi niente, la finestra era a piano terra, non si è neppure ammaccato. E, infatti, il governo che è stato varato subito dopo è lo stesso di prima. Non c’è lui, ma, come faceva Giolitti, ha messo due suoi proconsoli: Gentiloni a capo del governo e la Boschi a sottesegretario alla presidenza del consiglio.
C’è da chiedersi perché. Non c’erano altri? Gentiloni, specializzato in successioni in corso d’opera, faceva proprio al caso? E la Boschi, la cui riforma costituzionale è stata subissata sotto una valanga di NO, non meritava una messa a riposo? Perfino la Finocchiaro, relatrice di quella riforma, è stata premiata col Ministero per i rapporti col Parlamento. Renzi, insomma, ha voluto far capire che chi comanda è ancora lui, che si è messo da parte per dimostrare che è ancora più forte di prima, premiando gli elementi chiave di una riforma che il popolo ha rabbiosamente bocciato. Una sfida, la sua, che ha del temerario.
E’ un bel dire da parte delle opposizioni: andiamo subito a votare, questo governo è la fotocopia del precedente, è un governo Renzi senza Renzi e via di questo passo. Cosa che ha avuto un’eco anche nella satira. Giannelli, sul “Corriere della Sera” di venerdì, 16 dicembre, ha messo nella sua vignetta la Merkel, Juncker e Hollande che, guardando Gentiloni, commentano “In Italia hanno cambiato parrucchiere”, alludendo alla diversa pettinatura dell’attuale premier rispetto a quella del precedente. Dunque, nessun dubbio che Renzi è vivo e vegeto e pronto a tornare più forte e – ahilui – più arrogante di prima.
Egli rientra in una tipologia di furbi che non si accontentano della furbata a danno di altri, ma  vogliono anche compiacersene esibendola. Questo è il vero motivo della Boschi e della Finocchiaro al governo. Avete bocciato la riforma? Ecco, io metto nel governo chi l’ha redatta e politicamente rappresentata. Perché io – quasi emulando Alberto Sordi del Marchese del Grillo – so’ io e voi non siete un cazzo!
Ma la furbizia è intelligenza imperfetta; magari consente di ottenere nell'immediato grossi risultati ma poi spinge ad andare oltre e li fa perdere. L’intelligente non si esibisce mai, neppure in politica; anzi, soprattutto in politica, deve saper simulare e dissimulare. Renzi avrebbe dovuto o dovrebbe trarre una lezione dalle randellate referendarie, dare una spiegazione al fatto che è diventato così odioso a tanta gente, a tanti giovani soprattutto. C’è chi si sorprende che i giovani lo detestino; invece è assolutamente normale. I giovani non amano i migliori della classe, specialmente quando sono sfacciatamente fortunati e protetti. Parola di professore. Renzi non se ne rende conto o forse non riesce ad essere diverso e continua nella sua arroganza, come se, indispettito, la vuol far pagare a chi gli è stato contro.
Ma, dettagli caratteriali a parte, egli sta costruendo il suo ritorno per dare un seguito alla sua “età”. Questo governo, con molte probabilità, durerà fino alla scadenza del 2018; salverà perciò il vitalizio di tanti parlamentari. La qual cosa esaspererà la rabbia dei cittadini contro i politici.
Con troppa fretta alcuni commentatori nei giorni scorsi hanno parlato del fenomeno del bandwagoning, cioè del salto sul carro del vincitore. Hanno sbagliato. A parte che non c’è un carro del vincitore per saltarvi su, ma se pure intendessero alludere ai voltagabbana – quanto è più bello servirsi dell’italiano! – non credo che ce ne siano tanti ad aver abbandonato Renzi. Certo, alcuni commentatori politici oggi dicono di Renzi – penso a Paolo Mieli – quello che non dicevano fino al voto del 4 dicembre.
La durata del governo Gentiloni è credibile – altro discorso se anche auspicabile – perché è in corso la guerra di logoramento al Movimento 5 Stelle. Se le cose a Roma continueranno ad andare con la sindaca grillina Raggi come sono andate finora, ossia malissimo, c’è da credere che il Movimento arriverà alla fine della legislatura logoro. Chi ha interesse a mettere fine ai cunctatores? Il Movimento 5 Stelle fa paura a tutti; e chi non avverte il rischio di una vittoria dei grillini vuol dire che è proprio un irresponsabile o un avventuriero, un sostenitore del tanto peggio tanto meglio. I grillini hanno dimostrato finora di essere anche simpatici e puliti, ma hanno anche evidenziato spiccate incapacità di gestire situazioni di comando, di governo, di potere.

Per tutte quante queste ragioni Renzi probabilmente vincerà le primarie del suo partito e si proporrà candidato premier, in barba alla Costituzione de jure che non lo prevede, alle successive elezioni. Per le quali manca una legge che sia la stessa di Camera e Senato; ma questa si troverà, magari piano piano, senza fretta, perché il tempo deve passare e produrre situazioni di favore a chi è più furbo e forse anche più forte di altri. In questa gara Renzi non ha rivali.  

domenica 11 dicembre 2016

Renzi Uno: il tirocinio


Matteo Renzi ha subito il 4 dicembre scorso una delle più nette e umilianti sconfitte che politico italiano, Mussolini a parte, abbia mai subito. Berlusconi, tanto per fare il primo paragone che ci viene a tiro, anche per la vicinanza temporale, è stato cacciato per congiura di Palazzo, tutto compatto alla bisogna, compresi giannizzeri e maggiordomi; non è stato mai sconfitto davvero dall’elettorato, nemmeno quando è stato “battuto” da Prodi con percentuali irrilevanti e sospetti di brogli. Renzi, invece, è stato così battuto come nessuna nerboruta massaia batte i propri panni impolverati e sporchi.
Netta, la sconfitta, lo dice il risultato con tutti gli annessi e i connessi (percentuale di votanti, giovani contrari sui quali faceva affidamento, un diffuso astio popolare). Si è avuta l’impressione che ci fossero elettori disposti perfino a pagare pur di votargli contro.
Umiliante, la sconfitta, la rendono i suoi atteggiamenti, dal “se perdo lascio la politica perché io non sono come gli altri”, continuamente ripetuto, all’occupazione delle televisioni, alle elargizioni di danaro, alle bugie, alle sue bombarde contro l’Europa, a quel suo proporsi come un vecchio saggio davanti a scolaretti che fa tanta irritazione. Del resto così aveva esordito in Senato: con le mani in tasca e con un fare da vecchio condottiero della politica, lui che puzzava di “trovatello” lontano un miglio.
In nessun politico italiano era apparso mai così stridente lo scarto tra ciò che era e ciò che voleva sembrare. No, non si tratta di un caso di maleducazione; Renzi non è maleducato, soffre di un evidente complesso di superiorità, una specie di convinta predestinazione ad essere e a fare cose straordinarie nella vita. Non a caso si è proposto come il “rottamatore”.
Il giorno successivo alla tremenda scoppola subita la televisione lo ha ripreso per strada mentre se la fischiettava come un operaio che aveva appena smesso di lavorare e andava a prendere la metro per tornare a casa. Perché lui se si comporta come un grand’uomo davanti a platee importanti; poi si comporta come uno spazzacamino dopo aver scapolato. Il giorno successivo ancora, alla direzione del suo partito, ha continuato ad ostentare disinvoltura coi suoi tipici atteggiamenti di grand’uomo, rivolgendosi all’assemblea con “oh, ragazzi”, “boni”, e via apostrofando. Che non è linguaggio da sedi istituzionali ma da bar o da stadio.
La batosta avuta non si capisce se non si tengono in considerazione anche questi elementi, che saranno pure marginali ma servono a capire l’uomo. Si racconta che ad Achille Starace Lecce, che pure era la sua città e si era in regime fascista, non perdonò mai l’essersi presentato in pubblico col frustino in mano.
Naturalmente ce ne sono altri, di motivi, che spiegano la sconfitta di Renzi, innegabili come l’aria che respiriamo. Primo, la sua nomina, ovvero la sua investitura, avvenuta secondo modalità feudali, da parte di Napolitano. Secondo, un parlamento considerato “illegale” perché votato con una legge incostituzionale (e qui le virgolette non c’entrano!). Terzo, il mettere continuamente il voto di fiducia per far passare leggi non condivise nemmeno dal suo stesso partito. Quarto, la spregiudicatezza nel violare intese con gli alleati. Quinto, il fallimento delle sue riforme, proposte come fiori all’occhiello. Sesto, la prepotenza di sbattere fuori dalle commissioni parlamentari quelli che non gli erano ubbidienti e i direttori di testate giornalistiche non in linea. Il caso de Bortoli in testa. Si fa male a non parlare. In Italia oltre al linguaggio, c’è il silenzio politicamente corretto. Quello dei giornalisti è reticenza.  
Nei giorni di consultazioni da parte del Presidente della Repubblica, lui ne ha fatte altre in parallelo da Palazzo Chigi, poco curandosi di apparire quanto meno irriguardoso. Se potesse rottamare Mattarella, forse voluto da Napolitano, di sicuro lo farebbe.
Ora, se non vuole che la gente lo fischi e lo spernacchi per la strada, deve uscire di scena. Se ne deve stare buono-buono per un po’ di tempo; deve mettersi a disposizione della causa del proprio partito e della nazione, con umiltà. Né farebbe male se trovasse il modo per chiedere scusa a quanti in questi due anni e mezzo ha offeso o umiliato, incominciando dal popolo italiano.
La situazione che lascia è davvero ingarbugliata e grave. L’elettorato ha detto chiaramente che vuole votare, che vuole recuperare finalmente una condizione di paese normale. Resta tuttavia l’inghippo del sistema elettorale, che non c’è o non è uniforme per Camera e Senato. E già! Anche qui si nota l’improntitudine di Renzi, ha dato per certo che il referendum l’avrebbe vinto e che il Senato sarebbe stato eletto con le Elezioni Regionali. Conclusione: se si dovesse votare coi sistemi vigenti, sarebbe un’altra porcata. Per fare una legge elettorale uniforme è necessario fare prima un governo. E qui è il punto. Quanto durerà? Il tempo per la legge elettorale o per far maturare il vitalizio ai tanti parlamentari che ci sono nelle due Camere? E se, per non farla sporca, si decidesse di portare fino a conclusione la legislatura, fino al 2018? Sono domande che i cittadini si pongono e che forse troveranno una qualche risposta nei prossimi giorni. Sarebbe auspicabile che la cosiddetta casta desse prova di onestà, facendo una legge elettorale quanto prima per evitare il fondato sospetto di mischiare interessi personali e meschini ad interessi generali e nobili.   

