sabato 30 dicembre 2023

Donne, il femminismo è idolatria

Le donne continuano ad essere barbaramente uccise. Nel corso del 2023 sono state ammazzate 106 donne, per lo più giovani. L’Enciclopedia Treccani ha scelto “femminicidio” come parola dell’anno. Sembra un riconoscimento di merito secondo la cultura mondano-consumistica. L’uomo dell’anno, il giornalista dell’anno, il carciofo dell’anno. Si banalizza la tragedia. Un premio ad memoriam per le povere morte. Assistiamo ad una sorta di progrom mentre tutt’intorno celebriamo riti funebri sempre più in preda a furori ideologici. Il femminismo, riportato al ’68, è la causa scatenante di tanti femminicidi. Incominciò tutto con le ragazze che levavano le mani in alto congiunte a formare il simbolo più bello e più volgare che da sempre le contraddistingue. Gridavano “il corpo è mio”. Continuano a ripeterlo mentre criminali e disgraziati le colpiscono senza pietà. Non hanno ancora capito che il corpo che ciascuno di noi ha in dono dalla natura non può essere ridotto ad esclusiva possessione. Solo i beni materiali possono essere posseduti. Può il corpo di un essere umano ridursi ad un oggetto? Il fenomeno costerna la società, spaventa gli individui. Se filosofare sulle cose ha un senso, il femminismo esasperato e declinato in ogni sua forma porta verso l’estinzione dell’umanità. Nel mare dei diritti affoga la ragione. Perfino la Mussolini ci si mette, partita come nipote del duce è finita nipote del comandante Valerio. La verità è che il pensiero positivo ha messo le femmine su di un piedistallo e imposto di adorarle come idoli, pensando che ciò sarebbe bastato a renderle uguali se non superiori ai maschi. In ogni questione tra maschio e femmina, la femmina ha ragione a prescindere, non ha mai colpe. Il femminismo è un’idolatria. Solo gli idoli sono esenti da colpe, godono dell’irresponsabilità. L’idolo, che si tratti di un dio pagano o di un santo cristiano, è inaccusabile, salvo bestemmiarlo. Tutto quello che le donne fanno è lecito in ragione di una malsupposta libertà e di una peggiosupposta uguaglianza. Alcuni fattori hanno indotto a questo: la loro subalternità millenaria e dunque la loro sofferenza, la loro inferiorità fisica, la libertà di poter fare finalmente quello che vogliono alla stregua dei maschi, a quelli “considerate” uguali in tutto e per tutto. Una simile condizione le ha fatte passare da una reale inferiorità ad una fittizia uguaglianza quando non proprio superiorità, complici le politiche degli stati democratici della nostra civiltà occidentale. Ma intanto non è cambiato nulla sul rapporto fisico maschio-femmina e bisogna essere idioti per pensare di annullare simile differenza con una legge. Ciò che la natura fa non può modificarlo una legge. Nella natura del maschio ci sono caratteri che non possono essere né annullati né trasferiti alla femmina. Facciamocene una ragione. Peraltro la donna ha altre superiorità, vere e dimostrabili. Le evidenti esagerazioni e inconcludenze di certe leggi hanno dell’assurdo. Come puoi pensare di poter dare sempre ragione ad un soggetto solo in virtù del suo genere? Un maschio rarissimamente denuncia una femmina per molestie sessuali. C’è un rifiuto intellettuale, una inibizione sociale. Ma le femmine possono denunciare i maschi per lo stesso motivo quando vogliono, anche per uno sguardo, un ammiccamento, una parola. Nessun maschio si sognerebbe mai di denunciare una femmina per averlo stuprato dopo dieci venti trenta anni, ma neppure dopo dieci venti o trenta secondi. C’è un solco di differenza naturale tra maschi e femmine che nessuna ideologia può colmare. E se questo solco non lo si accetta e non lo si gestisce con intelligenza si va sempre più incontro a conseguenze disastrose, individuali e collettive. Per favorire la libertà assoluta delle donne, si promuovono politiche individualistiche, con l’abbattimento di ogni limite. La famiglia è una gabbia. Va sfasciata. Essere madre limita la libertà di essere e basta, dunque si modifichi il concetto di madre. Perfino essere femmina può essere una costrizione, dunque si modifichi il concetto di femmina. Mai si è vissuto nella storia all’insegna di tanta ideologia come stiamo vivendo noi oggi. Forse è accaduto durante le dittature del Novecento, che, di destra o di sinistra, pretendevano di trasformare l’uomo e la donna da esseri naturali in prodotti artificiali. Eppure si continua a predicare contro le dittature senza riflettere su cosa effettivamente volessero dall’uomo, su cosa vuole oggi la democrazia del pensiero unico, alias dittatura.

domenica 24 dicembre 2023

Pubblicità dei libri e lettura

Il caso Ferragni con la sua pubblicità ai panettoni Balocco e alle uova di Pasqua Dolci Preziosi, considerato un esempio di frode in pubblicità e falsa beneficenza, ha spalancato una porta sul dorato mondo dei “profitti” gratis, delle nuove professioni e dei nuovi mestieri. Abbiamo visto tutti cosa c’è in quel mondo di fenomeni che le generazioni più anziane, a cui apparteniamo, tardano a capire fino in fondo. La Ferragni è considerata un’imprenditrice. Di che cosa? Potrebbe chiedersi il cittadino alieno dalle modernità diaboliche del mondo d’oggi. Di se stessa! Una volta ci si sarebbe messi a ridere per la burla e si avrebbe pensato chissà che cosa. Oggi la Ferragni è un influencer che ha trenta milioni di follower, ovvero di seguaci simpatizzanti, sparsi in tutta Italia e nel mondo, che la seguono sui social. Lei è in grado in qualsiasi momento di influenzare l’acquisto di un prodotto, e da quel momento il prodotto consigliato o suggerito prende il volo delle vendite. Capito come funziona? Intendiamoci, niente che non si sia già visto. Nelle feste patronali di una volta, di molti anni fa, vi erano venditori di bambole sotto forma di partecipazione a un gioco, tipo oggi “i pacchi” di RaiUno, che si mettevano d’accordo con alcune persone del luogo che facevano finta di essere delle persone comuni per invogliare gli altri ad avvicinarsi alla baracca e partecipare. Dai panettoni ai libri. Finora non si è parlato della pubblicità ai prodotti editoriali, ma bisognerebbe incominciare a farlo. In Italia non c’è una normativa precisa e ognuno fa da sé. Per sapere che è uscito un nuovo libro lo devi leggere su qualche giornale o rivista, sentirne parlare direttamente alla televisione o vederlo nella vetrina di una libreria o partecipare alla sua presentazione. Va da sé che la miglior forma di lancio pubblicitario di un libro è la televisione. E qui è il punto. Il libro è prima di tutto un’opera d’ingegno con diversi aspetti culturali, di cui è doveroso e importante occuparsene. Promuoverne la vendita dovrebbe essere interesse dello Stato attraverso le sue agenzie educative. Dopo di ciò il libro è un prodotto industriale come tutti gli altri né più né meno. Pubblicizzarlo dovrebbe costare come per pubblicizzare una saponetta o un dentifricio. Il privilegio di proporre l’acquisto di un libro in televisione, da parte dell’autore che si gira, come un santo pellegrino, una per una ogni trasmissione, riguarda pochi autori, i quali godono di piacevole e proficua ospitalità, facendo passare il tutto come normale servizio giornalistico, perfino meritorio, come per certi aspetti è. Non è uno scherzo da niente. Buona la gloria, ma questa “non dat panem”; per il pane ci vogliono i soldi. Un libro di Bruno Vespa, di Aldo Cazzullo, di Corrado Augias, di Enrico Carofiglio, di Alberto Sallusti, di Marco Travaglio, di Andrea Scanzi, di Antonio Padellaro e via di seguito, ma anche di uomini politici che sempre più spesso si raccontano in libri, vedi il più recente Pierferdinando Casini, e di magistrati, il giorno dopo che se n’è parlato in una qualsiasi trasmissione, balza ai primissimi posti nella classifica delle vendite in tutta Italia. E sono soldi, introiti seri, di cui non beneficiano tutti gli altri scrittori ed editori, che quando riescono a vendere cento copie sono davvero fortunati. Se consideriamo che di libri in genere se ne vendono pochi perché pochi leggono, non c’è chi non paragoni la sporadica vendita di poche copie di libri ad una pesca con la canna, con esca ed amo, e quella a migliaia di copie di chi beneficia dei canali televisivi alla pesca a strascico, che come si sa è vietata perché pesca di frodo. Gli scrittori ospiti dei talk televisivi non dovrebbero parlare dei loro libri, né dovrebbero farlo al loro posto i conduttori. Perché si tratta di pubblicità gratuita, di cui non beneficiano altri che non hanno gli stessi rapporti coi mezzi di diffusione di massa. E con gli scrittori a beneficiarne ancora di più sono gli editori. Essi vogliono pubblicizzare i loro libri? Bene, paghino per farlo e magari con le entrate si potrebbero distribuire alle varie biblioteche pubbliche, dalle comunali alle provinciali, alle scolastiche, copie per incrementare la lettura e l’aggiornamento. Senza la pubblicità televisiva gratis, ma molto efficace, molti autori, che sfornano libri a ritmo industriale, vedrebbero effettivamente quante copie sono in grado di venderne. E con loro vedrebbero anche i cittadini, che spesso finiscono per credere di fronte alle migliaia di copie vendute, di trovarsi di fronte ad autentici Nobel per la letteratura.

