La tragica morte di Aldo Moro,
rapito a Roma il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo, ha fatto
passare in secondo piano la sua nascita, il 23 settembre 1916, e perfino la sua
vita. Quasi che quest’uomo, che tanta parte ebbe nella politica nazionale per
circa trent’anni e che tanto fece parlare di sé, non fosse mai “nato”; come se
fosse soltanto “morto”. Il 1° centenario della sua nascita acquista perciò una
particolare rilevanza, perché gli restituisce intera la sua esistenza, che fu
quella di uomo di studio, di politica e di governo. Bene hanno fatto a Maglie,
sua città natale, a commemorarlo prevalentemente come giurista. Troppo ancora
brucia la sua vicenda politica. Troppi sono ancora gli aspetti oscuri e troppi
gli interrogativi. Troppe le ferite non ancora rimarginate.
Ma, quando si parla di lui, fuori
da una sede istituzionale, è inevitabile riferirsi al politico, perché il Paese
è così che lo ricorda. Non il giorno della sua morte ma il giorno del suo
rapimento è una di quelle date che segnano un confine nella vita di ciascuno.
Quel giorno, poco dopo le 10,00, mi
accingevo ad andare a scuola, la sede staccata dell’IPF di Taurisano. Avevo
appena preso il caffè al bar e messo in moto la mia 126; stavo per uscire dal parcheggio, quando un amico mi fece segno
di volermi dire qualcosa. “Hai saputo? – mi disse – a Roma hanno rapito Moro e massacrato
i cinque uomini della sua scorta. Lo ha detto poco fa la televisione”. La
notizia mi lasciò senza parole, forse non accennai neppure a sorpresa.
In auto non seppi pensare ad
altro. Moro era per la mia parte politica, il Msi, un nemico più che un
avversario. Leggevo assiduamente “il Borghese”; gli articoli di politica del
suo direttore Mario Tedeschi lo avevano preso a bersaglio. Più volte Moro aveva
escluso in maniera categorica che mai la Dc avrebbe fatto intese o alleanze con
la destra.
In politica ci sono avversari e
ci sono nemici. Gli avversari sono quelli che pur avendo posizioni diverse ti
riconoscono la legittimità di esistere e di concorrere alla vita politica; e considerano
l’alternarsi al potere un fatto del tutto normale. I nemici sono quelli che
chiudono nei tuoi confronti qualsiasi ipotesi di legittimità politica e
considerano una tua eventuale ascesa al potere come una catastrofe per il
Paese, da evitare a tutti i costi. La destra era per Moro un nemico; ma per la
destra il nemico era Moro. Teneva sempre a ricordarlo, Moro, a volte in maniera
odiosa, essendo stato lui fascista e avendo partecipato più volte ai Littoriali
della Cultura per assurgere ai vertici dell’intellighenzia
del regime. E tuttavia l’evento in sé del suo rapimento era troppo sconvolgente
per lasciarmi indifferente. Ogni ragionamento politico a quel punto venne meno.
Troppi erano gli aspetti drammatici del Paese.
Quando arrivai a scuola, già lo
sapevano tutti. Dalla centrale di Nardò era arrivata per telefono una circolare
con l’ordine di sospendere le lezioni e di parlare dell’accaduto. Il tempo per
prendere pochi appunti e per tracciare un breve profilo di Moro alle ragazze
riunite nella palestra. Ricordo che ne parlai come se la vittima fosse
l’Italia, anche perché nel rapimento era stata massacrata la scorta, ben cinque
uomini dello Stato, e fatto oltraggio ad una delle sue massime istituzioni. Nessun
giudizio e nessun commento sull’uomo di parte, il quale – dissi – avrebbe avuto
sicuramente dalla storia quanto gli spettava. Mi sembrò di averlo massimamente
rispettato, pensando a Napoleone Bonaparte, per cui Manzoni nel “Cinque Maggio”
aveva affidato ai posteri l’ardua sentenza di dire se era stata “vera gloria”
quella del grande corso. Qualche anno dopo il giornalista Italo Pietra intitolò
allo stesso modo la sua biografia su Moro. Non so quanto fossi riuscito a fare
il professore senza parte in quella circostanza. Una collega mi disse: parli
come un politico.