E Renzi? Resta una risorsa importante per il Paese, a condizione che faccia tesoro degli errori commessi, che consideri questo suo primo governo un periodo di tirocinio, di prova per vedere che cosa è andato bene e che cosa è andato male. Se pensa, come purtroppo sembra voglia fare, che era nel giusto e che è rimasto vittima di chi non vuole che in questo Paese cambi mai niente, ovvero del partito grigio della conservazione, come si diceva una volta, e persevera nei suoi atteggiamenti di parvenu della politica, un incontinente dello strafare e dello stramostrare, allora il suo destino è segnato. 

domenica 4 dicembre 2016

Renzi, dagli insulti al ragionamento


A Firenze i tipi come Mattero Renzi, alla Pimpinella la sbruffoncella, la vignetta settimanale del “Grand’hotel” di tanti anni fa, li chiamano bombardini. Se mancava un’immagine plastica di questa nuova maschera nazionale, con Renzi ce l’abbiamo. Da noi, nel Salento, i tipi come lui li chiamiamo semplicemente cachielli, giovinotti supponenti che si atteggiano a grandi, che posano e sparano palle. Paese che vai, maschere e nomi che trovi. Ma mettiamo da parte gli “insulti”, ormai ingredienti insostituibili del dibattito politico. Del resto, quando a casa seguo i vari telegiornali e sento dire da Renzi e dalla renzaglia delle colossali minchiate, un po’ insultato e offeso mi sento.
Ma veniamo al punto. Renzi ha fatto una lunga serie di errori in quest’ultimo anno. Incominciò col voler far approvare a colpi di maggioranza una riforma costituzionale che avrebbe portato diritti-diritti al referendum con la conseguente spaccatura del paese. In questo, discepolo di Berlusconi! Quanto si è verificato in questo mese di campagna referendaria lo dimostra e avanza, tanto che le massime cariche dello Stato, da Mattarella alla Boldrini, preoccupate, invocano la cucitura del paese. Si vanta di essere riuscito a fare quello che altri non sono riusciti. Gli altri semplicemente non hanno voluto fare quello che ha fatto lui. D’Alema, per esempio, con la Bicamerale la riforma la fece, ma siccome si trattava di imporla in Parlamento a forza di maggioranza, dopo che Berlusconi si era sfilato, preferì desistere. Come Renzi oggi fece Berlusconi ieri – l’ho appena detto – nel 2005: riforma fatta, referendum e sconfitta nel 2006. Dunque, dove sta l’impresa di Renzi? Sta nel fatto che con lui c’è il famigerato establishment, come dimostrano i tanti Mieli e Prodi, Pera e Urbani, Casini e Benigni, e compagnia teatrante; ai tempi di Berlusconi l’establishment faceva crociate contro.
Il secondo errore fu quando legò la riforma alla sua persona. Se non passa mi ritiro dalla politica – disse – trasformando un referendum su un quesito di ampia portata politica e costituzionale in uno specifico personale: pro o contro la sua persona. O non capiva la grandezza della cosa o gonfiava la sua piccolezza fino a confondere la Costituzione tra i pupazzi di via San Gregorio Armeno. Oggi riconosce di aver sbagliato e prende atto che c’è tanta gente in questo paese che gli è avversa, visceralmente avversa. Diceva sempre che lui metteva la faccia. Lui non si ritira più, ma ha già ritirato la faccia; la faccia lui l’ha persa. Per cavarsela è costretto a mangiare pane altrui, guarda caso dei suoi rottamati o tali presunti. Di qui i tanti appoggi ricevuti, come di sopra citati. Fino agli impazziti, come Prodi, il quale critica la riforma per mesi e poi annuncia che voterà SI. Ma presto il rottamatore si accorgerà di essersi in parte rottamato da solo, perché quando si mangia pane altrui, si finirà per accorgersi “sì come sa di sale”, secondo i versi di quell’immortale suo conterraneo, che fu esule per l’Italia.
Il terzo errore è stato di appoggiare apertamente la Clinton nella campagna elettorale americana per le presidenziali, ritrovandosi con un Trump vincitore e certamente non “amico”, per lo meno suo. Il già “isolazionista” Trump non avrà certo per l’Italia un occhio di riguardo. Poi vedremo quali saranno le conseguenze.
Il quarto errore, in continuità di tempo, è quello delle regalìe: 800 Euro a chi ha un reddito inferiore a 1.200 euro, 500 Euro una tantum ad ogni diciottenne, aumenti alle pensioni più basse e via elargendo. Sono soldi buttati perché improduttivi, autentici regali che, salvo il reato di voto di scambio, ricorda la vendita delle indulgenze; qui indulgenze di voti.
Il quinto errore lo sta facendo in questi giorni: continua a sparare palle contro l’Europa, che lui dice di voler riformare. Dopo l’Italia riformerò l’Europa. Bum! Il sospetto che si renda conto di dire stronzate è legittimo; ma se così è gli italiani avrebbero ragione di sentirsi quotidianamente offesi da uno che li considera dei rincoglioniti. Chiedo scusa per il turpiloquio, ma come si fa a fare il pulitino in una fossa di letame? Certe sparate di Renzi ricordano il Mussolini di ottanta anni fa, in una situazione completamente diversa da quella odierna. E tuttavia anche per il Duce risultarono smargiassate, assolutamente prive della minima possibilità di concretizzare alcunché: le “reni della Grecia”, la “battigia” siciliana. Si dice che a degli universitari, che, in visita a Palazzo Venezia nel 1943, chiesero “ma Duce perché stiamo perdendo dappertutto?”, Mussolini finì con l’ammettere che “perfino Michelangelo con certa creta avrebbe fatto solo dei càntari”. Renzi impari almeno l’arte figula. Qui nel Salento abbiamo ottimi maestri.
Il sesto errore è di voler cambiare la legge elettorale detta Italicum dopo averla fatta votare ponendo il voto di fiducia e dopa averla definita un capolavoro immodificabile. La parola di Renzi, per sue stesse prove, non vale niente. Ma non è della parola che qui si tratta, bensì degli effetti politici. Lui dice che deve piegarsi alla volontà della maggioranza, sicché il capolavoro dell’Italicum, entrato in vigore il 1° luglio di quest’anno, viene abolito senza mai essere stato messo in moto. E questo sarebbe il grande messìa della politica italiana? Fa a luglio ciò che disfa a novembre. Come la  sua Firenze dei tempi di Dante?: “fai tanto sottili / provvedimenti,  che a mezzo novembre  / non giugne quel che tu d’ottobre fili”. Così nella celebre invettiva.
Ma il furbastro fiorentino coglie la palla al balzo e rottama l’Italicum perché è un sistema elettorale che si pensa favorisca alle elezioni il Movimento 5 Stelle. E vi pare una cosa corretta cambiare i sistemi elettorali a convenienza? Qui viene meno la divisione dei poteri. E’ un fatto di estrema gravità, perché se passa l’idea che in Italia non puoi vincere le elezioni secondo leggi e sistemi vigenti, allora occorre prendere il potere diversamente. Catilina, prima di ricorrere alla congiura e all’aperta sfida militare contro Roma, tentò tre volte di diventare console con le buone, ma quel manipolatore di Cicerone glielo aveva sempre impedito con vari discutibili cavilli. 

Molti, in questi giorni, mi hanno chiesto per chi voto. Ho risposto secco e seccato: voto per il NO. E quando mi hanno chiesto perché, ho risposto: per principio, perché la Costituzione nel XXI secolo non la concede e non la trasforma un governo. Se tanto accade vuol dire che non è poi passato tanto tempo da quando nel 1848 lo Statuto lo concedevano, per grazia loro, i sovrani, Ferdinando II di Napoli, il Granduca di Toscana, Carlo Alberto di Sardegna. Un regresso di quasi due secoli. Ma di questo se ne accorge solo chi conosce la storia. Gli altri sono semplicemente beati.  

domenica 27 novembre 2016

Renzi e l'insalata postreferendaria


Lo spettacolo offerto da Matteo Renzi nei dibattiti sostenuti per il referendum del 4 dicembre ha dato l’idea di quanto ormai il “trumpetto” fiorentino sia cotto. Non è riuscito una sola volta a scartare il malloppo della sua riforma, quasi avesse paura di far vedere cosa nasconde nel cartoccio. Slogan e slogan, ripetuti come mantra: chi vuole che tutto cambi, voti sì; chi vuole che nulla cambi, voti no. Ha ammesso di aver sbagliato a personalizzare il voto referendario. Il che, se per un verso gli fa onore – è sempre bene ammettere gli errori – per un altro dà ragione a quanti avevano visto in lui un nuovo temerario Fetonte. E, del resto, a trent’anni, cosa poteva aver appreso dalla vita e dai suoi saperi? Tanti ne aveva quando è saltato sul carro del Sole. Ha fatto il presidente della provincia e il sindaco di Firenze – cose non da poco, intendiamoci – ma assurgere a capo di governo, senza passare dall’esperienza elettiva, è un’altra cosa. Lo dimostra nel suo essere rimasto un provincialotto che ancora non crede dove si trova. Spesso “sculetta” con la faccia e si volta indietro per vedere se qualcuno lo guarda, come una ragazza civettuola e stupida. L’altro errore marchiano è aver appoggiato la Clinton alle elezioni americane. Non è stato un errore di valutazione, ma di metodo, tipico di chi non ha esperienza.  
La questione dell’età per un politico non è senza conseguenze. A proposito della riforma, in particolare del Senato e della sua riduzione risarcitoria per politici di serie inferiore, è inevitabile che la questione si ampli. Il Senato – lo dicono la storia e la filologia – è l’assemblea degli anziani o dei saggi, come una volta si diceva, comunque di persone mature che per età ed esperienze possono dare all’azione amministrativa di un paese contributi di saggezza, di prudenza e di equilibrio. Il fatto che per essere eletti, secondo la Costituzione, occorra avere un minimo di quarant’anni ne spiega la ratio che è alla base. Il Senato bilancia la Camera dei deputati, un’assemblea formata da persone più giovani, eleggibili con un minimo di venticinque anni. L’equilibrio sta tutto qui, oltre al rapporto numerico, 315 senatori contro 630 deputati. E lasciamo stare camera alta, una volta di nomina regia, e camera bassa elettiva. In passato l’età era fondamentale per tutto.
Oggi è il trionfo del giovanilismo. Gli anni non compiscono più i panni, ma aggiungono malanni e …danni. Questa sembra essere oggi la nuova valutazione della vita. L’età non solo non conta ma addirittura è un fattore negativo. Si ritiene che l’esperienza, che una volta non poteva venire che dagli anni, oggi sia come un decoder incorporato; non viene dalle prove della vita, ma dalla fabbrica, ovvero dalla nascita. Per cui, o ce l’hai o non ce l’hai. E se ce l’hai, va sempre più scemando man mano che passano gli anni. Insomma: Vae senioribus!  E’ un’autentica rivoluzione: la Camera alta diventa Camera nana e la Camera bassa diventa Camera unica.
Ma – si dice – a che serve un Senato che fa le stesse cose della Camera? Un doppione che quando va bene è inutile e quando va male frena l’azione del governo, anzi ne può provocare la fine, gettando il paese nella precarietà? Oggi le condizioni sono assai diverse da quelle del 1946; anche se ci sarebbe da dire assai sulle cause delle lungaggini italiane. Allora, via il bicameralismo perfetto. Si scopre che perfino i Padri Costituenti erano dello stesso parere e che a questo sistema si piegarono per paura che il Pci vincesse le elezioni a danno della Dc e del paese.
Ora, ci sta pure che il Senato venga addirittura abolito; a questo punto sarebbe anche meglio. Non ci sta che venga mortificato e fatto scadere in non si capisce che ruolo. Basti considerare che poiché i senatori per effetto della riforma vengono nominati tra i consiglieri regionali, per i quali basta avere diciotto anni per essere eletti, potremmo ritrovarci con senatori con un’età addirittura inferiore a quella dei deputati. Sarebbe come se i padri fossero più giovani dei figli; come se i figli nominassero i padri. Ma, quando si capita in mano a ragazzini – dice un noto proverbio dialettale – si finisce “o cacati o pisciati”. E i luminari del diritto costituzionale favorevoli al Sì dove stanno?
La demolizione del Senato si carica perciò di valenze simboliche importanti, che afferiscono una visione della vita assai più complessa. Il Senato poteva rimanere, semmai ridotto di numero, ma con un compito preciso e importante. Si poteva privarlo del voto di fiducia al governo, ma era importante lasciarlo elettivo. Invece si è pensato di invalidare la volontà sovrana del popolo privandolo del diritto di eleggere i senatori che vuole. Essi, in quanto persone di quarant’anni, non devono contare: questo è il punto. E se si osserva che i quarant’anni di oggi sono i trenta di ieri, a maggior ragione la dirigenza politica non va affidata, senza contrappesi, a persone di trent’anni, che corrispondono a chi prima ne aveva venti. Questa mania di azzerare tutto, di uniformare tutto, sta sconvolgendo la società: non ci sono più maschi e femmine, non ci sono più giovani e anziani; tutti sono tutto. E’ un arricchimento o è un impoverimento? Ai posteri – direbbe Manzoni – l’ardua sentenza. Noi, che difficilmente saremo posteri, lo diciamo oggi: è un gravissimo impoverimento. Chi vivrà, vedrà. Di avere torto non si deve aver paura. La società ha bisogno di ritrovare il suo equilibrio di diseguaglianze, di dissimiglianze, di generi, di età, di competenze e di ruoli, su una base di diritti universali, condivisi. Il caos può essere il ritorno all’inizio; ma passa sicuramente dalla fine.