sabato 16 dicembre 2023

Veneziani e gli intellettuali di destra

Recentemente su “La Verità”, quotidiano dove abitualmente scrive, Marcello Veneziani ha preso le distanze dalla locuzione “intellettuale di destra”, sostenendo che se ha avuto un senso considerarsi nel lungo periodo in cui essere di destra significava essere escluso da tutto, non ha più senso oggi con la destra al potere. Cosa ha voluto dire Veneziani? Forse che essere di destra non è compatibile con lo stare al governo? Forse che essere di destra vuol dire essere disorganico a qualsiasi partito, a qualsiasi governo? L’intellettuale di destra è tale perché è sempre contro? Il suo pezzo lo concludeva dicendo che la locuzione “intellettuale di destra” contiene due diffamazioni. È diffamante per un intellettuale essere considerato di destra ed è diffamante per la destra essere associata agli intellettuali. Quale che fosse stato il motivo dell’esternazione, Veneziani non vuole più essere considerato un intellettuale di destra. Basta! Ho avuto poche volte l’occasione di incontrare Veneziani. Ma lo conosco da quando entrambi molto giovani avevamo casa giornalistica a “Voce del Sud”, il settimanale leccese di Ernesto Alvino, che nei confronti dei giovani aveva particolare predilezione. Pugliesi entrambi, lui di Bisceglie, io di Taurisano. Credo di avere tutti i suoi libri, o quasi tutti. Uno dei primi, una monografia su Mussolini, lo recensii su “Voce del Sud”. È stato prolifico in questi anni. La sua produzione è ricchissima e spazia per diversi ambiti. Credo che oggi sia il nome più importante di una certa intellighenzia, se lui me lo permette, di destra. Tuttavia Veneziani, che non è nuovo a provocazioni, con questa sua ultima sparata, rientra perfettamente, che gli piaccia o meno, nella tipologia tradizionale dell’intellettuale di destra. Si pensi a quanti superfascisti, da Curzio Malaparte a Indro Montanelli, finirono antifascisti, proprio per quella idiosincrasia che ha un certo tipo di intellettuale verso l’intruppamento o l’asservimento alla truppa. Di me, per esempio, Ernesto Alvino diceva che rientravo nella tradizione degli anarchici di destra, per quella mia propensione a dire oggi bene dell’operato di un partito relativamente ad un fatto e domani male dello stesso partito relativamente ad altro fatto. Ecco, prediligere il fatto e non il partito distingue l’intellettuale di destra da quello di sinistra, che è sempre – come si sa – gramscianamente anima e corpo funzionale al partito. Veneziani dal partito ha avuto a suo tempo una certa considerazione. Ricordo che è stato anche Consigliere della Rai e Consigliere di Cinecittà in quota An durante i governi Berlusconi. Legittimamente avrebbe ambito a qualche incarico più importante nel governo Meloni o in qualche istituzione pubblica, in considerazione anche del fatto che Fratelli d’Italia, partito al quale Veneziani, per storia sua personale, è più vicino, non ha molti grandissimi nomi da spendere. Se è così, non ho difficoltà alcuna a comprendere i motivi della sua “ira”. Ma la mia è un’ipotesi, della quale, se non ha riscontro, chiedo scusa a Veneziani. Molto più probabile è che egli abbia voluto rivendicare la libertà di esprimersi sui fatti odierni relativi al partito o al governo. E bene ha fatto allora a dirlo pubblicamente sul giornale, per fugare dubbi o malintesi. La chiarezza non è solo forma ma anche contenuto Conviene che oggi, se si vuole essere credibili, non si abbiano etichette. In un ambiente ormai falsificato e polarizzato, o si è di destra o si è di sinistra, diventa difficile fare un’analisi dei fatti ed essere creduto. Ciò a cui un intellettuale libero tiene più che a qualsiasi altra cosa. Nella situazione in cui ci troviamo un intellettuale si trova né più né meno come in una duplice dittatura senza libertà di uscita. Se dice bene del governo è perché etichettato di destra, se dice male è perché etichettato di sinistra. Non esiste più per sé. E questo è applicabile a qualsiasi altro soggetto di osservazione critica, opposizione compresa. L’etichetta è una maschera che non consente di essere visto nel proprio vero volto. Liberarsi di ogni etichetta è perciò oggi assolutamente salutare per la propria credibilità. Veneziani ha voluto lanciare un’altra delle sue provocazioni. Ma temo che saranno pochissimi a raccoglierla, perché è molto difficile, quando si è in un sistema di comportamenti, rinunciare alle convenzioni. Che, a volte, possono essere prebende. Ma già stiamo parlando di altri, a cui la maschera o l’etichetta che dir si voglia è ricercata e curata.

sabato 9 dicembre 2023

Televisione: informazione o propaganda?

In tedesco c’è un termine che indica lo stato d’animo di chi gode delle disgrazie altrui. Si dice Schadefreude. Sembrerebbe che è un vizio tipicamente tedesco, dato che il termine l’hanno inventato loro, ma, avendoli conosciuti i tedeschi, per vita e letteratura, non mi pare. In italiano per esprimere simile sentimento occorrono due parole. In verità anche il termine tedesco è un composto, da Schade, che significa male danno, e Freude, che significa gioia felicità. Una sorta di ossimoro. C’è da stupirsi come mai nella nostra lingua non abbiamo ideato un termine così. Forse perché noi italiani sappiamo dissimulare molto bene i sentimenti più riposti. Torquato Accetto fu maestro nel Seicento di “dissimulazione onesta” ad uso di cortigiani e potenti. Oggi si usa il politically correct, che, se non osservato, il minimo che ti capita è di passare per nazifascista, con tutte le conseguenze …fasciste. Da un anno a questa parte, da quando c’è il governo Meloni, assistiamo a spettacoli televisivi, i cosiddetti talk-show, in cui i campioni del giornalismo televisivo italiano, prestati dal cartaceo, ostili alla destra, trasudano sofferenza cupa per i successi di Giorgia Meloni e gioia luminosa per le sue tribolazioni, che quando non ci sono vengono inventate. “La 7”, per esempio, è un contenitore formidabile, all’interno del quale vengono sminuiti e banalizzati i successi della destra o addirittura negati e sono fonte di gioia i suoi insuccessi. “Di Martedì”, “Otto e Mezzo”, “Piazza pulita”, “Propaganda Live” sono tutte trasmissioni che non nascondono il loro acido essere antigovernativo. Travaglio, Scanzi, Montanari, Giannini, Urbani, Mieli, Caracciolo sono i campioni in campo, magistralmente guidati dalla conduttrice Gruber. Dall’altra parte, su Mediaset, “Dritto e Rovescio” di Paolo Del Debbio, “Fuori dal coro” di Mario Giordano, “Quarta Repubblica” di Maurizio Porro, “Zona bianca” di Giuseppe Brindisi, fanno altrettanto. Si può dire che il giornalismo italiano, di destra e di sinistra, è tutto intruppato al seguito dei politici, tranne alcune eccezioni. Essi si azzuffano come bravi al seguito dei loro padroni di manzoniana memoria; e spesso se le danno di santa ragione. Il risultato è che hanno stancato i cittadini telespettatori, che mandano tutti a quel paese dopo aver cercato inutilmente di capire che cosa accade. Una volta, in televisione, Maurizio Molinari, direttore di “Repubblica”, sornione sornione, a chi lo accusava di fare politica rispose, sollevando appena appena le palpebre, che lui faceva solo informazione. Allora corsi subito a rivedermi quel che dicono dei giornali e della loro funzione gli scienziati della politica. I giornali sono mezzi in uso alla politica e contribuiscono alla propaganda dei partiti e dei governi, la stampa è un mezzo di lotta politica. Non sarebbe male che ognuno ogni tanto si ripassasse qualche manualetto. Tra Gaetano Mosca e Marco Travaglio io credo a Mosca. Tra Roberto Michels e Andrea Scanzi io credo a Michels. Tra Carl Schmitt e Paolo Mieli io credo a Schmitt. Bisognerebbe che i cittadini avessero l’antidoto giusto, una sorta di contraveleno contro la cosiddetta informazione. Per dirne una. Nel talk “Otto e Mezzo” de “La 7”, condotto da Lilli Gruber, la quale non manca mai di ricordare ai telespettatori che lei è di origini austroungariche – ma chi se ne frega! – tanto per distinguersi dagli italiani, ci sono sempre, quattro ospiti che partecipano al dibattito, regolarmente tre in favore dell’opposizione, uno in favore del governo, più la conduttrice che dirige l’orchestra antigovernativa. A sentirli tutte le sere te ne vai a letto convinto che la mattina dopo ti alzi col governo caduto, tanti sono stati i suoi fallimenti da loro denunciati. Così, a sentire i bardi governativi di Mediaset, te ne vai a dormire con quattro cuscini, convinto che il governo va a gonfie vele e che a schiattare di rabbia saranno i suoi nemici. Quasi sempre sono giornalisti che si confrontano, i quali dovrebbero garantire un minimo di obiettività, limitandosi a spiegare quanto i politici dicono e fanno, quel che accade in Italia e nel mondo, senza fini propagandistici. Il dover assistere, invece, ad un ruolo travisato, quello del giornalista, che non spiega ma perora cause pro o contro, e lo fa con più partecipazione emotiva del politico medesimo, francamente è un tradimento che non può che irritare il cittadino spettatore. Da quest’anno si è aggiunta una trasmissione equivoca. Che ci fa a Mediaset la sinistra Bianca Berlinguer con la sua trasmissione “È sempre carta bianca”? Verrebbe di rispondere con la battuta di Totò. Ma, per questa volta, soprassediamo.