Era ormai da anni che le Brigate
Rosse compivano imprese di questo genere, ma mai per colpire così in alto e
così spettacolarmente. Gli uomini della Rai, sul posto c’era Paolo Frajese e in
studio Bruno Vespa, ne parlarono con la voce rotta dalla commozione, incapaci
di osservare e riferire le cose con quella distanza che è tipica di ogni
professione esercitata ad un certo livello.
Seguirono 55 giorni, poi il 9
maggio la consegna del cadavere di Moro, lasciato in una R4 rossa nelle vicinanze di Piazza del Gesù e di via delle Botteghe
Oscure, le storiche sedi dei due partiti, Dc e Pci, che erano stati i due piloni
che Moro avrebbe voluto unire con un ponte, per il bene – diceva – dell’Italia
e degli italiani. Se allora non fu il caso a combinare tanti simboli,
sicuramente fu un occulto regista.
L’Italia si accorse di essere sul
fondo del baratro. Moro non era amato e negli ambienti politici, democristiani
compresi, era malvisto. Negli ultimi vent’anni, passo dopo passo, aveva portato
il Paese a sinistra, prima coi socialisti; poi con governi di “non sfiducia” e
di “solidarietà nazionale” coi comunisti. Operazioni viste con preoccupazione
soprattutto all’estero, negli ambienti occidentali, perché si temeva che i
comunisti al governo avrebbero potuto alterare i rapporti nella cosiddetta
“guerra fredda” tra paesi liberaldemocratici della Nato, di cui l’Italia faceva
parte, e quelli comunisti del Patto di Varsavia, egemonizzati dalla Russia
sovietica, a cui da sempre il Pci guardava come alla sua stella polare. Il
cammino verso sinistra era durato circa vent’anni, dal 1960, ultima esperienza
di centrodestra, con Fernando Tambroni, al varo del IV governo Andreotti nel
1978, che Moro, da Presidente della Dc, aveva fortemente voluto.
La manovra politica di quei
governi era oggettivamente sospetta: si andava a sinistra per l’abbraccio coi
comunisti con un capo del governo, Giulio Andreotti, che era di destra e uomo
di fiducia della chiesa. Le destre italiane e occidentali paventavano la
“repubblica conciliare” e lo spostamento più a Est del confine. La cosa non
piaceva né agli Americani né ai Sovietici per contrapposti ma coincidenti interessi.
Gli Americani temevano di perdere le basi in Italia, fondamentali nel rapporto
di forza con l’Est comunista, i Sovietici temevano di perdere una pedina
importante come il Pci, che poteva smarrirsi nelle more del democratismo
capitalista e reazionario. Erano anni di “guerra fredda” e la caduta del Muro
di Berlino appariva come un’assurdità.
D’altra parte la marcia italiana a
sinistra non aveva portato grandi benefici al Paese. Il boom economico degli
anni Sessanta era frutto delle politiche precedenti, degli aiuti americani, del
grande esodo e delle rimesse degli emigranti. E a partire dal Sessantotto il
Paese à scosso da numerose minacce, politiche e sociali: contestazione
studentesca, attentati e formazioni terroristiche di destra e di sinistra,
scioperi in continuazione, l’allargamento della base sociale del brigatismo
rosso “né con le brigate rosse né con lo stato”. C’era qualcosa che Moro non
capiva, che a Moro sfuggiva. C’era che quel mondo, a cui lui guardava nella
prospettiva di conquistarlo alla democrazia parlamentare, non ne voleva sapere
e si era posto in guerra dichiarata; c’era che alla grande maggioranza degli
italiani la sua politica di inclusione dei comunisti non piaceva e meno ancora
piaceva all’Occidente liberale e all’Oriente comunista.
Ecco, in questo suo non capire come
effettivamente stavano le cose in Italia e nel mondo è chiuso il fallimento
politico del suo progetto e si consuma il suo dramma personale.
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