Per tornare a Renzi, che un po’ di simpatia la fa con quell’aria di chi avverte la batosta, si può dire che abbia già perso, perché comunqe il paese dal referendum uscirà spaccato. Non dice cosa farà all’indomani del voto; ma è ormai di tutta evidenza che dovrà recarsi dal Presidente della Repubblica, a prescindere dall’esito, per essere o mandato a casa o reincaricato per fare un nuovo governo. Ecco, questo sì dipenderebbe da chi vince. Ma, a quel punto, ridotto ormai ad una patata lessa, Renzi può esser buono solo per un’altra insalata, alla nazarena.

domenica 20 novembre 2016

Acquarica: quel monumento a Moro fatto saltare


Erano trascorsi esattamente quattro anni da quando il 9 maggio 1978 fu trovato in via Caetani a Roma il cadavere di Aldo Moro nella Renault 4 rossa fra Via delle Botteghe Oscure, sede del Pci, e Piazza del Gesù, sede della Dc. Era stato ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia. 
Moro non era amato dagli italiani e neppure dai democristiani, a parte una minoritaria componente di seguaci che non si era mai formalizzata in corrente, come ce n’erano tante in quel partito. Ma la morte, avvenuta dopo la strage dei suoi cinque uomini di scorta e un lungo processo, detto del popolo, aveva creato intorno a lui un alone quasi di martirio. Altri erano caduti in quegli anni sotto il fuoco del terrorismo rosso e nero; altri ne sarebbero caduti dopo. Il Paese rinnovava dolore e preoccupazione ogni volta che si verificava l’ennesimo attentato, l’ennesima strage. Le vittime, importanti e meno importanti, e addiritture sconosciute, quelle delle stragi, destavano compassione, a prescindere dalla loro appartenenza partitica e dalla fede politica di ciascuno. Nessuno divenne moroteo dopo e per la morte di Moro; semmai qualcuno se ne allontanò. Perfino i più accaniti avversari sospesero giudizi e considerazioni per un sentimento di pietas verso lo scomparso.
Un po’ dappertutto in Puglia, quasi in spirito risarcitorio, allo statista ucciso furono intitolati edifici pubblici, vie e piazze, anche per il prodigarsi dei tanti democristiani che ricoprivano cariche amministrative e rappresentative nelle istituzioni e negli enti locali; i quali, senza essere morotei, promossero iniziative importanti. All’epoca presidente della Regione Puglia era Nicola Quarta e della Provincia di Lecce Pietro Licchetta, entrambi democristiani di altra corrente.
Ad Acquarica del Capo, tranquillo paesino del Capo di Leuca, a Moro, due anni dopo la morte, fu intitolata la villa comunale da poco costruita e al centro della stessa gli fu eretto un monumento, una stele di pietra col suo busto in bronzo, opera dello scultore Franco Filograna, originario di Casarano e residente a Galatina. Nella parte alta della colonna l’iscrizione “ad Aldo Moro / maestro di sapere / e di vita / apostolo di libertà / dal martirio consacrato / alla storia e all’Italia”. L’inaugurazione si tenne il 1° giugno 1980. All’epoca era Sindaco il democristiano Giuseppe Palese, che, a dire il vero, moroteo non era mai stato. L’iniziativa di dedicargli villa comunale e monumento era partita all’indomani della tragedia di via Caetani.
La villa comunale di Acquarica sorge alla periferia del paese poco prima di entrare nell’abitato di Presicce, lungo la via che porta a Santa Maria di Leuca. La sera del 9 maggio 1982 – chiaro l’intento “celebrativo” – intorno alle nove di sera, i residenti della zona sobbalzarono in casa per uno scoppio improvviso che aveva fatto tremare i vetri delle finestre. Si resero conto subito di quanto era accaduto fuori nella villa.  L’esplosione dell’ordigno posto alla base del monumento aveva scaraventato a distanza il busto di Moro. La pietra del basamento, che proveniva dal “manfìo”, una località posta tra Taurisano, Ruffano e Casarano, simbolicamente a rappresentare la salentinità del tributo reso allo statista di Maglie, aveva sostanzialmente retto. Il busto rimase danneggiato, per fortuna non in modo grave, tant’è che non ci fu bisogno di restauro. Anzi, a quel che riportarono le cronache del tempo, non si volle restaurarlo per consegnare alla storia anche le tracce dell’attentato.
La notizia rimbalzò in tutta Italia. Lo sconcerto fu enorme, la condanna unanime; a prescindere da simpatie e antipatie, appartenenze ed avversioni. Oltre tutto Acquarica era stato da sempre un comune tranquillo, dove raramente erano accaduti ed accadevano fatti politici di rilievo. Qualche scontro politico di una certa importanza c’era stato nell’immediato primo dopoguerra, quando si fronteggiarono per qualche tempo ex combattenti e reduci, popolari e socialisti, fascisti e nazionalisti. Ma tanto accadeva in ogni comune. Un attentato così grave ad un monumento era un fatto nuovo; uno sfregio, tanto meno comprensibile perché portato ad un uomo che aveva pagato con la vita il suo impegno pubblico. Legittimo da parte di autorità e politici temere un terrorismo incipiente nel sud più sud d’Italia, che avrebbe potuto annunciare imprese molto più gravi. 
La macchina investigativa si mise subito in moto e non impiegò molto tempo a giungere agli autori dell’attentato; o forse furono gli stessi a costituirsi spinti dalle famiglie per evitare guai peggiori. Erano sei giovani di Presicce, i quali, meno di un mese dopo, furono processati e condannati. La sentenza fu mite, la pena più pesante di un anno e quindici giorni di reclusione, con sospensione della stessa. Per i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce fu una “ragazzata”, l’impresa di ragazzi annoiati dalla vita di paese, monotona e vuota. Ma per difendere quei ragazzi furono scomodati i migliori penalisti del foro leccese, fra cui Aymone, Corleto, Salvi e Vernaleone. Francamente una sproporzione per difendere una “ragazzata”. Lo stesso pubblico ministero, Rosario Colonna, escluse la motivazione terroristica. Insomma, ci fu un concorso di “aiuti” molto importanti nei confronti di quei ragazzi, che, tra ideazione del gesto criminoso ed esecuzione, avevano dimostrato comunque di saperci fare.
Resta l’aspetto politico, che sfugge alle attenuanti processuali. Si volle colpire il simbolo di un uomo politico allo scadere di un anniversario della sua morte; un gesto senza dubbio mirato e di avversione. Troppo poco tempo era passato dalla strage di Via Fani e le polemiche che avevano sempre accompagnato le scelte politiche di Moro avevano lasciato code. Non a caso la legge vuole che passino dieci anni dalla morte prima che si intitoli un edificio o un luogo pubblico allo scomparso, salvo che non si tratti di persona obiettivamente importante e nei confronti della quale si è tutti d’accordo. Ma la condivisione istituzionale, per quanto ampia possa essere e addirittura unanime, non sempre coincide con quella popolare. Quel gesto, esecrabile, contro l’omaggio pubblico ad Aldo Moro, resta un episodio politico non senza significato. Nessuno di quei ragazzi proveniva da famiglia democristiana, socialista o comunista, ma tutti da famiglie notoriamente di destra.
E’ bensì vero che gesti vandalici contro monumenti sono stati compiuti e se ne compiono in tutta Italia. Per restare nel Salento, ad Alessano alcuni anni fa fu messo in testa al monumento di don Tonino Bello un secchio di immondizie dopo averglielo rovesciato addosso; a Taurisano, una statua in marmo di Padre Pio, opera dello scultore Donato Minonni, nemmeno ventiquattr’ore dopo la sua inaugurazione nella Villa Comunale, fu presa a martellate e gravemente danneggiata.  
Quella dei giudici leccesi, pur senza fare dietrologie, fu una sentenza “politica” sicuramente importante. Si volle esorcizzare la paura del terrorismo, e soprattutto, evitando condanne esemplari, scongiurare “vittime” giudiziarie, che avrebbero potuto alimentare l’avversione al sistema, come allora si diceva. Una scelta opportuna, se consideriamo che quell’attentato sarebbe poi rimasto un fatto isolato con grande soddisfazione di tutti. Fu una sentenza di grande saggezza e umanità. Erano ragazzi, che potevano avere pure delle idee politiche, magari ancora acerbe e confuse, ma alla loro età i gesti sono come i pensieri, d’istinto e in libertà. Le autorità investigative accertarono che dietro non c’era nulla di importante; e tanto bastò per chiudere lì la vicenda. 
Ma l’iscrizione in alto sulla stele, con la bella dedica, non è stata ancora ripristinata.  

