domenica 25 settembre 2016

Aldo Moro, il perché d'una tragedia


La tragica morte di Aldo Moro, rapito a Roma il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo, ha fatto passare in secondo piano la sua nascita, il 23 settembre 1916, e perfino la sua vita. Quasi che quest’uomo, che tanta parte ebbe nella politica nazionale per circa trent’anni e che tanto fece parlare di sé, non fosse mai “nato”; come se fosse soltanto “morto”. Il 1° centenario della sua nascita acquista perciò una particolare rilevanza, perché gli restituisce intera la sua esistenza, che fu quella di uomo di studio, di politica e di governo. Bene hanno fatto a Maglie, sua città natale, a commemorarlo prevalentemente come giurista. Troppo ancora brucia la sua vicenda politica. Troppi sono ancora gli aspetti oscuri e troppi gli interrogativi. Troppe le ferite non ancora rimarginate.
Ma, quando si parla di lui, fuori da una sede istituzionale, è inevitabile riferirsi al politico, perché il Paese è così che lo ricorda. Non il giorno della sua morte ma il giorno del suo rapimento è una di quelle date che segnano un confine nella vita di ciascuno.
Quel giorno, poco dopo le 10,00, mi accingevo ad andare a scuola, la sede staccata dell’IPF di Taurisano. Avevo appena preso il caffè al bar e messo in moto la mia 126; stavo per uscire dal parcheggio, quando un amico mi fece segno di volermi dire qualcosa. “Hai saputo? – mi disse – a Roma hanno rapito Moro e massacrato i cinque uomini della sua scorta. Lo ha detto poco fa la televisione”. La notizia mi lasciò senza parole, forse non accennai neppure a sorpresa.
In auto non seppi pensare ad altro. Moro era per la mia parte politica, il Msi, un nemico più che un avversario. Leggevo assiduamente “il Borghese”; gli articoli di politica del suo direttore Mario Tedeschi lo avevano preso a bersaglio. Più volte Moro aveva escluso in maniera categorica che mai la Dc avrebbe fatto intese o alleanze con la destra.
In politica ci sono avversari e ci sono nemici. Gli avversari sono quelli che pur avendo posizioni diverse ti riconoscono la legittimità di esistere e di concorrere alla vita politica; e considerano l’alternarsi al potere un fatto del tutto normale. I nemici sono quelli che chiudono nei tuoi confronti qualsiasi ipotesi di legittimità politica e considerano una tua eventuale ascesa al potere come una catastrofe per il Paese, da evitare a tutti i costi. La destra era per Moro un nemico; ma per la destra il nemico era Moro. Teneva sempre a ricordarlo, Moro, a volte in maniera odiosa, essendo stato lui fascista e avendo partecipato più volte ai Littoriali della Cultura per assurgere ai vertici dell’intellighenzia del regime. E tuttavia l’evento in sé del suo rapimento era troppo sconvolgente per lasciarmi indifferente. Ogni ragionamento politico a quel punto venne meno. Troppi erano gli aspetti drammatici del Paese.
Quando arrivai a scuola, già lo sapevano tutti. Dalla centrale di Nardò era arrivata per telefono una circolare con l’ordine di sospendere le lezioni e di parlare dell’accaduto. Il tempo per prendere pochi appunti e per tracciare un breve profilo di Moro alle ragazze riunite nella palestra. Ricordo che ne parlai come se la vittima fosse l’Italia, anche perché nel rapimento era stata massacrata la scorta, ben cinque uomini dello Stato, e fatto oltraggio ad una delle sue massime istituzioni. Nessun giudizio e nessun commento sull’uomo di parte, il quale – dissi – avrebbe avuto sicuramente dalla storia quanto gli spettava. Mi sembrò di averlo massimamente rispettato, pensando a Napoleone Bonaparte, per cui Manzoni nel “Cinque Maggio” aveva affidato ai posteri l’ardua sentenza di dire se era stata “vera gloria” quella del grande corso. Qualche anno dopo il giornalista Italo Pietra intitolò allo stesso modo la sua biografia su Moro. Non so quanto fossi riuscito a fare il professore senza parte in quella circostanza. Una collega mi disse: parli come un politico.