lunedì 4 dicembre 2023

Atrocità e televisione

La televisione deve educare, non può limitarsi a divertire e a distrarre la gente, e se pure propone spettacoli di svago il fine degli stessi non può che essere educativo. Non può proporsi di rendere gli individui dei beoti. Vale per tutta la televisione, perfino per gli stacchi pubblicitari, se in qualche modo essi mancano di rispetto allo spettatore. Vale per internet, che ha trasferito la conoscenza dell’individuo dal cervello alla tasca, chiusa in pochi grammi di diavolerie elettroniche. Ognuno pensa di possedere lo scibile chiuso nel suo smartphone a portata di mano. Chi mai ci salverà da questi due “pericoli” della vita odierna? Accade che perfino i conduttori televisivi si trasformino in guitti e mischiano il messaggio serio con lo sberleffo. I primi a non essere creduti sono proprio loro, tradendo nella gestualità e nella mimica oltre che in quello che dicono la vacuità delle tesi che sostengono. E tutto questo perché? Per attrarre spettatori, per aumentare ascolti e pubblicità. Più spettatori ha una trasmissione e più sono i fruitori, gli acquirenti, i consumatori dei prodotti pubblicizzati. In questo eccellono le televisioni commerciali, che hanno monopolizzato quasi del tutto i talk politici e gli spettacoli trash. Ma neppure la Rai, che pure si muove in un’ottica diversa, dimostra di avere sempre rispetto per lo spettatore. Accade, per esempio, che mentre non ti sei del tutto ripreso dalle scene di guerra, di morte e di distruzione, provenienti dall’Ucraina a da Israele, che i Tg ti fanno vedere, vieni scaraventato nell’allegra brigata di Fiorello e compagni dello spot per “Viva Rai 2!”. Di punto in bianco ti trovi nel bel mezzo di una compagnia di burloni che, tra lazzi scherzi sfottò motteggi e autorisate, ti portano in un mondo di gaudenti balordi. Dove tu non vuoi proprio finire. A prescindere se le battute di Fiorello vanno in direzione di destra o di sinistra. Si dice: puoi cambiare canale. Ma intanto ti verrebbe voglia di cambiare epoca, se fosse mai possibile. Perché dobbiamo ridere? Che c’è da ridere? Perché distrarci, divertirci se tutt’intorno c’è il disastro? Siamo diventati tutti un popolo di irresponsabili burloni? Perché non dobbiamo pensare seriamente ai problemi che ci assillano? Marx – chi era costui? – diceva che la religione è l’oppio dei popoli. Con lo stesso metro di giudizio si può dire che Fiorello l’ha sostituita alla grande. Per favore, ridateci la religione! Ci immaginiamo quali danni subisce il nostro cervello, la nostra psiche, passando, sia pure per pochi secondi, da una condizione di sofferenza ad una di allegra balordaggine? Come dall’acqua calda all’acqua ghiacciata. C’è gente che di fronte alle disgrazie del mondo non vuole né confortarsi né rallegrarsi con altro. Come puoi volerti distrarre dopo aver appreso dell’ennesimo ammazzamento di una ragazza che proprio nel giorno dell’uccisione doveva discutere la tesi di laurea? La gente vuole riflettere. E invece sembra che la serietà sia diventato l’ottavo vizio capitale. Dunque, si consenta alla gente di piangere quando c’è da piangere e di ridere quando c’è da ridere. La televisione non lo consente di fare e ti sbatte da una parte all’altra senza nessun rispetto, facendoti perdere il senso delle cose, mettendoti sul sentiero del più becero nichilismo. Intanto l’informazione, per dovere di cronaca, non può non insistere sui soliti drammi che colpiscono l’individuo e la società. Di fronte ai quali il solito esperto ti ripete un mantra ormai vuoto come una bolla di sapone. Bisogna incominciare ad educare i ragazzi in famiglia e a scuola, come se in questi due “luoghi” sacri della crescita dell’individuo non si insegnasse da sempre il rispetto dell’altro! Come se famiglia e scuola non fossero già luoghi dove si esercitano da parte dei ragazzi le imprese più deprecabili, come pretendere in casa il soddisfacimento di ogni capriccio, come sparare a scuola agli insegnanti dopo averli insultati sul web, sui muri, di persona. Non si vuole ammettere che la colpa è dello Stato, ovvero delle sue classi dirigenti, che invece di preoccuparsi dei bisogni fondanti della convivenza civile assecondano mode per conquistare consenso, introducono leggi che vietano di intervenire ai genitori e agli educatori come converrebbe, favoriscono ogni tendenza a fare quel che ognuno vuole fare, ad essere quel che ognuno vuole essere. Non si è ancora capito che dove ognuno fa quel che vuole è giungla, vige la legge del più forte; e il più forte ha sempre prevalso sul più debole. La storia di Caino e Abele insegna che al più debole non basta avere dalla sua parte neppure Domineddio.

sabato 25 novembre 2023

Donne e patriarcato

La morte atroce di Giulia Cecchettin, la ragazza ammazzata a coltellate dall’ex fidanzato che non voleva accettare la fine del rapporto, ha nuovamente acceso le passioni più forti e qualcuno di quelli che frequentano il Bar Italia, la metafora bersaniana del populismo, ha perfino invocato la pena di morte. Negli ambienti piazzaioli e mediatici si è parlato invece del patriarcato, a cui si è voluto dare la colpa. Ancora una volta la condanna precisa per chi ha compiuto l’assassinio è stata trasferita ad un generico responsabile immateriale, secondo tutta una linea di pensiero psico-sociologico. Per l’età che ho, il patriarcato è memoria. In ogni famiglia il padre in preminenza era il garante dell’ordine famigliare, coaudiuvato dalla moglie. Leonardo Sciascia sosteneva che il matriarcato nel Sud Italia non ha mai smesso di dominare. In realtà funzionava una sorta di diarchia. Non mancavano, evidentemente, con gli aspetti positivi anche alcuni negativi, perfino degeneri, come in tutti i sistemi. Ma c’era un sistema! È sbagliato leggere quell’ordine con le teorie antropologiche di oggi. Se così facessimo dovremmo eliminare come negativo tutto il passato, cancellarlo, dalla costola di Adamo in poi; come purtroppo si predica di fare (cancel culture). Oggi, al posto di un sistema, c’è il vuoto. Ognuno per sé e nessuno per tutti. Nei tempi del patriarcato le ragazze erano sacre. Nessuno all’esterno della famiglia si poteva permettere di mancar loro di rispetto, di farle oggetto di molestie, di insistenze, di cattive attenzioni. Chi lo faceva non tardava a vedersela col padre, coi fratelli, con gli zii, coi cugini, spesso con l’intera ghetonia. Difficilmente se la passava liscia. La rottura di un fidanzamento o di un matrimonio era questione che riguardava le famiglie e le controversie si risolvevano pacificamente, tutt’al più restava qualche screzio che il tempo appianava. Non era solo paura che tratteneva dal mancare di rispetto ad una ragazza ma anche la consapevolezza di diventare un paria e di finire nell’isolamento. Va da sé che a quei tempi le donne erano soggette in famiglia a vincoli di ogni genere, di madri, di mogli, di sorelle; esse venivano nell’ambito famigliare dopo i maschi, dal padre ai fratelli. Non si augurava mai figlie femmine a chi si sposava, ma maschi; e non solo perché questi entravano crescendo nelle attività lavorative della famiglia, ma perché perpetuavano la “razza”, di cui le madri erano orgogliose quanto e a volte più dei padri. Non si lasciava mai la parte migliore dell’eredità alle femmine, ma sempre ai maschi, che dovevano perpetuare il “nome” della famiglia. Poi è avanzata la cultura del femminismo. In questo processo i maschi hanno dato il loro contributo sempre più convinto. Le donne non sono state mai lasciate sole. Il Novecento è stato il secolo che ha visto il raggiungimento di traguardi importanti, perseguiti e riconosciuti da tutte le agenzie nazionali e internazionali fino ai pieni diritti. Coerente a livello patriarcale è stato il fascismo, che, se da un lato considerava le donne intoccabili e superprotette da un altro le legava ai loro doveri di mogli, di madri e di cittadine pienamente inserite e impegnate nei traguardi del regime fin dalla nascita. Poi è venuta la libertà per tutti, conquistata con lacrime e sangue; ma la libertà non ha solo i costi del conquistarla, ha anche i costi per conservarla. E ancora una volta, lacrime e sangue, come provano le continue tragedie. Oggi le donne sono libere da ogni sorta di sottomissione, di tutela, di controllo. Ma sono sole! Io penso che quella ragazza uccisa quando si è vista assalire dall’ex fidanzato abbia invocato il padre che non era lì a proteggerla. Ma solo era anche il padre, che nulla sapeva dei pericoli che correva la figlia. La nostra è una società di soli, ben oltre le parole profetiche del poeta: “ognuno sta solo sul cuor della terra”. Le manifestazioni cosiddette di solidarietà danno solo una parvenza di compagnia. A volte in casa i membri di una famiglia ignorano l’uno i problemi dell’altro. Un giovane, che sapeva che dietro una ragazza c’era l’intera famiglia, e non solo, non s’azzardava così facilmente ad usarle violenza. Ma oggi, che prevede un giovane che si vendica dell’abbandono della sua ragazza uccidendola? Sa che per prima cosa viene deresponsabilizzato, che sarà processato e condannato ad una pena che gli sarà poi ridotta e commutata, che nel giro di pochi anni è libero e che ancor giovane ha davanti a sé tutta una vita. Quella vita che lui e soltanto lui ha strappato ad una ragazza di ventidue anni il giorno in cui si doveva laureare.