domenica 13 novembre 2016

Trump, l'erba che non vuoi


Ed ora, attacchiamoci tutti al…tramp! Contro tutte le previsioni, contro tutti gli avversari, americani e non, di destra e di sinistra, contro le donne ipermobilitate e le variabili di genere, contro i giornali e le televisioni, contro il Papa, Donald Trump ha vinto. E’ il 45° presidente degli Stati Uniti d’America.
Il giorno dopo i politici di tutto il mondo si sono piegati al politicamente corretto e gli hanno fatto i complimenti, tranne qualcuno. Il Presidente della Commissione Europea Juncker lo ha bocciato, dicendo che non sa nulla del mondo e che ci vorranno due anni per farglielo conoscere. C’è del malanimo in questo giudizio. Non puoi essere un miliardario e vincere le elezioni americane senza conoscere il mondo. E poi, i collaboratori, gli esperti, gli ambasciatori, che ci stanno a fare?
C’è anche chi ha brindato alla sua elezione, come il russo Putin; e – chissà – forse anche il turco Erdogan e qualcun altro della serie. Il mondo sta andando pericolosamente verso forme autoritarie, in puntuale coincidenza di crisi tra due secoli.
Paolo Mieli, ospite di “Otto e Mezzo”, si è detto sconvolto dalla sua elezione. L’ing. De Benedetti, quello del gruppo editoriale “Repubblica-L’Espresso”, ospite pure lui di “Otto e Mezzo”, ha detto che per Trump l’Italia è…Capri, dopo aver affermato che non è poi quel ricco che vuole dare ad intendere e che dà ai beni che possiede il valore dei debiti che ha, che sarebbero assai di più. L’imprenditore Oscar Farinetti, presidente di Eataly, sempre a “Otto e Mezzo”, lo ha chiamato “sessista, razzista, ignorante, megalomane e bugiardo”.
Il politicamente scorretto è in trionfo planetario. Accomuna politici e imprenditori; proprio quelli che dovrebbero essere più attenti alle parole che dicono. Ma è anche vero che il politicamente corretto incomincia a somigliare sempre più alle brioches di Maria Antonietta, quelle che prelusero alla ghigliottina e alle teste mozzate. Attenzione, noi italiani abbiamo in casa più di un Trump.
Obama, per prassi e non per cortesia, lo ha ricevuto alla Casa Bianca e gli ha stretto la mano, dopo un lungo colloquio, nel corso del quale le minacciose espressioni usate nei suoi confronti per tutta la campagna elettorale pesavano come aria dopo un incendio. A vederli, sembravano con gli occhi più volersi evitare che incontrare, all’insegna dell’imbarazzo. Niente foto di gruppo: poteva sembrare un’offesa ai Clinton, i grandi trombati, entrati in conclave cardinali e usciti curati di campagna.
In tutti gli Stati Uniti migliaia di manifestanti hanno protestato contro la sua elezione: centinaia gli arresti. I manifestanti non lo vogliono come Presidente, dicono di non sentirsi rappresentati. E che vogliono? Molti di loro credono ancora di essere nella giungla.
Mai elezione presidenziale in America e credo nel mondo è stata così traumatica. Sono mancati solo i suicidi; per il resto è tragedia nera. La democrazia, intesa anche come eleganza e rispetto, è in gramaglie. E, in verità, non si può dire che non sia accaduto nulla, anche a volersi sforzare.
Qualcosa di molto grave è accaduto. Poi, se in bene o in male, è un altro discorso. Atteniamoci ai fatti: un uomo, che mai prima aveva occupato cariche pubbliche, assolutamente fuori dalla politica, un uomo d’affari e basta, neppure tanto avveduto, essendo passato da periodi buoni a periodi di quasi fallimento, fino a salvarsi beneficiando di una legge che lo esentava dalle tasse, è diventato Presidente degli Stati Uniti d’America. Un uomo dipinto come arrogante, volgare, che si atteggia a bullo, è il capo della più potente nazione del mondo. Si parla di sondaggi sbagliati, di un altro golpe dei social; ma questi sono dati tecnici, che pure contano ma non spiegano la grande “rivoluzione”. E' la democrazia ad essere in preda a crampi e a sconvolgimenti intestinali, pur manifestando tutta la sua fantasmagorica fenomenologia. Obiettivamente c’è da preoccuparsi.
E’ altrettanto preoccupante che a sfidare Trump sia stata una donna che non gode di simpatie nemmeno di genere, per lo meno non sufficienti a vincere le elezioni. Non averle vinte contro un candidato come lui vuol dire che era la meno adeguata a rappresentare un grande partito come quello democratico e soprattutto i bisogni e le istanze di enormi fasce sociali; vuol dire che gli ultimi otto anni di presidenza “democratica”, in mano ad un afroamericano, hanno creato una condizione di disagio così diffuso in tutto il paese che gli americani avrebbero portato alla Casa Bianca perfino un orangotango.
Chi è di destra dovrebbe essere contento di Trump. A pelle si avverte un uomo del quale il meglio che si può fare è essere prudenti. In tanti dicono che ora da presidente sarà diverso dal candidato. Probabilmente è così. Ma intanto le sue parole stanno creando negli Stati Uniti una divisione molto pericolosa. Vada per le accuse di sessismo. Chi in tutta la sua vita non ha detto o fatto qualcosa di disdicevole in proposito? Ma continuare ad ostentare perfino in campagna elettorale parole e frasi offensive nei confronti delle donne è prova di insopprimibile, compulsiva indole volgare e stupida. Trump dà l’idea di un trattore agricolo più che di uno spyder sportivo. Certo, da presidente degli Stati Uniti, ha accanto uomini di grande responsabilità, che sapranno educarlo, fermarlo negli spropositi, guidarlo verso scelte importanti per il loro paese e per il resto del mondo. Nel migliore dei casi la sua azione politica può sortire effetti benefici – è una scommessa – ma resta il fatto grave che il modo come ha condotto la campagna elettorale, in presenza di attacchi che gli arrivavano da tutte le parti, rende la democrazia non un confronto di idee, di posizioni, di prospettive, ma una rissa fra marinai in un malfamato angiporto.
In questi giorni i confronti con qualche nostro politico degli ultimi tempi si sono sprecati. In verità Trump sintetizza gli ultimi politici italiani che hanno fatto successo come lui: Bossi prima maniera, col suo celodurismo; Berlusconi, coi suoi denari e col suo vizio delle donne; Grillo per la volgarità quale arma di propaganda politica, e sotto sotto – ma neppure tanto – Renzi con la sua rottamazione. Non a caso chi si è subito schierato dalla sua parte sono stati, prima dell’esito elettorale, Salvini, e dopo Grillo; mentre la destra più educata, da Forza Italia a Fratelli d’Italia, pur soddisfatta, si è ben guardata dal fare salti di gioia. 

Non v’è dubbio che la vittoria di Trump fa entrare il populismo in una fase nuova, più degenerata. Il cattivo esempio ormai non viene più dal popolo, come il termine vorrebbe che fosse, ma da chi lo rappresenta o vorrebbe rappresentarlo. In questo, noi italiani, abbiamo fatto scuola.

domenica 6 novembre 2016

Laici e cattolici: resa incondizionata all'Islam


Gli intellettuali dovrebbero essere come le donne pudiche e timorate di Dio, non dovrebbero fare certi favori. Ma gli intellettuali i favori li fanno; e sono favori che in genere puzzano.
Di che sa il corsivo pubblicato da Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” di lunedì, 31 ottobre, dal titolo “Dobbiamo incoraggiare i dibattiti aspri ma aperti che fanno bene all’Islam”? Sembra un intervento richiesto. Dietro Galli della Loggia e la sua sortita potrebbe esserci la direzione del «Corriere della Sera» e dietro ancora quella dell’«Osservatore Romano», il quotidiano della Santa Sede. Questo, da qualche tempo, pubblica articoli di un certo Zouhir Louassini, un giornalista marocchino, di fede musulmana, da tempo residente in Italia. La presenza anomala di un musulmano sul giornale cattolico per eccellenza e per istituzione ha un ruolo fondamentale nella visione francescana di papa Bergoglio, quello di coltivare l’incontro tra diversi. Peccato che non ci sia ancora il contrario: un giornalista cattolico di casa in un quotidiano islamico.
Per Galli della Loggia Louassini è «un valente giornalista». Costui, in un suo articolo apparso sull’«Osservatore Romano» di sabato 29 ottobre, riporta alcuni episodi di aperture islamiche: lo sceicco al Tayyb dell’università cairota al-Azhar avrebbe detto in un’intervista che il Cristianesimo «è una religione di amore e di pace»; un video in cui c’è un siriano convertito al cristianesimo mentre riceve il battesimo, circolato in rete, è stato commentato da una marea di spettatori con toni aspri ma anche con comprensione; un giornale on-line marocchino ha aperto un dibattito sul fenomeno della conversione con commenti aspri ma anche comprensivi. Questi tre episodi hanno fatto prendere carta e penna – si fa per dire – a Galli della Loggia per gridare all’Eureka: «nel mondo arabo-islamico mutamenti importanti sembrano delinearsi». Francamente si resta perplessi, soprattutto in considerazione di un così grande autore a fronte di un così piccolo fatto. Come può prendere lucciole per lanterne?
Si dà il caso che quel Louassini io l’ho conosciuto l’anno scorso a Otranto, ai seminari per la formazione dei giornalisti, svoltisi nel Castello Aragonese dall’8 all’11 settembre 2015, organizzati dall’Ordine dei Giornalisti. Venerdì, 11, il tema era «Mass Media e l’Islam: giornalisti a confronto», relatori Giovanni Maria Vian (direttore «Osservatore Romano»), Amedeo Ricucci, Alfredo Macchi, Michele Sasso e Zouhir Louassini. Era presente anche il vicepresidente della commissione disciplinare dell’Ordine dei Giornalisti Elio Donno. Quando toccò ai partecipanti di prendere la parola, rifacendomi a quanto aveva detto nel suo intervento Ricucci che non bisogna cedere al mercato della paura, osservai che non bisognava neppure cedere al festival delle banalità, in quanto il Louassini aveva banalizzato le orrende morti di alcuni prigionieri dell’Isis facendo satira con un video sui tagliagole e aveva detto che molte informazioni su di essi erano false, come a mettere in dubbio che quelle uccisioni fossero mai accadute, allo scopo evidente di accreditare un Islam buono. Fui letteralmente aggredito con violenza verbale inaudita dal Louassini, che mi disse che ero stato mandato apposta a fare il provocatore e che ero sicuramente un amico di Magdi Allam. Mancò poco che non tirasse fuori la scimitarra e facesse l’801° martire di Otranto, tanto era furioso. La mia replica fu interrotta dal moderatore per invitare tutti a trasferirci in un’altra sala del Castello per assistere ad una cerimonia. La questione si chiuse lì. 
Una mia raccomandata di protesta all’Ordine non ha mai avuto una risposta. Ora, a distanza da più di un anno, torna il Louassini sponsorizzato addirittura da Ernesto Galli della Loggia. Il che significa che in Italia c’è uno sciagurato disegno: l’invasione di popolazioni straniere in gran parte di fede musulmana. Il fenomeno è considerato non solo e non tanto inevitabile, a causa della nostra esposizione geografica, ma anche positivo. Prima o poi lo si farà passare come provvidenziale. E’ il tipico modo di pensare e di fare di chi, non volendo mostrare la sua pusillanimità, dice che accetta e gradisce quello che gli viene imposto e che lui subisce. 
Neppure nella circostanza da me riferita, che mi vide purtroppo protagonista di un’autentica e gratuita aggressione verbale, nessuno dei presenti – ed era piena la sala – seppe dire niente. Come nessuno si sentì offeso dall’indecente proiezione di una scena in cui un tagliagola dell’Isis faceva della satira con un ostaggio, facendo solo finta di tagliargli la gola. Che un simile affronto accadesse proprio a Otranto, dove ben ottocento cristiani furono martirizzati nel 1480 dai turchi, non fu ritenuto motivo sufficiente per una protesta. Siamo ormai come narcotizzati, incapaci perfino di pensare ad una ribellione contro uno degli scempi più gravi che l’Europa, il mondo cristiano, sta subendo. Verrebbe di pensare ad una sorta di nemesi storica; di un contrappasso storico dopo le imprese, ahimè non sempre edificanti, degli europei fino alla metà del Novecento. Essi per un verso sono sadicamente inclini ad accettare la punizione. I nostri padri hanno fatto quello che hanno fatto ad africani e ad asiatici, ora è giusto che questi lo facciano a noi. Altri, intontiti dalle ideologie umanitarie e neoilluministiche in salsa bergogliana, neppure si rendono conto di assistere al loro annientamento.