Era ormai da anni che le Brigate Rosse compivano imprese di questo genere, ma mai per colpire così in alto e così spettacolarmente. Gli uomini della Rai, sul posto c’era Paolo Frajese e in studio Bruno Vespa, ne parlarono con la voce rotta dalla commozione, incapaci di osservare e riferire le cose con quella distanza che è tipica di ogni professione esercitata ad un certo livello.
Seguirono 55 giorni, poi il 9 maggio la consegna del cadavere di Moro, lasciato in una R4 rossa nelle vicinanze di Piazza del Gesù e di via delle Botteghe Oscure, le storiche sedi dei due partiti, Dc e Pci, che erano stati i due piloni che Moro avrebbe voluto unire con un ponte, per il bene – diceva – dell’Italia e degli italiani. Se allora non fu il caso a combinare tanti simboli, sicuramente fu un occulto regista.
L’Italia si accorse di essere sul fondo del baratro. Moro non era amato e negli ambienti politici, democristiani compresi, era malvisto. Negli ultimi vent’anni, passo dopo passo, aveva portato il Paese a sinistra, prima coi socialisti; poi con governi di “non sfiducia” e di “solidarietà nazionale” coi comunisti. Operazioni viste con preoccupazione soprattutto all’estero, negli ambienti occidentali, perché si temeva che i comunisti al governo avrebbero potuto alterare i rapporti nella cosiddetta “guerra fredda” tra paesi liberaldemocratici della Nato, di cui l’Italia faceva parte, e quelli comunisti del Patto di Varsavia, egemonizzati dalla Russia sovietica, a cui da sempre il Pci guardava come alla sua stella polare. Il cammino verso sinistra era durato circa vent’anni, dal 1960, ultima esperienza di centrodestra, con Fernando Tambroni, al varo del IV governo Andreotti nel 1978, che Moro, da Presidente della Dc, aveva fortemente voluto.
La manovra politica di quei governi era oggettivamente sospetta: si andava a sinistra per l’abbraccio coi comunisti con un capo del governo, Giulio Andreotti, che era di destra e uomo di fiducia della chiesa. Le destre italiane e occidentali paventavano la “repubblica conciliare” e lo spostamento più a Est del confine. La cosa non piaceva né agli Americani né ai Sovietici per contrapposti ma coincidenti interessi. Gli Americani temevano di perdere le basi in Italia, fondamentali nel rapporto di forza con l’Est comunista, i Sovietici temevano di perdere una pedina importante come il Pci, che poteva smarrirsi nelle more del democratismo capitalista e reazionario. Erano anni di “guerra fredda” e la caduta del Muro di Berlino appariva come un’assurdità.
D’altra parte la marcia italiana a sinistra non aveva portato grandi benefici al Paese. Il boom economico degli anni Sessanta era frutto delle politiche precedenti, degli aiuti americani, del grande esodo e delle rimesse degli emigranti. E a partire dal Sessantotto il Paese à scosso da numerose minacce, politiche e sociali: contestazione studentesca, attentati e formazioni terroristiche di destra e di sinistra, scioperi in continuazione, l’allargamento della base sociale del brigatismo rosso “né con le brigate rosse né con lo stato”. C’era qualcosa che Moro non capiva, che a Moro sfuggiva. C’era che quel mondo, a cui lui guardava nella prospettiva di conquistarlo alla democrazia parlamentare, non ne voleva sapere e si era posto in guerra dichiarata; c’era che alla grande maggioranza degli italiani la sua politica di inclusione dei comunisti non piaceva e meno ancora piaceva all’Occidente liberale e all’Oriente comunista.  

Ecco, in questo suo non capire come effettivamente stavano le cose in Italia e nel mondo è chiuso il fallimento politico del suo progetto e si consuma il suo dramma personale. 

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