sabato 18 novembre 2023

Ebrei, un destino di ritorno

Qualche giorno fa il mio barista mi chiese di spiegargli in parole povere perché gli ebrei sono così odiati da sempre e in tutto il mondo. Gli risposi: metti che un signore che viene da fuori apra un bar accanto o dirimpetto al tuo e che in poco tempo mentre lui progredisce tu sei costretto a chiudere, metti che quel signore sia un ebreo, tu non puoi non odiarlo. È stato la rovina della tua esistenza, senza peraltro commettere alcun reato. È semplificatorio, d’accordo, ma è così. È l’invidia che anima l’odio contro gli ebrei. Il non sopportare che essi siano più capaci degli altri. A questo aggiungi il deicidio, di cui sono stati accusati, e la situazione antiebraica si completa. Quando il governatore della Giudea Ponzio Pilato chiese al popolo chi liberare per la pasqua di quell’anno Barabba o Gesù, il popolo fomentato dai sacerdoti scelse Barabba. E questi, con tutti i dubbi storici che lo riguardano, era un ribelle, una sorta di terrorista ai danni degli occupanti romani. Al di là di giuste o ingiuste colpe, l’ebraico è un popolo straordinario; vive un destino di eterno ritorno. Nella storia è stato sempre perseguitato, spesso con gravi danni all’economia del paese dal quale veniva espulso, perché senza l’intraprendenza degli ebrei quel paese s’impoveriva. Accadde con la cacciata dalla Francia nel 1182 e dalla Spagna nel 1492. Gli ebrei ovunque si siano insediati hanno migliorato l’economia del paese, hanno prodotto ricchezza, migliorato i servizi, anche con piccole attività commerciali e artigianali. Il filosofo olandese di origine ebraica Baruch de Spinoza campava smerigliando lenti da occhiali. Hanno contribuito allo studio delle arti, delle lettere e delle scienze. Oggi, nel mondo, sono piene le università, le case editrici, le banche, i giornali, le televisioni. Il 20% dei premi Nobel sono stati assegnati a ebrei. Il loro destino di perseguitati ha sviluppato in loro una forte compattezza e solidarietà ovunque si trovino. Perciò chi li attacca deve vedersela con le potenze mondiali, che vivono nella stessa cultura, nella stessa economia, che hanno lo stesso stile di vita e che sanno che il successo non è dono di chissà chi, ma frutto del lavoro, dell’impegno, della tenacia, della capacità di difendere il proprio. Si consideri che le classi dirigenti di molti paesi occidentali hanno ebrei ai vertici delle loro istituzioni. Per dire: Blinken, Segretario di Stato Usa, è ebreo; Schlein, che un giorno potrebbe diventare capo del governo in Italia, è ebrea. Noi occidentali viviamo da sempre nell’etica del lavoro. Calvino (il teologo) sulla predestinazione fu chiaro: guarda alla tua condizione, se sei un fallito sulla terra sei un uomo perso nell’aldilà. Perciò, fai di tutto d’inseguire il successo e di raggiungerlo: è il segno di quel che sei ora, di quel che sarai dopo. È la filosofia del quisque est faber fortunae suae. Vale anche oggi. La terra d’Israele, rivendicata, in parte anche giustamente, dai palestinesi, una volta improduttiva e abbandonata, oggi produce ricchezza; il deserto è diventato giardino, frutteti, aziende. In Cisgiordania, territorio spettante alla Palestina per decisione dell’Onu fin dal 1947 e conquistato da Israele nella guerra del 1967, i coloni ebrei si sono insediati portando dappertutto i segni del lavoro, della crescita, della civiltà occidentale. La loro filosofia di vita è avere la spada accanto all’aratro. E, infatti, i loro kibutz sono difesi dai soldati. Gli ebrei continuano così a dimostrare di essere loro gli eletti del Signore. I vecchi abitanti di quelle terre, i palestinesi, che sono ridotti nel migliore dei casi a lavoratori subordinati, considerano la situazione intollerabile. All’invidia, alla ragione utilitaristica, si aggiunge la civiltà diversa alla quale i palestinesi appartengono, l’Islam. Le componenti più radicali di questa religione non ritengono di coesistere con altre ma delle stesse perseguono l’eliminazione. Ergo: Israele non deve esistere! È considerato un intruso in un mondo di musulmani. Deve scomparire. La posizione così radicale dei palestinesi porta Israele ad essere sempre sul piede di guerra. La sua è una questione di vita o di morte, è ciò che impedisce un duraturo accordo, è la causa del fallimento di tanti tentativi fatti dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi che ad un certo punto sembravano per raggiungere l’obiettivo. Ma quest’ultima guerra che Israele sta combattendo presenta caratteri ancor più gravi e inquietanti rispetto alle precedenti. Non si discute la sua legittimità a difendersi, ma se per farlo pone le premesse di nuovi rancori difficilmente si arriverà mai alla coesistenza dei due popoli in due stati. Il che significa che per gli ebrei, in Israele e nel mondo, è inevitabile vivere in un costante stato di guerra, a rischio del mondo intero. È tragico che altro i figli di David non possono fare.

sabato 11 novembre 2023

Costituzione, cambiare, ma con giudizio

Accade spesso a scuola, mio ambiente professionale, di dover cambiare un testo scolastico. Sulla materia si torna ogni anno per il caro-libri. Ma non è di questo che qui si vuole parlare, per quanto l’argomento meriti la massima considerazione. Quando un professore vuole proporre un nuovo testo deve fare una relazione in cui sono evidenziate le inadeguatezze del testo che si vuol cambiare e illustrate le bontà didattiche di quello che si chiede di introdurre. Del testo vecchio si conoscono i difetti, sperimentati, e del nuovo si ipotizzano i pregi, evidentemente ancora da sperimentare. Non è improbabile che il nuovo, una volta sperimentato, risulti peggio del vecchio. Dico questo dopo aver letto in questi ultimi giorni diversi pareri di esperti sulla riforma delle istituzioni che il governo Meloni intende proporre al Parlamento e in specifico all’elezione diretta del capo del governo, il cosiddetto premierato. Le intenzioni, a prescindere se condivisibili o meno, sono di garantire sempre un governo eletto dal popolo, che è sovrano, e impedire i cosiddetti ribaltoni. Due punti che l’attuale forma istituzionale non sempre ha garantito, specialmente in questi ultimi trent’anni. Quali sono state le “degenerazioni”? Nel fatto che i governi sono durati poco, che ce ne sono stati alcuni voluti dal Presidente della Repubblica, formalmente approvati dal Parlamento, ed altri dalle combinazioni partitiche più stravaganti e contraddittorie. Ricordiamo i berlusconiani governi dei “responsabili” e quelli grillini giallo-verde e giallo-rosso. Va da sé che i governi sono sempre voluti dal popolo, altrimenti sarebbero incostituzionali, indirettamente attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, direttamente attraverso le urne. Nella Repubblica parlamentare, qual è la nostra, un ruolo fondamentale ce l’hanno Presidente della Repubblica e Parlamento, il primo sceglie a chi affidare l’incarico di fare il governo, ovviamente dopo le consultazioni delle forze politiche, il secondo lo deve approvare in maggioranza. Se i governi non durano e si cambiano le maggioranze non accade per difetto della norma ma della politica. La “colpa” della norma è che consente le geometrie variabili della politica. Ora, se il governo Meloni vuole una riforma tale da garantire stabilità dei governi, correttezza politica nei confronti del popolo, ed evitare ribaltini e ribaltoni, è sicuro di riuscirci con la proposta che ha in mente di fare? Questo è il punto. Sono abbastanza noti i caratteri della politica italiana e sappiamo che anche le più granitiche aggregazioni di partiti e di uomini possono ad un certo punto collassare. Il trasformismo depretisiano è diventato pellegrinaggio parlamentare in virtù del fatto che una norma costituzionale consente al parlamentare di “responsabilizzarsi”, leggi cambiare partito, con chi vuole e tutte le volte che vuole, tradendo il mandato popolare ma non la Costituzione. Le leggi si possono cambiare, ma gli uomini chi li cambia? Con la riforma proposta dal governo si rischia di portare fuori dalla Presidenza della Repubblica e dal Parlamento gli stessi difetti di prima, forse anche aggravati, perché la norma è diversa ma gli uomini sono gli stessi. Tenendo conto della realtà delle cose e del fatto che la proposta del governo trova tutte le opposizioni compatte, il che fa pensare che essa non raggiungerà i due terzi del Parlamento in sede di approvazione e si renderà necessario il passaggio referendario, qualche politologo e costituzionalista (Panebianco, Corsera del 6 novembre) suggerisce una riforma concordata con le opposizioni, con qualche aggiustamento per evitare le derive più immorali e impopolari, quelle che hanno allontanato gli elettori dalle urne. Ma bisogna vedere fino a che punto le parti sono disponibili a trattare e se al loro interno sono compatte. Finora sul fronte della maggioranza non ci sono state crepe, ma esse potrebbero prodursi se le opposizioni dovessero lasciare sdegno e furore per proporsi davvero come compartecipi credibili e giungere ad una soluzione comune. Allo stato delle cose non sembra alle viste un avvicinamento o un incontro. Appaiono più probabili la determinazione della maggioranza di andare fino in fondo anche da sola e la volontà delle opposizioni di impedire qualsivoglia proposta di riforma. A questo punto, conviene arrivare alla resa dei conti popolare, con un voto referendario, che Giorgia Meloni crede fortemente a lei favorevole ma non vincolante alla sua permanenza a Palazzo Chigi.