Invece di allarmarsi per certe operazioni di connivenza, come quella del direttore dell’«Osservatore Romano» che ospita sul suo giornale un musulmano finto buono, Ernesto Galli della Loggia gli fa da sponda e conclude il suo corsivo rispondendo a Louassini, che lamentava che il dibattito tra islamici non interessa ai media occidentali, «Ecco una risposta: come si vede a questo giornale interessa». Questo giornale è il «Corriere della Sera», il che convince ancora di più che il suo intervento è frutto di una committenza «Osservatore-Corriere». Un’accoppiata che la dice lunga su certe alleanze ai danni dell’Europa cristiana e dell’Italia, porta spalancata ormai di ogni minaccia.
E l'Ordine dei Giornalisti? Non ha nulla da dire sull'aggressione subita da un suo iscritto, purtroppo non sponsorizzato.          

domenica 30 ottobre 2016

Renzi e l'incredibile Italia dei furbi e dei fessi


Renzi finirà per cuocersi nel suo brodo. Lo sta così allungando che alla fine resterà a galla lesso. Ce ne sono stati altri, peggio e meglio di lui che hanno fatto quella fine. Ce ne sono altri con lui.
Non parla che per slogan, per frasi fatte, per giochi di parole, per bugie neppure tanto imbellettate. I suoi sostenitori, a furia di ripetere le stesse cose, hanno il volto catatonico. Guardate la Boschi! Solo qualche mese fa era bellissima, la più amata dagli italiani; oggi sembra una statua di cartapesta, inespressiva, statica, catatonica appunto!
Parafrasando Plinio il Giovane, che disse “sono tanto abituato a dire la verità, quanto voi ad ascoltarla”, Renzi dà l’idea di uno che è tanto abituato a dire bugie quanto gli altri ad ascoltarle.
Un po’ non ha torto e per questo non tradisce il benché minimo disagio morale; sa che il mercato politico domanda bugie e lui bugie offre. Basta fare mente locale su tante persone che, pur giudicando negativamente la riforma, votano Sì. Per dare un messaggio di cambiamento, dicono. Ma quale cambiamento? Quello di mettere fuoco alla casa che brucia? Via! E’ frustrante sentire persone di indiscutibile valore appiattirsi sulle baggianate di un furbetto impunito. Non si tratta di gentucola, si tratta di personaggi come il filosofo Massimo Cacciari e l’architetto Massimiliano Fuksas, quello della Nuvola.
Questa è l’Italia! Dei furbi e dei fessi; dei furbi sempre più furbi, dei fessi sempre più fessi. E se quelli che per natura e cultura fessi non sono ma si comportano come tali, i fessi-fessi che devono fare?
Come non dare ragione a Renzi, allora, anche quando si compiace delle performance burlesche? Dalla sceneggiata americana con Obama alla copertina della rivista musicale “Rolling Stones”, in atteggiamento papale, attraverso tutte le reti televisive, non fa che propaganda, continua, pervasiva, asfissiante. Perfino le disgrazie naturali, come i terremoti nel centro Italia, sembrano andare in suo soccorso; e lui le accoglie come manna dal cielo. Salta da un paese terremotato all’altro a portare la presenza del governo, ovvero la sua.
Anche quando si confronta per il voto referendario, con chiunque parli, non deflette: spara minchiate senza ritegno. Sa che dietro di sé ha la grande caterva di idioti che ripetono come pappagalli il mantra della riforma: non riduce la democrazia ma la burocrazia, si taglia il costo della politica, si risparmiano cinquecento milioni di euro, si abbatte il sistema bicamerale paritario, si snellisce la procedura delle leggi, altri non sono riusciti mai a farla la riforma e noi invece l’abbiamo fatta, e via di questo passo, senza mai entrare nel merito della questione. A De Mita è giunto a dire che non ha il diritto di impedire finalmente la riforma di un’Italia che i tipi come lui hanno portato alla rovina. Ha detto proprio così: non avete il diritto!
I grillini, che sul piano delle sparate grosse non scherzano, hanno detto: vogliamo ridurre davvero i costi della politica? Dimezziamo gli stipendi dei parlamentari! La risposta? …per rispondere, dovrei scomodare un organo di letto e di diletto. Dico che non s’è fatto niente alla Camera, perché su certe cose si può fare anche propaganda ma fino a quando non diventano serie. In Italia basterebbe non rubare e poi si potrebbero pure strapagare i politici, perché la politica, come sa chi la fa seriamente, ha i suoi costi.
Certo, non si può fare politica seria da pellegrini o da turisti, come purtroppo se ne vedono tanti in giro tra i palazzi romani, che sembrano sempre come appena scesi dal pullman e si si apprestano a visitare la città. Allora a quelli non si tratta di dimezzare gli stipendi, ma di mandarli a casa e stare bene attenti alle elezioni prossime a non sceglierne di simili.
Ora, io non dico che nella riforma renziana della Costituzione non ci siano aspetti condivisibili – ci sono! – dico che non vengono spiegati razionalmente. Dico che i sostenitori del Sì si rifiutano di dare risposte ragionate alle obiezioni dei sostenitori del No. Per quale ragione se non perché neppure loro hanno le idee chiare o ce l’hanno fino al punto da non dirle perché sarebbe controproducente? 
Con mezza bocca dicono che quale che sia la risposta referendaria non accadrà nessuna catastrofe; e con l’altra mezza sparano biblici disastri. Dire che se non passa il Sì l’Italia non avrà più riforme, è una grandissima stronzata, che offende chi ha un minimo di intelligenza. Perfino un bambino delle materne impara e sa che dopo il lunedì viene il martedì; c’è sempre un giorno dopo, che è come dire che la storia continua. Con Renzi e senza Renzi, si capisce!
L’apparizione in video di questo onnipresente non scandalizza più nessuno. Ai tempi di Berlusconi, al Cavaliere contavano i minuti secondi di televisione Oggi neppure si accorgono che cambiando canale nel giro di pochi minuti si ritrovano sempre con la faccia del furbetto fiorentino a pontificare su tutto. Sembra che parli sempre a rete unificate. Se mancava un riscontro di quanto gli italiani siano per il consenso a chi comanda, eccone la prova.

Per stare sempre sui media si è perfino inventato la “lotta continua” con l’Europa e con gli europei. Non c’è giorno che non spari a zero sulla Commissione europea o su qualche leader di altra nazione, ora per i migranti ora per la flessibilità. E per tenere dalla sua parte la pancia del paese assume toni da nazionalista. Provoca frizione all’esterno per tenere buono l’interno. Un vecchio trucco della politica. Renzi probabilmente sa poco o nulla di storia, ma è un politico d’istinto e riesce anche a dare l’impressione di sapere. Non piace ai giovani, perché essi vedono in lui un culorotto, come si dice in gergo salentino culiruttu per indicare uno che ha fortuna sfacciata, uno che ha approfittato di un concorso di circostanze positive per emergere in maniera eccessiva. Piace agli anziani, i quali vedono in lui ciò che ognuno avrebbe voluto essere in gioventù, senza riuscirvi. Frustra le speranze di chi le ha; ravviva la nostalgia di chi non ha più niente in cui sperare. Il suo obiettivo è esserci: sempre, finché popolo non lo separi!    