sabato 4 novembre 2023

Intelligenza artificiale e scrittura

Non ho competenze per parlare dell’intelligenza artificiale e delle sue miracolose applicazioni e utilizzazioni. Confesso di avere idiosincrasia per tutte le strabilianti novità dei nostrissimi tempi, tranne che per tutto ciò che serve a salvare vite umane o ad alleviarne le sofferenze. Se mi offrissero gratis un viaggio nello spazio direi no grazie, preferisco farmi una passeggiata a piedi per scoprire luoghi urbani o naturali, a seconda dell’umore. Ecco, l’umore è nelle potenzialità dell’intelligenza artificiale? Ne dubito e nello stesso tempo ne sono confortato. C’è ancora dove rifugiarsi. Mi pare di aver sentito dire che fra le tante meraviglie che può fare c’è la scrittura di un testo, di un saggio, addirittura di una poesia o di un romanzo. Una cosa che così mi viene di capire: combinati i dati, come degli ingredienti per una ricetta, tanto di e tanto da, l’intelligenza artificiale ti scodella il prodotto. Si dice perfino che può scrivere una poesia alla Leopardi o alla Manzoni. Sarebbe interessante di questi tempi conoscere il pensiero di Leopardi su Fiorello e sul suo demenziale “Viva Rai Due”, il cui spot televisivo spesso segue subito dopo le macellerie di Gaza; o Manzoni dell’attuale conflitto israelo-palestinese, lui che scrisse per la causa italiana “Marzo 1821” dedicandola al poeta tedesco Koerner caduto a Lipsia contro Napoleone. Per stare nel settore giornalismo, si può ipotizzare che messi tutti i dati di una notizia di cronaca in questa sorta di frullatore intelligente, eccoti servito l’articolo. Immagino che già di suo l’arnese intelligente abbia in sé inserito il politicamente corretto. E così il giornalista che firma il pezzo è garantito da qualche involontario strafalcione lessicale in danno delle specie protette della società, che col passare degli anni aumentano sempre di più. La vasta applicazione dell’intelligenza artificiale va oltre l’immaginazione e non lascia prevedere quali possano essere tutte le ricadute positive e negative sull’uomo in quanto individuo unico e irripetibile. Non c’è dubbio, a quel che si dice, che essa potrebbe far rivivere Indro Montanelli e Oriana Fallaci, Fabrizio De Andrè e Domenico Modugno e magari Guglielmo Marconi ed Enrico Fermi. Ma quanto questi ultramoderni Frankenstein sarebbero paragonabili agli originali? Nel campo della poesia e della letteratura in genere i risultati sarebbero fallimentari, a meno che l’intelligenza artificiale non venga talmente arricchita da avere nelle sue potenzialità anche l’immaginazione e quello che i tedeschi chiamano lo Streben. Potrebbero mai i prodotti dell’intelligenza artificiale contenere nostalgia, tensione, struggimento? In verità, al netto delle mie incompetenze in materia, che tengo a ribadire, a correre seri rischi sarebbero gli uomini per così dire normali, senza alcuna particolare qualifica, i quali finirebbero per essere sostituiti in tutto e per tutto. Essi sarebbero destinati perfino a perdere le prerogative fisiche normalmente impiegate nel lavoro e nella vita di tutti i giorni. Non accadrebbe dall’oggi al domani evidentemente, ma nel prosieguo dei tempi. L’uomo d’oggi non è certo l’uomo di Neanderthal. Così l’uomo di domani, cui non è peregrino associare l’intelligenza artificiale, non sarà quello di oggi. Quanto alla scrittura va da sé che per sopravvivere al comunismo delle menti chi scrive deve cercare di puntare allo stile e al linguaggio, che sono contraddistinguibili, attribuibili alla persona specifica. Essa deve allontanarsi da tutto ciò che omologa, che appiattisce. Deve rifiutare come dannoso quello che è riproducibile da qualsiasiasi macchina. Contro l’intelligenza artificiale l’uomo deve far uscire da sé il suo quid, che lo rende unico; deve far valere la sua ironia, il suo cinismo, la sua imprevedibilità o su altro registro la sua bontà, il suo pietismo, la sua capacità di emozionare. Chiaro che ciò che appartiene troppo ad un individuo può piacere o non piacere, provoca reazioni, divide, al contrario delle regolarità che lasciano indifferenti, che si limitano ad informare in maniera asettica. Non si tratta tanto dell’essere pro o contro qualcuno o qualcosa, ma del modo come lo si è, come si descrive la propria condivisione o contrarietà; il come deve divertire o commuovere, far arrabbiare o compiacere, mai lasciare il lettore indifferente. Non si può scrivere un editoriale, un pezzo di critica come non si può scrivere una novella o un racconto, come un foglietto illustrativo di un medicinale. Non condivido quello che uno scrive, ma mi piace come lo fa, perché lascia pensare che dietro c’è l’intelligenza umana.

sabato 28 ottobre 2023

I due fronti di Giorgia

Lo dicevano all’indomani dell’ascesa al governo di Giorgia Meloni quelli del “Bar Italia”, tanto “corteggiati” da Pierluigi Bersani. Ora vedrete – dicevano – che cosa le combineranno. Qualche volta anche i clienti del “Bar Italia” vedono bene. Bisogna stare attenti a quello che dicono. Una volta si diceva vox populi vox dei. Poi è arrivato il populismo, ma in Dio non crede più nessuno. Giorgia Meloni non deve avere scampo. Lo vuole la sinistra ed ora ha incominciato a volerlo anche certa destra. Finora i suoi nemici hanno fatto percorsi obliqui, lo stesso i suoi amici-hostes. La sinistra ha tentato col padre per faccende di droga, poi con la madre per vecchi affari opachi; poi con la sorella, intrigandola in storie d’infedeltà coniugale. Ora, il bersaglio diretto. Non si sono certamente sporcati i frequentatori del “Salotto radical chic”. Lo hanno fatto i loro giornali, da “la Repubblica” a “Domani” dell’irriducibile ingegnere De Benedetti. Ora i fronti di Giorgia Meloni sono due. Un compagno, che avrebbe dovuto fare il Lancillotto del Lago per la sua regina, si è rivelato del tutto inadeguato. Ma non conta chi, come e perché è avvenuto; conta che lei sia stata colpita. La sua legittimazione democratica continua ad essere sotto i raggi X. I Fratelli d’Italia restano sospettati, spiati in ogni loro iniziativa. I loro comportamenti – mette in guardia il prof. Luciano Canfora – sono gli stessi dei loro nonni fascisti. “Non fu fascismo unicamente quello «totalitario»” ma anche quello anticapitalista con pulsioni nazionalistiche, quello del salario minimo, quello dell’assicurazione su invalidità e vecchiaia, quello della gestione proletaria delle aziende, quello condiviso dalle forze conservatrici e popolari, tutte cose che “possono riproporsi sia pure coi necessari aggiustamenti che discendono dal mutare del costume e del linguaggio” (Il fascismo multiforme, Corsera del 23 ottobre). Se così stanno le cose i signori sconfitti, dal Pd al M5S ed appendici varie, hanno incominciato da un anno la resistenza, per ora con la lettera minuscola. Alla nuova guerra di “liberazione” ora si è aggiunta una parte della stessa destra, la più spregiudicata, quella delle banche e del capitale, che dispone di potenti mezzi di comunicazione di massa. La vicenda che ha portato Giorgia Meloni a prendere tempestivamente una decisione drastica nei confronti del “compagno” è solo l’apparente gossip di cui si titillano i Ricci, ma dietro c’è ben altro. C’è che i Berlusconi, che ufficialmente dicono che non hanno nessuna voglia di entrare in politica, di fatto si stanno muovendo per far esplodere all’interno del centrodestra vecchi contrasti e rancori, al termine dei quali la componente oggi leader, Fratelli d’Italia, perda il suo ruolo a favore di Forza Italia, il partito che ha servito Berlusconi e che ora si vuole che riprenda a servire i suoi eredi. Davvero si vuol far credere che “Striscia la notizia” è l’evento naturale non prevedibile e non evitabile? Un castigo di Dio? Si dipinge Ricci come il fato, nei confronti del quale neppure Giove padre degli dei poteva far niente. In realtà dietro di lui c’è la mano di chi ha avuto l’interesse di lanciare un messaggio. Che poi ha tenuto a farlo sapere. Perché se no che gusto c’è? L’excusatio non petita di Marina Berlusconi ha solo confermato l’accusatio manifesta. Banche e capitali in Italia hanno fatto sempre affari con la sinistra. Questa destra non è altrettanto affidabile. Ogni tanto c’è qualche colpo di testa, come tassare le banche per gli extraprofitti, come far accedere l’Agenzia delle Entrate ai conti correnti dei cittadini debitori. Poi ci sono le retromarce, d’accordo, ma intanto i colpi di freddo lasciano il segno. E allora meglio destabilizzarla. Oggi agiscono al suo interno più forze centrifughe che centripete. La Lega vuole recuperare il vantaggio che aveva su Fratelli d’Italia. Forza Italia vuole “vendicare” Berlusconi, per interposti soggetti, infliggendo alla Meloni mortificazioni che non dovrebbero mai riguardare la sfera privata. Non aveva detto che lei non era ricattabile? Eccola servita. Per ora Fratelli d’Italia sta rispondendo senza denunciare particolari cedimenti. Ma la partita è solo entrata da poco nel vivo. I giornali continuano a dedicare ogni giorno pagine e pagine al caso “Giambruno”; i talk continuano a parlarne lasciando credere che la storia continua come nei vecchi feulleiton. Se i Fratelli d’Italia si lasciano prendere da spirito di vendetta la crisi potrebbe raggiungere il punto di non ritorno. E allora, altro che questione israelo-palestinese.

martedì 24 ottobre 2023

Don Renato Attanasio, un prete che declinò il sacerdozio con la cittadinanza

Don Renato Attanasio è morto il 13 ottobre 2023, all’età di 81 anni. È tornato nella sua Ruffano il pomeriggio di sabato, 14 ottobre, mestamente accompagnato dal sindaco di Taurisano Luigi Guidano in rappresentanza e da altri suoi amici e parrocchiani. Un viaggio che forse non avrebbe voluto fare, sentendosi ormai taurisanese anche dopo la morte. Forse Taurisano non ha saputo riservargli una giusta e completa cittadinanza. È stato a Taurisano più di cinquant’anni, gran parte dei quali da arciprete. Arrivò nella sua nuova destinazione venticinquenne. Era il 1967. All’epoca c’era una sola parrocchia, quella della Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo, con la chiesa madre in Piazza Castello, al centro del paese. Era arciprete don Ugo Schimera, un sacerdote colto e molto partecipe alla vita culturale, un modello di prete che perpetuava la figura della massima autorità religiosa con una chiara e consapevole funzione sociale. Chi lo aveva preceduto, don Antonio De Vitis, non era stato da meno, chiamato alla Curia per incarichi importanti fino al vicariato generale sotto tre vescovi: Ruotolo, Mincuzzi e Miglietta. Don De Vitis e don Schimera erano figure di preti che marcavano una certa distanza sociale e incutevano autorevolezza e rispetto, decisamente di altri tempi. Porsi come erede di due sacerdoti così importanti non fu né difficile né facile per don Renato, poiché lui aveva una personalità tutta sua, senza spigoli e disposta all’incontro. Da viceparroco, si distinse subito per il suo carattere, per il suo porsi gioviale, per il suo essere alla mano, senza alcuna pretesa di rappresentare un’autorità né di saperne una più degli altri, retaggio secolare dei preti, a cui la chiesa di una volta affidava il compito di vigilare su chi si allontanava dalla dottrina. E sì che erano anni difficili e turbolenti, con la Contestazione, il Sessantotto, il Terrorismo, le Stragi, parole a cui dare la maiuscola nella circostanza è d’obbligo perché rappresentarono per anni dei fenomeni sociali connotativi del tempo. La società era lacerata da scontri su problematiche altamente divisive come il divorzio e l’aborto, in cui il cristiano si sentiva posto drammaticamente di fronte a se stesso. I giovani la facevano da protagonisti, pronti a dividersi su tutto. Don Renato seppe attraversare la bufera senza fare slalom tra le posizioni ma procedendo diritto con quella sua innata bonomia a comprendere tutti, coniugando con parole ed opere le virtù teologali: fede speranza carità. La fede al di sopra delle divisioni, la speranza di superare i momenti di difficoltà, la carità aiutando i bisognosi, che a lui si rivolgevano in numero e frequenza. Non che non avesse una qualche inclinazione politica, lui che veniva da una famiglia di misurato benessere, ma seppe gestirla attento a non sembrare di parte, come il ruolo imponeva. Don Renato rappresentò subito una novità e non solo per la sua età. Egli non usciva dalla chiesa per andare verso la società come i suoi predecessori, ma, al contrario, usciva dalla società per entrare in chiesa. Ma non fu mai un prete di strada, che però lui non giudicava, conscio di avere un compito più alto e più esteso. Legò subito coi giovani dell’Azione Cattolica, mediò spesso tra le confraternite sempre litigiose, si diede da fare per portare a termine l’Oratorio don Bosco, a cui tanto si era prodigato un altro parroco di Taurisano, don Vito Tonti, fin dalla prima metà del Novecento. Don Renato lo si vedeva fare perfino il manovale o il contadino nell’oratorio, curvo col badile a diserbare o a rimuovere il terreno. Lo si vedeva fare i ricci al mare, giocare a tennis nel campetto da lui stesso realizzato con la collaborazione dei suoi giovani amici. Voleva essere e sembrare allo stesso tempo un uomo tra uomini, un giovane tra i giovani. Anche per questo vestiva alla laica ma con pantaloni e maglione o maglietta rigorosamente scuri. Quando nel 1981 divenne parroco e arciprete il paese era molto cambiato. C’era un’altra parrocchia ed altre ne sarebbero state istituite. L’abitato si era esteso alle periferie, la chiesa doveva seguire i fedeli. Non era solo una questione fisica, occorreva seguire le persone che dopo gli anni delle turbolenze sociali si erano come staccate, andate verso le periferie perfino dei valori, verso l’indifferenza. In fondo la chiesa aveva sempre fatto questo, intorno a lei erano sorti paesi e città, ma là dove c’era una comunità la chiesa non poteva non raggiungerla con la sua presenza fisica. Questo fece perdere all’arciprete la sua centralità cittadina. Ma don Renato è rimasto per tutto il tempo del suo sacerdozio un riferimento per tutto il paese. Quando l’11 marzo 2017 è ricorso il suo cinquantesimo anno di sacerdozio, già minato dal male che lo avrebbe portato alla tomba, ebbe il grande privilegio di ricevere gli auguri da papa Francesco in una breve ma intensa telefonata, nel corso della quale si impegnarono entrambi a pregare l’uno per l’altro. In una intervista rilasciata ad Antonio Sanfrancesco per “Presenza Taurisanese” di giugno-luglio 2017, don Renato disse espressamente: “Sono taurisanese d’elezione, qui ho vissuto tutta la mia vita e qui spero di restare anche dopo la morte”. Le sue spoglie mortali hanno fatto ritorno al suo paese di nascita, perché così hanno voluto gli altri. Quelle spirituali sono dove la gente l’ha conosciuto e amato e dove lui aveva scelto di restare.

sabato 21 ottobre 2023

Salario minimo e lauti guadagni

Le opposizioni, col salario minimo, hanno trovato la matta, la carta che nel gioco consente a chi ne è venuto in possesso di attribuirle il valore che vuole, con buone probabilità di vincere la partita. Chi non è d’accordo col salario minimo!? Perfino a destra, stando ai sondaggi, lo vogliono. Non tutti i sindacati, però, sono d’accordo e il Cnel, che è un organo previsto dalla Costituzione e che ha voce in capitolo, ha espresso parere contrario. Siccome non siamo nati ieri e calziamo scarpe di avanzata età ammettiamo che il Cnel, diretto oggi dall’ex Forza Italia Renato Brunetta, non ha voluto dispiacere alla casa madre che in quel posto lo ha collocato graziosamente. Poi dicono che in politica non c’è gratitudine! Anche noi, che di economia e lavoro non possiamo dirci esperti, a naso siamo a favore. È una questione che esula da ogni competenza in materia. Come si fa a non riconoscere ad una persona il diritto di essere retribuita in maniera dignitosa, senza essere offesa con una retribuzione di fame? Avrebbero dovuto introdurlo e non da ora, da quando gli attuali alfieri che gridano “Deo lo vult” erano al governo, or non è molto tempo fa. Ma in Italia non ci sono solo i poveri, tali riconosciuti, a cui non si vuole garantire un salario minimo, ci sono tantissimi altri cittadini che vivono di stipendio e di pensione, che percepiscono un reddito fisso, che sono penalizzati quotidianamente non solo dall’inflazione ma anche dalla esosità delle richieste di talune categorie di lavoratori autonomi a cui si rivolgono per lavori di manutenzione della casa che occasionalmente o periodicamente vanno fatti. Questi cittadini, che possono ben dirsi “nuovi poveri”, sono vessati da queste categorie. È una questione di cui nessuno parla: quanto guadagnano al giorno i titolari di piccole imprese artigianali: intonacatori, tinteggiatori, impiantisti e via elencando. La giornata lavorativa può raggiungere anche trecento Euro, il più delle volte senza rilascio di fattura, che al cittadino datore di lavoro peraltro costerebbe il 22% di Iva e perciò rifiutata perché senza nessuna ricaduta di sgravio fiscale. Le cifre che queste categorie di lavoratori autonomi chiedono arrivano al cittadino come schiaffi in faccia, che lo fanno sentire un pezzente per di più rimbambito. A volte per un lavoro di due-tre giorni chiedono quanto il cittadino percepisce di stipendio in un mese e alla richiesta di razionalizzare e dettagliare la cifra, giusto per capire, la risposta è secca: si valuta il lavoro senza scendere al dettaglio del tempo impiegato e del costo dei materiali impiegati. Sembrerebbe una questione da niente. Non è così. I poveri professionisti a reddito fisso non possono essere svillaneggiati da richieste esose per dei lavori che onestamente costano un quarto o un quinto di quanto viene loro richiesto. Si può eccepire che è il mercato che comanda in un paese libero. Ma è lo Stato, che voglia considerarsi sociale, che come non può consentire salari di fame così non dovrebbe permettere guadagni ingiustificati da vincite al lotto a danno di altri cittadini. La Presidente Meloni ripete spesso che i suoi interventi mirano a tutelare imprese e famiglie, dando ad intendere che ci siano imprese e famiglie in difficoltà. Certamente ci sono. Lasciamo stare le famiglie, le quali non è mai troppo giusto soccorrerle quando veramente hanno bisogno. Ma le imprese? Esse, specialmente le piccole, quelle formate da tre-quattro persone, mentre infieriscono sui cittadini con le loro richieste inaccettabili, sfuggono a qualsiasi controllo, compreso quello del fisco. Molte entrate, prive di fattura, contribuiscono a giungere a redditi elevati ed elevatissimi, mentre i beneficiari dichiarano redditi di poche migliaia di Euro. Va bene, allora, battersi per il salario minimo ma è altrettanto importante battersi per guadagni contenuti da ragionevolezza dei prestatori d’opera e da disponibilità di mezzi da parte dei cittadini. Non si può lasciare il mercato del lavoro autonomo senza leggi che ne calmierino i costi. Oggi nella nostra società ci sono ceti lavorativi che conducono un tenore di vita importante, hanno doppia e a volte tripla casa, hanno due-tre automobili, a volte di grossa cilindrata, si fanno le crociere. Evviva il benessere! Ma tutto questo non può accadere a danno di altri ceti che non trovano chi li difenda dalla voracità di un mercato selvaggio e dalla disattenzione dello Stato. Occorre che esso trovi il modo di creare tra i cittadini un giusto equilibrio, che è anche rispetto sociale e orgoglio di appartenere allo stesso Paese. Cosa ci vorrebbe? Leggi e controlli!