domenica 23 ottobre 2016

Bob Dylan, il Nobel e i cavoli a merenda


Dopo l’assegnazione del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan non si può dire più che i cavoli a merenda non c’entrino. A merenda c’entra proprio tutto, cime di rape e peperoncini piccanti. Infatti mi chiedo: che cos’è la merenda? Chi può dire in che cosa essa consista? Su, fatevi sotto, bacchettoni della conservazione! Dite: che cos’è la merenda?
Come era prevedibile, il Nobel a Dylan ha partorito molti soccorritori del vincitore; in questo caso più che Dylan, l’Accademia Svedese che glielo ha assegnato. Attitudine, a quanto pare – quella di andare in soccorso dei vincitori – non solo italiana; con buona pace di Flaiano. Perfino scrittori e letterati, oltre che critici e professori di letteratura, in fregola di modernismi e giustificazionismi, si sono interrogati su come definire la letteratura. Dopo millenni c’è ancora chi non sa che cosa sia; pronto a dire che potrebbe essere anche culinaria, pasticceria, macelleria, camiceria, stireria ed altre concerie e sconcerie.
La letteratura è scrittura. Punto! Letteratura viene da leggere e si legge solo ciò che è scritto; scritto per essere letto. Si può usare anche il verbo leggere in senso metaforico; ma questo è un altro discorso. E dunque, la letteratura riguarda romanzi, racconti, fiabe, commedie, tragedie, farse, poesie, memorie, diari. La letteratura è stata sempre questo, tante cose ma sempre scrittura.
A rigore, neppure la poesia è letteratura; anzi, a definirla tale le si produce una deminutio. Perché poesia è ciò che prescinde dal dato materiale e porta ad una sfera emotiva, lirica. Croce parlava di poesia pura. E’ poesia L’infinito e non è poesia La ginestra, per stare al Leopardi. E’ poetico perfino un gesto, se in esso si coglie ciò che va oltre la sua fisicità. Ma, in quanto scrittura, ovvero messa in ordine una serie di parole, la poesia è letteratura; e perciò va bene che uno scrittore di poesie abbia il Nobel per la letteratura. 
Si vuole introdurre una novità a Stoccolma? Bene, si aggiunga arte a letteratura e si dica Nobel per la Letteratura e l’Arte. Che male ci sarebbe? Si eviterebbe alla povera letteratura di subire lesioni o invasioni di campo.
Si potrebbe dare il Nobel anche ad un pittore, ad uno scultore, ad un compositore musicale, a chiunque abbia a che fare, oltre che con la letteratura, con l’arte. Si potrebbe assegnare il premio ad un letterato e ad un artista insieme, come accade spesso per il Nobel per l’Economia, per la Pace o per altra disciplina per lo più scientifica. Insomma, si potrebbe trovare una soluzione senza creare tante perplessità.
Trovo mortificante che persone intelligenti e capaci, pur di non dispiacere all’aura politica che le circonda, facciano contorsionismi mentali per dare legittimità a ciò che non ha niente di legittimo. Onore, di converso, a chi ha detto, papale-papale, che a Stoccolma, conferendo il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan, hanno compiuto una enormità.
Si dice che ci sono canzonettisti che sono autentici poeti; in Italia, per esempio, Fabrizio De Andrè. Ho letto su un’antologia scolastica degli anni Settanta, ad impostazione tematica, alcuni suoi testi fra cui La guerra di Piero. Bellissima canzone, se ascoltata con canto e musica; ma, a leggerla, è roba da dilettanti allo sbaraglio: rime forzate, assonanze, versi diseguali, senza ritmo. Molti cantautori italiani dicono che la lingua italiana si presti poco ad essere musicata e cantata perché abbonda di parole piane, poco musicabili. Di qui l’utilizzo di parle ed espressioni al limite del nonsense. Con la lingua inglese va meglio. Così dicono gli addetti ai lavori, perché ha parole corte e tronche. Le parole scritte per essere musicate, in qualunque lingua, possono avere anche del poetico, ma non sono letteratura; esse sono pensate per altro, senza quell'altro non hanno senso. 
Quel che va detto sul Premio Nobel per la Letteratura e – se vogliamo – per la Pace è che l’Accademia Svedese si riserva ogni anno uno spazio politico, che a questo punto sarebbe più pertinente all’Onu. L’Accademia svedese esercita così un potere che deborda dalle sue iniziali intenzioni, benché per scopi nobilissimi.
Ma l’Accademia svedese mette i soldi della baracca e fa quel che vuole. E’ il suo modo di affacciarsi ogni anno sullo scenario politico del mondo con un suo messaggio forte. Non si spiegano diversamente certe assegnazioni e ancor meno certe esclusioni.
Se volessimo dirla tutta, relativamente alla Letteratura, sono di più i meritevoli di Nobel che il Nobel non hanno avuto di quelli che lo hanno avuto. Moltissimi se lo sono meritato, ma molti lo hanno avuto per ragioni politiche. Tra gli esclusi ce ne sono alcuni che gridano vendetta: si pensi ad Ungaretti, a Borges, a Pound. Mostri, questi, di grandezza poetica e letteraria in senso più vasto.

Quando nel 1997 il Nobel fu assegnato a Dario Fo, scoppiarono polemiche. A mio avviso Fo il Premio se l’era meritato, anche se – a dire il vero – fu una sorpresa per tutti. Nel mondo c’erano fior di scrittori e di poeti che il Nobel lo meritavano assai più di lui. Ed altri scrittori di teatro – pensiamo a Eduardo – che pur grandi e grandissimi il premio non lo avevano avuto. E comunque l’assegnazione rimaneva nel pertinente perché Dario Fo era uno scrittore di teatro, oltre che attore e regista. Perché proprio a lui? Ovvio: per ragioni politiche. Fo era un comunista e tale è rimasto fino alla morte ed oltre se il figlio Jacopo ha salutato i partecipanti al di lui funerale cantando Bella ciao e salutando col pugno chiuso. Con tanto di marameo del defunto Nobel per la letteratura. Pardon, per la messa in scena!
Dylan, a quanto pare, il Nobel per la letteratura non lo vuole; sa che non gli compete. E, se lo sa lui...

domenica 16 ottobre 2016

Dario Fo: fine di un giullare


E’ morto, ma sembrava che scherzasse. Ricoverato da una decina di giorni per una crisi cardiorespiratoria, si è spento giovedì, 13 ottobre. Un giorno o due prima del ricovero si era esibito in un lungo monologo di tre ore. Soffriva, ma recitava. Aveva novant’anni, ma saltellava sul palcoscenico come un saltimbanco.
Dario Fo se n’è andato così, tra mille polemiche. A sollevarle il figlio Jacopo, che ha scambiato un umanissimo tributo ad un grande talento del palcoscenico, un artista geniale, con un ipocrita consenso verso il padre, che, in vita, ne aveva fatte di cotte e di crude e si era creato numerosissimi nemici ed altrettanti amici.
Ora tutti lo osannate, ipocriti, quando prima lo avete perseguitato e condannato. Più o meno si è espresso così. Probabilmente Jacopo ha preso dalla madre Franca Rame. Dario l’avrebbe messa sul ridere, perché lui le cose del mondo sapeva perfettamente come vanno.
Dario Fo la sua vita da irregolare la iniziò nel 1943 aderendo alla Repubblica Sociale Italiana (Salò). Aveva 17 anni; ma dopo lui non ci stava a passare per un fascista, alleato dei nazisti. Se ne parlò negli anni Settanta di questa cosa, sotto l’incalzare della contestazione studentesca, il Sessantotto e il terrorismo. Poi tentò di spiegare il suo essere stato repubblichino: coprire il padre partigiano, salvare la pelle e cose del genere. Tutte comprensibilissime, intendiamoci, ma con certi vestiti non si va alla prima comunione.
Il suo problema, che è di tutti gli uomini di spettacolo, fu la platea. Senza pubblico non esiste l’attore, come non esiste la luce senza il buio. Era intelligente e capì che il suo pubblico non poteva essere che quello popolare, di sinistra, comunista, antifascista soprattutto. Dalla fine della seconda guerra mondiale alla caduta del Muro di Berlino, e oltre, il vento non è mai cambiato. Strada facendo si è modificato, come quei virus che resistono proprio perché si trasformano.
Dopo aver predicato il comunismo senza neppure chiedersi quanta libertà abbiano mai concesso i regimi che al comunismo si ispiravano, Fo si era convertito ai diritti civili, senza accorgersi della profonda contraddizione. Ma chi se ne fotte – avrà pensato Dario – quel che conta è il pubblico; e il pubblico mi applaude. Quel che conta è il successo; e senza quelle idee non se ne fa. Addosso ai re, ai papi, ai ricchi e ai potenti: sono così fessi che ridono pure!
Non ci voleva molto ad accorgersene. Onori e riconoscimenti per tutta la seconda metà del Novecento sono andati ai soliti comunisti, attentamente travestiti da asceti e mistici della libertà. Del resto, a 17 anni, quando aderì a Salò, in una situazione che in molti casi non lasciava libertà di scelta, non aveva ancora maturato nessun interesse di vita; e si era formato durante il regime tra, marce, guerre, bandiere e mistica fascista. Qualcuno ha perfino detto – Mattia Feltri su “La Stampa” del 14 ottobre – che “a guardar bene la vita politica del Nobel ha seguito una linea di coerenza espressa attraverso un ribellismo giovanile simile a quello adulto e senile”. Ma lasciamo stare. Il carattere è una cosa, la coscienza politica e civile un’altra! 
Il pubblico, il successo, i soldi sono l’ossessione dei teatranti. Essi costituiscono una razza a sé. A volte trasformano le loro stesse esperienze di vita in spettacolo. Franca Rame, violentata da alcuni neofascisti – così dicono e così dico – strumentalizzò la traumatica e orrenda esperienza ricavandone una pièce teatrale, che a vederla c’era da contorcersi non dalle risa ma dal mal di stomaco; uno spettacolo che nascondeva la gravità del fatto con lo sconcerto della sua rappresentazione.
Gli attori, i cantanti e tutti gli uomini di spettacolo seguono i gusti del pubblico; e di chi se no? Dicono tutti la stessa cosa e tutti per lo stesso motivo. Unipensiero, unipensanti. E’ una questione di mercato, dell’odiato mercato. Una cosa è ciò che pensano nell’intimo e un’altra è ciò che conviene dire e fare. Sì, ci sono pure i tipi alla Albertazzi, che non rinnegò mai il suo essere stato un combattente della Repubblica di Salò. Ma non si può pretendere che una rondine faccia davvero primavera.
Dario Fo è stato un uomo di talenti, geniale. Non v’è dubbio. Di originale, però, non ha detto niente. Bravo, bravissimo come attore; bravo, bravissimo come pittore. Ha affondato le mani nella tradizione medievale italiana. Da quel guitto naturale che era parlava col corpo, con la mimica. Il suo grammelot non era altro che una miscela di rumori vocali e di gestualità. Ha semplicemente trasformato cose altrui, dando loro significati ispirati e richiesti dall’attualità, in una direzione che alimentava il pubblico e il successo.
Bella scoperta, potrebbe dire qualcuno: quale attore va di proposito a farsi fischiare? Quando cercò di forzare quel pubblico, di allargarsi, fu stoppato. La Rai lo cacciò in seguito a certo suo uso politico che ne voleva fare, a prescindere se quello che diceva era sostenibile o meno.
Ma anche qui: dove sta l’osceno? Tu non puoi servirti di un mezzo pubblico, come la televisione, per far passare messaggi che sono rivolti ad un pubblico che non è venuto a vederti e a sentirti di proposito pagando il biglietto, ma se ne sta in casa sua, ha pagato il canone ed ha il diritto sacrosanto di non essere insultato. La differenza tra un teatro, una piazza e la televisione, specialmente ai tempi di quando c’era un solo canale televisivo, è che mentre al teatro uno va di proposito, in piazza si ferma se è interessato, la televisione viene a trovarti in casa coi suoi portati di informazione e coi suoi spettacoli. C’è una bella differenza, che non può essere trascurata o misconosciuta.
La sua assegnazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1997, a prescindere se lo meritava o meno – per me lo meritava – fu dovuto non tanto all’uomo di spettacolo quanto alla solita ragione politica. Andava premiato un uomo di sinistra, schierato su posizioni ideologiche che avrebbero fatto parlare e discutere all’infinito. Come all’infinito fa discutere l’assegnazione dello stesso premio, diciannove anni dopo, ad un cantante pop, a Bob Dylan. Perché, in fondo, anche l'Accademia di Stoccolma cerca una platea che discuta e rumoreggi sul nulla.
La sua adesione al movimento di Beppe Grillo? Un po’ per amicizia, un po’ per colleganza e tanto per pubblico garantito.  