sabato 14 ottobre 2023

Israle, la difficile posizione

La guerra israeliano-palestinese, riesplosa sabato 7 ottobre, pone la comunità internazionale di fronte ad una difficile posizione. E ciò a prescindere dall’orrore delle nefandezze dei palestinesi compiute ai danni di civili israeliani, bambini giovani anziani, sui quali si sono abbattuti come una valanga travolgente e improvvisa che a noi italiani ha ricordato quella del Vajont, di cui, in quegli stessi giorni si ricordavano i sessant’anni decorsi. Una furia selvaggia, biblica, di cui solo la natura è capace, lei sola priva di anima, di cervello, di cuore, come se rispondesse ad un dio in collera. I testimoni che hanno potuto riferire quanto accaduto hanno parlato di inaudita ferocia, di allegra mattanza, compiuta in stato di eccitazione tribale. Nell’immediatezza non si può che esprimere una condanna netta e illimitata, non si può pensare che ad una punizione meccanica, a cui Israele ci ha da sempre abituati. La qualcosa significa stragi di uomini, donne, anziani e bambini palestinesi, diversamente trucidati, come l’assedio posto in essere dagli israeliani a Gaza fa pensare. Ma se pure fosse non sarebbe la soluzione di un problema che la storia ci dice non avere soluzione. Una mattanza dopo l’altra. L’ennesima tappa barbarica verso un traguardo civile irraggiungibile. I palestinesi vogliono la loro terra, che è la stessa rivendicata dagli israeliani. Per i palestinesi gli israeliani sono degli invasori. In altre epoche noi italiani abbiamo combattuto per la liberazione di interi territori dal dominio straniero. Noi abbiamo in Garibaldi il simbolo delle nostre rivendicazioni nazionali, abbiamo in poeti e scrittori di alto profilo formativo i nostri profeti, Foscolo e Manzoni su tutti. Pur negletti di questi tempi essi ci consentono di scorgere sotto la scorza di indifferenza una ragione che riemerge di fronte all’esplosione delle grandi tragedie nazionali. È per questo che noi italiani, pur inorridendo davanti alle stragi compiute dai palestinesi, avvertiamo dentro qualcosa che ci obbliga a pensare, ad uscire dalla meccanica dei gesti e dei sentimenti. Non possiamo pensare che quello che andava bene per noi, il risorgimento, non vada bene anche per gli altri, negarlo agli altri. Sappiamo che non è così semplice. Ogni situazione ha una sua specificità e quella israeliano-palestinese è emblematica nella sua unicità. La tragedia tra i due popoli è inevitabile perché entrambi hanno ragione. Ed è fallito perfino il tentativo di fare salomonicamente in due il territorio per assegnarne le parti ai due popoli. Il palestinese non riconosce Israele e ne vuole la distruzione, l’israeliano attenta continuamente alla territorialità palestinese con insediamenti e tiene divisi i palestinesi di Gaza dalla Cisgiordania, rendendo difficile con restrizioni la libera circolazione. Per capire: è come se noi italiani del Sud dovessimo attraversare il territorio di uno stato straniero per raggiungere gli italiani del Nord. Una situazione asimmetrica che vede Israele, potenza nucleare, protetta dal mondo occidentale, da una parte e dall’altra una Palestina rabberciata e chiusa in una parte dei suoi confini, che però trova nel mondo arabo una spalla. Questa situazione peggiora anziché agevolare una via d’uscita, perché potrebbe significare una guerra con coinvolgimenti mondiali. E tuttavia non c’è soluzione che nel dare ai due popoli condizioni di vivibilità nella sicurezza, attraverso una sistemazione territoriale che renda ognuno sovrano nel proprio territorio. In alternativa non c’è che l’eliminazione di uno dei due contendenti, che però porterebbe a ben più gravi e durature conseguenze. L’ultimo attacco dei palestinesi, proditorio e disumano, oltre ogni mostruosa immaginazione, purtroppo allontana qualsiasi tentativo di giungere a breve termine ad una ricomposizione delle parti. Le attuali leadership dei due paesi non lasciano ben sperare. Da una parte il terrorismo dall’altra l’inevitabile risposta dell’occhio per occhio, dente per dente. La politica adottata da Netanyahu, criticata anche da molta stampa israeliana, è in qualche modo responsabile della condotta di Hamas. Israele è Israele, ha in sé la risposta da dare come una sentenza irrevocabile. Ma finché ai palestinesi non si lascia che il terrorismo per farsi le proprie ragioni e agli israeliani la logica della vendetta per farsi le loro la situazione resterà critica per sempre e può essere, una volta o l’altra, causa di ben peggiori conseguenze sul piano mondiale. Ecco perché della questione dovrebbero occuparsi le organizzazioni internazionali di sicurezza. Ma per davvero!

domenica 8 ottobre 2023

La scuola e la dignità degli insegnanti

Lo diceva Aristotele: nomina sunt consequentia rerum. I nomi conseguono alle cose. Sarà stato anche per questo che per secoli e secoli le cose sono state chiamate coi loro nomi. È una questione di comunicazione. Oggi si tende a cancellare anche questa verità. Così quella che una volta si chiamava delinquenza minorile oggi si chiama bullismo. Si parte dal presupposto che un minore non possa delinquere, proprio perché minore. Quella che prima si chiamava pena oggi si chiama rieducazione, comunque niente di afflittivo, perché l’afflizione non educa ma incattivisce la persona. Qui il discorso diventa più complicato perché ripropone l’antico dilemma: si rieduca con la punizione o con la persuasione? I due ragazzi che in una nostra scuola hanno sparato al loro professore di Diritto con una pistola ad aria compressa sono stati “puniti” con quattordici giorni di sospensione e cinque in condotta. Una punizione che può tradursi in niente, perché la sospensione è un non frequentare la scuola e per dei ragazzi che sparano ai loro professori è un mezzo premio mentre il cinque in condotta è ipotetico. Le nuove disposizioni infatti lo prevedono non sulla base di un episodio ma su tutto il comportamento dell’alunno nel corso del quadrimestre o dell’anno intero. Se i due ragazzi non daranno adito ad altri provvedimenti “rieducativi” riscuoteranno a fine anno il loro bell’otto o nove in condotta. A poco vale sostenere che l’atto dei due ragazzi è dovuto alla voglia smodata di esibizione, di far parlare gli altri di sé, di uscire dall’anonimato in un modo qualsiasi, meglio se in maniera clamorosa. L’importante è che gli altri ne parlino. Va da sé che chi non può o non sa far parlare bene di sé può senz’altro far parlare male, che è cosa assai più facile e alla portata di tutti. Fin qui l’alunno. E il professore? Sembra che per uno stipendio da fame, addirittura umiliante se paragonato a quello che guadagna un qualsiasi artigiano, il professore debba esporsi a tutti gli insulti e le vessazioni dei ragazzi, fino a subire veri e propri attacchi fisici o da loro o dai loro genitori. Il professore, quando la pena era pena, era rispettato, almeno formalmente. Se voleva sapere che pensassero i suoi alunni di lui poteva solo chiederlo alle pareti dei bagni, dove fra epigrammi e vignette scopriva quanto fosse amato e stimato. Oggi sembra che il professore non abbia più una sua dignità, non abbia più diritti, che nel suo stipendio da fame e umiliante siano compresi anche gli insulti e gli attacchi pubblici. È stato detto che il professore di Diritto vittima del bullismo di due suoi alunni sbagliava a chiedere l’espulsione degli stessi e alla fine ha rinunciato perfino a ricorrere alla giustizia ordinaria. Tutti in Italia lo possono fare, tranne l’insegnante, che, per essere un educatore, per come oggi si intende questa figura, deve avere nei confronti dei suoi educandi una disposizione senza limiti a subire di tutto. Sfregi alla sua auto, ingiurie scritte a caratteri cubitali sulle pareti della sua scuola, sberleffi in classe, pareti di bagni trasferite sui social, se occorre perfino mazzate dai genitori dei suoi alunni. E lui, niente: non può, non deve, non vuole. Si dice: non è opportuno. E perché? Perché un insegnante deve dare l’esempio. Nel momento in cui diventa un insegnante finisce di essere un cittadino come tutti gli altri, di avere una sua dignità, per dare l’esempio. Ma di che? Di non smettere mai di dimostrare che l’educazione è sempre e soltanto fatta di clemenza, di comprensione, di persuasione. Sembra quasi che un buon insegnante è quello che passa attraverso esempi di rinuncia a difendersi, di ambire quasi ad essere preso a pubbliche umiliazioni per dimostrare di essere un educatore di vaglia, uno che rinuncia a rivalersi. Non è scritto da nessuna parte, ma è universalmente accettato che tra alunno e professore c’è una presunzione di ragione sempre in favore dell’alunno. E se pure questi commette un atto di delinquenza o come si dice di bullismo nei suoi confronti, deve essere sempre capito, perché lui ha il diritto di essere educato e tu, professore, il dovere di educarlo. In una società in cui contano il potere e il successo in ogni loro forma o declinazione l’insegnante è l’unica figura di cittadino che deve presentarsi come l’elogio della debolezza e della frustrazione. Non si creda che i casi di bullismo come lo sparare al professore in fin dei conti sono rarità. La vita dell’insegnante, nella sua routine è spesso un far finta di non vedere, di non sentire per non dover parlare, per il quieto vivere. Non è così tutta la scuola, per fortuna; ma è anche così la scuola!

sabato 30 settembre 2023

Ma commuoversi è di destra o di sinistra?