domenica 9 ottobre 2016

Papa Ratzinger si racconta


Joseph Ratzinger va verso i novant’anni; ha avuto un ictus e non vede dall’occhio sinistro; ha una grafia minuta e da sempre scrive a matita, stenografando. I suoi libri hanno ancora un successo straordinario nel mondo. La trilogia del suo “Gesù” è fondamentale per gli studiosi di cristologia. Più che al culto mariano è legato a Gesù: “La venerazione di Maria mi ha segnato – dice – ma mai disgiunta da quella per Gesù Cristo, bensì al’interno di essa”.
Nel suo ultimo libro-intervista Benedetto XVI. Ultime conversazioni, curato da Peter Seewald, uscito in Germania col titolo Letzte Gespräche nel 2016 per la Droemer Verlag e in Italia per la Garzanti, ma distribuito anche dal “Corriere della Sera”, egli si racconta in lungo e in largo, apparentemente in libertà, ma sempre molto abbottonato e protetto dal suo tratto agostiniano. Spesso, alle domande dell’intervistatore, ride divertito e compiaciuto.
“Agostino – dice – lotta con sé stesso, anche dopo la conversione, ed è questo che rende la sua esperienza tanto bella e drammatica”. E’ la sua stessa condizione, nella quale è maturata la sua decisione di lasciare il soglio pontificio; ma anche quella del dopo.
Una decisione spontanea – assicura – senza nessuna pressione esterna, “perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione”; “Alle richieste non ci si deve piegare, naturalmente. E’ per questo che nel mio discorso ho sottolineato che io agivo liberamente”; “Sono convinto che non si sia trattato di una fuga, e sicuramente non di una rinuncia dovuta a pressioni esterne, che non esistevano”. Parole sue! Ma questo riguarda il suo percorso di fede.
Nella storia il discorso è diverso. Ratzinger lascia per motivi di salute: “Anche il medico mi disse che non avrei dovuto attraversare l’Atlantico. […] Per me era chiaro che avrei dovuto dimettermi in tempo perché il nuovo papa andasse a Rio [per la Giornata Mondiale della Gioventù]”. Esclude che abbia mai costituito un problema per la Chiesa: “che io fossi, per così dire, il problema della Chiesa non lo ritenevo allora né lo ritengo oggi”.
La sua è una scelta che viene da lontano. “Fede e ragione – dice – sono i valori in cui ho riconosciuto la mia missione e per le quali la durata del pontificato non era importante”. Esclude addirittura che potesse essere dissuaso dal dimettersi: “dentro di me ero certo di doverlo fare, e quando è così, uno non lo si può dissuadere”.
Non sempre è convincente. Non convince, per esempio, l’entrare e uscire dalla dimensione spirituale, il voler conciliare l’opportunità di lasciare per motivi di salute con motivazioni di fede, il suo scendere dalla croce dimettendosi e il suo diversamente restare, il funzionalismo della carica col mandato divino attraverso lo Spirito Santo. Non convince quando afferma che lui si è dimesso in un momento tranquillo della chiesa: “uno non può dimettersi quando le cose non sono a posto, ma può farlo solo quando tutto è tranquillo”. La cronaca del suo tempo lo smentisce. Soprattutto non convince sull’astio dei tedeschi nei suoi confronti: “In Germania […] alcune persone cercano da sempre di distruggermi”. A Berlino, nel settembre del 2010, fu accolto male. 
Quando non convince, tuttavia, lo mette in conto. “In questo mondo – dice – il messaggio di Cristo è uno scandalo iniziato con Cristo stesso. Ci sarà sempre contraddizione, e il papa sarà sempre segno di contraddizione. E’ una sua caratteristica distintiva, ma ciò non significa che deve morire sotto la mannaia”. 
Convince certamente quando parla distante dalla sua esperienza. “La Chiesa è in movimento – afferma – è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi”. E dunque è stato un bene il cambio con l’arrivo di Bergoglio, che ha portato “una nuova freschezza in seno alla Chiesa, una nuova allegria, un nuovo carisma che si rivolge agli uomini”.
Su uno degli aspetti più controversi della Chiesa, centralismo romano e localismi, pur approvando “che le Chiese locali siano il più possibile autonome e vitali, senza bisogno di assistenza da parte di Roma”, ribadisce che “è importante anche che [esse] restino aperte le une verso le altre e anche verso il ministero petrino, perché altrimenti è facile che prevalga l’elemento politico, nazionale, e si crei un impoverimento culturale” e che “non è possibile fare a meno del ministero petrino e del ministero dell’unità”. 
Nel suo lungo percorso di docente è importante e significativo il suo esordio, che non fu affatto facile. Su di lui si incentrarono non pochi sospetti, addirittura di eresia. Accadde quando, in seguito alla sua esperienza di cappellano a Bogenhausen, pubblicò nel 1958 l’articolo “I nuovi pagani e la Chiesa” e quando sostenne a Frisinga l’esame di abilitazione alla libera docenza. Fu per lui un’autentica umiliazione, lo superò non senza contrasti; ebbe la sensazione di trovarsi “sull’orlo di un baratro”. E tuttavia quell’esperienza la visse come una prova di vita importante. “Credo che per un giovane sia pericoloso bruciare una tappa dietro l’altra ricevendo sempre e solo elogi”. Aveva ottenuto il dottorato, ora l’abilitazione. Tutto molto in fretta. “Era giusto – dice – che subissi quell’umiliazione”. Ma anche dopo non gli fu facile l’avvio accademico e spesso entrò in conflitto coi suoi colleghi in teologia. Insomma, letti con un minimo di dietrologia, contrasti e difficoltà hanno un significato diverso e forse mettono in una luce diversa le sue dimissioni da papa.
Personaggio amletico o, come lui ama dirsi, agostiniano, Ratzinger è incerto, dubbioso; ricorda il nostro Petrarca del Secretum, agostiniano pure lui. Che fosse incerto lo dimostra perfino nell’uso della matita anziché della penna: “Scrivevo così da ragazzo e mi è rimasta l’abitudine. La matita ha il vantaggio che si può cancellare. Quando scrivo con l’inchiostro, ciò che è scritto è scritto”.
Ma, nonostante le difficoltà e le incomprensioni, la carriera di accademico di Ratzinger passa di successo in successo, Bonn, Münster, Tubinga, Ratisbona; poi la carriera religiosa con la nomina di vescovo a Monaco.
La sua affermazione più importante e decisiva fu quando chiamato dal Cardinale Josef Frings, prima scrisse nel 1961 per suo conto la relazione di Genova, “Il Concilio e il pensiero moderno”, con la quale si dava l’imput al Concilio e per la quale Giovanni XXIII si congratulò, e poi teologo ufficiale del Concilio Vaticano II.  Nel 1977 fu nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da Paolo VI; poi cardinale e infine Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio) a Roma, nominato da Giovanni Paolo II. Il 19 aprile del 2005 fu eletto papa col nome di Benedetto XVI.
Il 28 febbraio del 2013 si chiude, con le sue dimissioni, il cerchio della sua straordinaria carriera, iniziata nelle difficoltà e nelle incomprensioni e finita in altrettante difficoltà e incomprensioni.

E’ un libro, questo, che non aggiunge granché al già conosciuto di questo controverso papa, ma, avendone data egli stesso l’autorizzazione a pubblicarlo, costituisce un documento essenziale per gli studiosi e gli storici. 

domenica 2 ottobre 2016

Nessuno dice che Renzi le ha buscate


Chi ha seguito per circa tre ore la maratona del confronto televisivo Renzi-Zagrebelsky su “La Sette”, la sera di venerdì, 30 settembre, sulla riforma costituzionale, su cui il popolo italiano il 4 dicembre si dovrà pronunciare in referendum, ha avuto la possibilità di rendersi conto senza ombra di dubbio di come effettivamente stanno le cose. Condotto da Enrico Mentana, che si rivela sempre meno adeguato a simili dibattiti, il confronto si è risolto in una sonora sconfitta per il fronte del SI e in un ko personale tremendo per Renzi. Il quale ha fatto la fine di Icaro, avvicinandosi troppo al sole della cultura giuridica è precipitato con le penne liquefatte. Ai serrati, puntuali ragionamenti del Professore, ex presidente della Corte Costituzionale, Renzi dapprincipio ha opposto slogan su argomenti diversi da quelli esposti dal suo interlocutore, come a voler cambiare discorso, e poi via via ha offerto uno spettacolo da ragazzo svogliato che non vuole seguire le lezioni: irritazione, impazienza, stanchezza, sguardi rivolti altrove, smorfie, gesti defatiganti. Mentana è stato perfino scorretto nel far iniziare il confronto da Renzi e nel farglielo concludere; ma è stato inutile.
Zagrebelsky, contrario alla riforma renziana, sostiene il ed convinto che dopo si potrà fare una riforma migliore. Colto e sicuro di sé, egli non ha avuto nessuna difficoltà ad ammettere che qualche cosa buona nel progetto renziano c’è; per esempio, il ridimensionamento delle competenze delle regioni, che in tutti questi anni hanno speso male fiumi di soldi, non sono state capaci per difetto di progettualità di spendere fondi europei, perdendoli in favore di altri Paesi, ed hanno impedito la realizzazione di opere importanti con le loro lungaggini e i loro veti. Per dire, che quando si fa un confronto serio si può riconoscere all’avversario anche le sue ragioni, senza per questo tradire la propria causa.
Sui grandi problemi posti dalla riforma il buio di chi l’ha fatta e voluta è totale. Renzi non ha voluto rispondere su alcune fondamentali obiezioni di carattere tecnico. La sua risposta è stata sempre elusiva, sommaria, generica, infastidito dall’invito del professore di guardare alla riforma nella sua essenza e nella sua collocazione nel tempo invece di vederla nell’immediato.
Che cosa potrebbe accadere con questa riforma, che si lega indissolubilmente alla legge elettorale dell’”Italicum” – gli ha chiesto Zagrebelsky – se, invece di Renzi, capo del governo diventa una persona meno sensibile alla democrazia? Dall’altra parte risposte di una pochezza intellettuale preoccupante: noi l’abbiamo fatta, gli altri in trent’anni non sono riusciti; non c’è un solo articolo che modifichi le prerogative del capo di governo; è del tutto inventata la preoccupazione di una deriva autoritaria e via di questo passo. E hai voglia a fargli capire che c’è una questione di cultura politica sul modo di intendere la democrazia! Renzi si è rivelato del tutto incapace di tenersi in piedi su un terreno diverso da quello del suo quotidiano.
E ancora: come può un Senato composto da sindaci e consiglieri regionali, con tutto il carico di lavoro che questo comporta per loro, svolgere una mole enorme di compiti che la riforma gli attribuisce? Zagrebelsky ha cercato di fargli capire che non è materialmente possibile. Renzi ha risposto senza “rispondere”: ma se funziona in Francia e in Germania, perché non può funzionare da noi? Controreplica di Zagrebelsky: perché in quei Paesi le cose stanno diversamente. E Renzi? Imperterrito a dire che, siccome in Francia e in Germania funziona, funzionerà anche da noi. Come diceva Totò: a prescindere.
Non c’è stato nessun vero confronto sugli articoli 57, 70 e 117, che sono tra i più dibattuti, perché, benché pressato da Zagrebelsky con puntuali e serrati ragionamenti, Renzi ha fatto come Ettore inseguito da Achille intorno alle mura di Troia: scappava. Ha scantonato, ha tentato più volte i soliti slogan, appena appena frenati dalla consapevolezza di avere di fronte non un altro politico, su cui comodamente rovesciare colpe e incoerenze, ma un professore che sosteneva le ragioni senza avere nessun interesse di parte.
Zagrebelsky ha ribadito due concetti fondamentali. Il primo è che occorre una costituzione che garantisca certe libertà politiche indipendentemente da chi c’è al governo. Le libertà non sono graziose concessioni soggettive, ma garanzie oggettive. Il secondo è che ogni costituzione è come un abito che non può non tenere conto di chi lo indossa. Ha fatto un esempio efficacissimo: l’abito più perfetto indossato da persona con difetti fisici finisce per assumere le forme della persona. Di qui l’importanza di intervenire a sanare i difetti, in questo caso, della società italiana.
E’ apparso, però, con grande evidenza un contrasto che io credo insanabile tra un modo di far politica in maniera spiccia, come vorrebbe Renzi, anche per stare alle esigenze dei tempi e delle situazioni odierne (Europa, globalizzazione, crisi internazionali), e un modo di intendere la politica come continuo confronto, dibattito, lavorìo, nel rispetto di tutte le parti in causa; modo di far politica che, a dire il vero, è lento e oggi confligge con la rapidità dei tempi. Insomma, una riedizione dell’eterno paragone tra la cicala e la formica.
Credo che su questo terreno si giochi non solo la riforma costituzionale ma la politica in genere nella sua dinamicità. Questa riforma, tuttavia, a dire di Zagrebelsky e dei sostenitori del , non velocizza la decisione, ma addirittura la complica, v. art. 70 sui rapporti tra le due camere su alcune questioni di comune competenza. Essa, però, concentra più potere nelle mani del presidente del consiglio. E se pure non c’è un solo articolo che preveda per lui maggiori poteri, per il combinato disposto legge elettorale-riforma costituzionale, possono verificarsi casi in cui piccole maggioranze decidano cose importantissime. Renzi, per esempio, è convinto che con la riforma s’innalza il quorum per eleggere il Presidente della Repubblica; ma Zagrebelsky ha cercato di fargli capire che c’è differenza tra due terzi di componenti e due terzi di presenti. Niente! Renzi o non capisce o fa finta di non capire.

Un’ultima annotazione: i giornali il giorno dopo si son ben guardati dal dire che Renzi le ha prese di santa ragione da Zagrebelsky. E si capisce perché: sono tutti dei leccaculo.    

domenica 25 settembre 2016

Aldo Moro, il perché d'una tragedia


La tragica morte di Aldo Moro, rapito a Roma il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo, ha fatto passare in secondo piano la sua nascita, il 23 settembre 1916, e perfino la sua vita. Quasi che quest’uomo, che tanta parte ebbe nella politica nazionale per circa trent’anni e che tanto fece parlare di sé, non fosse mai “nato”; come se fosse soltanto “morto”. Il 1° centenario della sua nascita acquista perciò una particolare rilevanza, perché gli restituisce intera la sua esistenza, che fu quella di uomo di studio, di politica e di governo. Bene hanno fatto a Maglie, sua città natale, a commemorarlo prevalentemente come giurista. Troppo ancora brucia la sua vicenda politica. Troppi sono ancora gli aspetti oscuri e troppi gli interrogativi. Troppe le ferite non ancora rimarginate.
Ma, quando si parla di lui, fuori da una sede istituzionale, è inevitabile riferirsi al politico, perché il Paese è così che lo ricorda. Non il giorno della sua morte ma il giorno del suo rapimento è una di quelle date che segnano un confine nella vita di ciascuno.
Quel giorno, poco dopo le 10,00, mi accingevo ad andare a scuola, la sede staccata dell’IPF di Taurisano. Avevo appena preso il caffè al bar e messo in moto la mia 126; stavo per uscire dal parcheggio, quando un amico mi fece segno di volermi dire qualcosa. “Hai saputo? – mi disse – a Roma hanno rapito Moro e massacrato i cinque uomini della sua scorta. Lo ha detto poco fa la televisione”. La notizia mi lasciò senza parole, forse non accennai neppure a sorpresa.
In auto non seppi pensare ad altro. Moro era per la mia parte politica, il Msi, un nemico più che un avversario. Leggevo assiduamente “il Borghese”; gli articoli di politica del suo direttore Mario Tedeschi lo avevano preso a bersaglio. Più volte Moro aveva escluso in maniera categorica che mai la Dc avrebbe fatto intese o alleanze con la destra.
In politica ci sono avversari e ci sono nemici. Gli avversari sono quelli che pur avendo posizioni diverse ti riconoscono la legittimità di esistere e di concorrere alla vita politica; e considerano l’alternarsi al potere un fatto del tutto normale. I nemici sono quelli che chiudono nei tuoi confronti qualsiasi ipotesi di legittimità politica e considerano una tua eventuale ascesa al potere come una catastrofe per il Paese, da evitare a tutti i costi. La destra era per Moro un nemico; ma per la destra il nemico era Moro. Teneva sempre a ricordarlo, Moro, a volte in maniera odiosa, essendo stato lui fascista e avendo partecipato più volte ai Littoriali della Cultura per assurgere ai vertici dell’intellighenzia del regime. E tuttavia l’evento in sé del suo rapimento era troppo sconvolgente per lasciarmi indifferente. Ogni ragionamento politico a quel punto venne meno. Troppi erano gli aspetti drammatici del Paese.
Quando arrivai a scuola, già lo sapevano tutti. Dalla centrale di Nardò era arrivata per telefono una circolare con l’ordine di sospendere le lezioni e di parlare dell’accaduto. Il tempo per prendere pochi appunti e per tracciare un breve profilo di Moro alle ragazze riunite nella palestra. Ricordo che ne parlai come se la vittima fosse l’Italia, anche perché nel rapimento era stata massacrata la scorta, ben cinque uomini dello Stato, e fatto oltraggio ad una delle sue massime istituzioni. Nessun giudizio e nessun commento sull’uomo di parte, il quale – dissi – avrebbe avuto sicuramente dalla storia quanto gli spettava. Mi sembrò di averlo massimamente rispettato, pensando a Napoleone Bonaparte, per cui Manzoni nel “Cinque Maggio” aveva affidato ai posteri l’ardua sentenza di dire se era stata “vera gloria” quella del grande corso. Qualche anno dopo il giornalista Italo Pietra intitolò allo stesso modo la sua biografia su Moro. Non so quanto fossi riuscito a fare il professore senza parte in quella circostanza. Una collega mi disse: parli come un politico.
Era ormai da anni che le Brigate Rosse compivano imprese di questo genere, ma mai per colpire così in alto e così spettacolarmente. Gli uomini della Rai, sul posto c’era Paolo Frajese e in studio Bruno Vespa, ne parlarono con la voce rotta dalla commozione, incapaci di osservare e riferire le cose con quella distanza che è tipica di ogni professione esercitata ad un certo livello.
Seguirono 55 giorni, poi il 9 maggio la consegna del cadavere di Moro, lasciato in una R4 rossa nelle vicinanze di Piazza del Gesù e di via delle Botteghe Oscure, le storiche sedi dei due partiti, Dc e Pci, che erano stati i due piloni che Moro avrebbe voluto unire con un ponte, per il bene – diceva – dell’Italia e degli italiani. Se allora non fu il caso a combinare tanti simboli, sicuramente fu un occulto regista.
L’Italia si accorse di essere sul fondo del baratro. Moro non era amato e negli ambienti politici, democristiani compresi, era malvisto. Negli ultimi vent’anni, passo dopo passo, aveva portato il Paese a sinistra, prima coi socialisti; poi con governi di “non sfiducia” e di “solidarietà nazionale” coi comunisti. Operazioni viste con preoccupazione soprattutto all’estero, negli ambienti occidentali, perché si temeva che i comunisti al governo avrebbero potuto alterare i rapporti nella cosiddetta “guerra fredda” tra paesi liberaldemocratici della Nato, di cui l’Italia faceva parte, e quelli comunisti del Patto di Varsavia, egemonizzati dalla Russia sovietica, a cui da sempre il Pci guardava come alla sua stella polare. Il cammino verso sinistra era durato circa vent’anni, dal 1960, ultima esperienza di centrodestra, con Fernando Tambroni, al varo del IV governo Andreotti nel 1978, che Moro, da Presidente della Dc, aveva fortemente voluto.
La manovra politica di quei governi era oggettivamente sospetta: si andava a sinistra per l’abbraccio coi comunisti con un capo del governo, Giulio Andreotti, che era di destra e uomo di fiducia della chiesa. Le destre italiane e occidentali paventavano la “repubblica conciliare” e lo spostamento più a Est del confine. La cosa non piaceva né agli Americani né ai Sovietici per contrapposti ma coincidenti interessi. Gli Americani temevano di perdere le basi in Italia, fondamentali nel rapporto di forza con l’Est comunista, i Sovietici temevano di perdere una pedina importante come il Pci, che poteva smarrirsi nelle more del democratismo capitalista e reazionario. Erano anni di “guerra fredda” e la caduta del Muro di Berlino appariva come un’assurdità.
D’altra parte la marcia italiana a sinistra non aveva portato grandi benefici al Paese. Il boom economico degli anni Sessanta era frutto delle politiche precedenti, degli aiuti americani, del grande esodo e delle rimesse degli emigranti. E a partire dal Sessantotto il Paese à scosso da numerose minacce, politiche e sociali: contestazione studentesca, attentati e formazioni terroristiche di destra e di sinistra, scioperi in continuazione, l’allargamento della base sociale del brigatismo rosso “né con le brigate rosse né con lo stato”. C’era qualcosa che Moro non capiva, che a Moro sfuggiva. C’era che quel mondo, a cui lui guardava nella prospettiva di conquistarlo alla democrazia parlamentare, non ne voleva sapere e si era posto in guerra dichiarata; c’era che alla grande maggioranza degli italiani la sua politica di inclusione dei comunisti non piaceva e meno ancora piaceva all’Occidente liberale e all’Oriente comunista.  

Ecco, in questo suo non capire come effettivamente stavano le cose in Italia e nel mondo è chiuso il fallimento politico del suo progetto e si consuma il suo dramma personale.