Va a finire che il generale Vannacci diventa proverbiale e va ad associarsi ad altri ben più illustri che hanno detto che il mondo va alla rovescia. Torquato Tasso definiva il mondo una gabbia di matti. Non diversamente Vanini. Due autori che vivevano la crisi del rinascimento e sentivano le stravaganze del barocco. E noi? Noi ci dobbiamo uniformare. Non ci resta altro da fare. Niente sforzi, del resto; anche noi siamo in una sorta di barocco politico e culturale fino alla gola, anche noi viviamo una crisi di valori senza precedenti. E che sono se non gabbie di matti gli studi televisivi dove tutte le sere si azzuffano senza ritegno giornalisti e intellettuali, politici e gente comune sui più svariati temi del giorno? Perfino politici seri e composti sono diventati personaggi da circo equestre, che cercano di affogare gli avversari nella gora dei loro sbraiti. È bastato un innocuo spot pubblicitario, con una bambina che cerca di rimettere insieme i genitori separati con un ingenuo atto d’amore, ben fatto come spesso accade ad alcune pubblicità, per scatenare polemiche e dibattiti. Ma invece di apprezzare la positività del messaggio e la sua bellezza propositiva, la bravura del regista e degli autori che lo hanno realizzato, l’hanno messa sull’essere di destra e l’essere di sinistra, chi esce meglio dallo spot la donna o l’uomo, fino ad arrivare a sostenere che la bambina è più vicina al padre più affettuoso che alla madre più severa. A dibattito aperto è intervenuta perfino la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che lo ha definito per quello che è: bello e toccante. Apriti cielo! La dimostrazione che è uno spot di destra, hanno gridato a sinistra, accreditando l’idea che ci siano spot di destra e spot di sinistra. Questa ci mancava! Siamo tornati alla doccia e alla vasca per stabilire se l’uso dell’una o dell’altra per lavarsi è di destra o di sinistra. Come si chiedeva Giorgio Gaber qualche anno fa. Qualcuno, a sinistra sempre, si è spinto fino a dire che quello spot è un’entrata a gamba tesa, una sgrammaticatura, una cosa che non si fa. Bisogna subito correre ai ripari con un bello spot pubblicitario di sinistra per pareggiare i conti. Sembra che a sinistra non abbiano altro da fare che cercare il pelo nell’uovo per denunciare le sgrammaticature degli esponenti di destra, che, a dire il vero non si fanno pregare nell’elargire campioni di spropositi. Torniamo nella normalità se ci riesce. Lo spot della pesca, come lo chiamano, è bello perché “vero”, perché non c’è bambino o bambina che non soffra quando i genitori si separano. È l’occasione che fa riflettere quanti si trovano nelle condizioni di separati sul male che fanno ai figli, specialmente se piccoli, sulle loro sofferenze. I bambini considerano la separazione dei genitori come un’ingiustizia, una condanna che non sanno da dove provenga e perché. Sempre meglio che assistere a scenate, litigi e zuffe, si obietta. I bambini crescono meglio coi genitori separati piuttosto che coi genitori uniti ma in continue violenze domestiche. È una materia delicata e complessa, probabilmente non ci sono formule risolutrici. Certo, se come oggi purtroppo accade sempre più spesso, le liti si traformano in fatti di sangue, è preferibile la separazione; ma se le separazioni avvengono ai primi dissensi, anche questo purtroppo accade sempre più spesso, allora si commette un’ingiustizia nei confronti dei figli, i quali, piaccia o non piaccia a destra o a sinistra, hanno bisogno di entrambi i genitori. Di più quando sono bambini, che sentono i genitori come beni di loro esclusivo possesso e non concepiscono che il papà o la mamma si allontanino o che qualcuno se li prenda. Purtroppo viviamo una stagione di stravaganze, di eccessi, di rovesciamenti concettuali. L’ideologismo mette il naso dappertutto. Il buonsenso è negativo, è da evitare, specialmente se mette in discussione gli assiomi di una certa cultura. Abbiamo smarrito il senso delle cose, per cui una ovvietà come la raccomandazione di un genitore alla figlia o al figlio che la sera esce di casa di riguardarsi per non incappare in qualche guaio diventa una cosa negativa. La dicotomia tra il sentimento protettivo di un figlio e l’obbedienza ideologica ad un principio, in privato pende sul bene del figlio, in pubblico sul totem dell’ideologia. La storia non ha insegnato nulla. L’illuminismo diceva tre secoli fa che siamo tutti uguali. Ancora oggi siamo alle prese con le diseguaglianze, ma intanto continuiamo a dire che siamo tutti uguali, anzi ne siamo più convinti, mentre tra l’essere e il credere di essere c’è la realtà delle cose.

sabato 23 settembre 2023

Putin e il tentato femminicidio dell'Ucraina

Non sono più i tempi all’Onu di Nikita Kruscev, quando il leader russo per protesta sbatteva la scarpa sul tavolo. Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a Washington, giorni fa, i due antagonisti più antagonisti di oggi, il russo ministro degli esteri Sergej Lavrov e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky hanno preferito ignorarsi. Quando uno parlava, l’altro non c’era. Ed entrambi le scarpe se le sono tenute ben allacciate ai piedi. Ovviamente si sono lanciate reciproche accuse, che conosciamo da più di un anno, da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Gli altri a tifare, chi per l’uno e chi per l’altro e chi in attesa che prima o poi qualcosa di decisivo accada. La Russia, invadendo l’Ucraina, ha commesso un crimine e un errore. Un crimine perché è lampante la sua azione delittuosa. L’Ucraina, che nel 1994 (Memorandum di Budapest) aveva rinunciato al nucleare per essere garantita anche dalla Russia in caso di bisogno, è stata aggredita proprio dalla Russia. Una sorta di femminicidio a livello planetario. A un certo punto l’Ucraina non ne ha voluto sapere più di stare con Putin per avere più stretti e proficui rapporti con l’Europa e la Nato. E Putin che ha fatto? L’ha “accoltellata”. È così lapalissiana la situazione che non si capisce come anche nel nostro Paese ci sia chi tiene per la Russia, anche se non lo dice esplicitamente. Si pensi all’ultimo messaggio lanciato da papa Francesco ai giovani russi a Sanpietroburgo, in cui faceva l’elogio della grande madre Russia maestra di civiltà. Si pensi ai pacifisti, quasi mai pacieri, i quali intervengono tra i due contendenti e più che tenere fermo l’aggressore vorrebbero tenere fermo l’aggredito. Così fanno i Cinquestelle e i loro amici della stampa e dell’intellighenzia. Ma è stato anche un errore, come si diceva, perché tutti i piani russi di fare in quattro e quattr’otto polpette dell’Ucraina sono saltati, un po’ per la resistenza eroica del popolo ucraino e molto per l’aiuto che all’Ucraina è stato fornito dall’Occidente, europeo e americano. L’aggressione russa che voleva tenere lontano dalla Nato un suo confinante ha sortito l’effetto opposto, l’ha maggiormente avvicinato. Non solo, ma due paesi storicamente neutrali, come Svezia e Finlandia, si sono spaventati e hanno chiesto di entrare nella Nato, facendo crescere il numero dei paesi vicini e confinanti con la Russia, che Putin considera “assedianti” del suo Paese. Putin si è infilato in un tunnel dal quale gli costerà molto uscire. Se dovesse riuscire, abbandonando ogni parte di territorio ucraino occupato come gli ucraini costantemente dicono, sarebbe per lui il meno danno possibile. Esito, questo, piuttosto remoto. Come remoto appare che gli ucraini rinuncino a parte del loro territorio. Perdere dei territori rivendicati come propri ci può pure stare, ma perdere perfino la faccia no. Ovvio che si ragiona sul presente e su ciò che si vede e si sente; il che non basta a capire e meno ancora a prevedere come andrà a finire. Purtroppo la situazione va sempre più complicandosi a danno anche del fronte antirusso. La Polonia ha detto di non avere più armi da dare all’Ucraina, che quelle che ha servono a lei. Al momento non si sa che cosa accadrà negli Stati Uniti alle prossime elezioni presidenziali. Potrebbe essere eletto nuovamente Trump, che, come si sa, non è affatto ostile a Mosca come lo sono Biden e i suoi alleati europei. Ma anche in Europa molte cose potrebbero cambiare e alterare l’attuale schieramento in favore dell’Ucraina. L’Europa ha tutto da perdere da questa guerra. Le critiche interne ai vari paesi europei potrebbero prendere il sopravvento. Perfino in Italia potrebbe crescere il fronte pro Putin, non tanto perché i “putiniani” italiani gli riconoscono qualche ragione, ma perché, essendo il russo più forte, pensano che possa dipendere da lui la fine delle ostilità. A nessuno in Europa dispiacerebbe che la guerra finisse con dei compromessi fra i due contendenti. Al momento, perciò, il protrarsi del conflitto gioca in favore di Putin, che potrebbe sperare in un cambiamento delle geografie politiche. La pace, da tutti invocata, ma da nessuno perseguita, è assai lontana dall’orizzonte. Finora solo parole, mentre le parti in causa sono più radicalizzate di quanto non lo fossero agli inizi, perché un anno e passa di guerra ha avvelenato ancor più gli animi.

sabato 16 settembre 2023

Perché negro e non nero

Lunedì sera, 11 settembre, su La 7, dopo la pausa estiva, è tornata la Gruber col suo “Otto e mezzo”. Per l’occasione la conduttrice sudtirolese – lei ci tiene che si sappiano le sue origini etniche – aveva messo in campo i pezzi forti del suo team: Pierluigi Bersani e Giovanni Floris, campioni da sempre dell’antiberlusconismo, dell’antimelonismo, dell’antidestra. A reggere il confronto Alessandro Giuli, un perfetto gentlemen della destra più raffinata, uno che si fa tagliare la lingua piuttosto che offendere l’altro. Li vedremo e sentiremo chissà quante altre volte ancora nel corso della nuova stagione discettare su tutto lo scibile umano, con la presenza di tanto in tanto del filosofo scompigliatore Massimo Cacciari e del puntuto collega Italo Bocchino. Bersani, formidabile inventore di metafore, sosteneva che un “negro” va chiamato nero e non negro, per il rispetto che gli si deve in quanto persona umana, perché negro è offensivo e significa schiavo, dato che i negri negli Stati Uniti d’America per un periodo della loro storia sono stati schiavi. Mi permetto di dissentire. Anzitutto la comunicazione deve rispondere a criteri oggettivi di immediatezza ed economicità. Per questo non bisogna usare parole dai significati molteplici o generici ma quelle che hanno un significato preciso, unico o prevalente. Si chiama proprietà di linguaggio. Se uno va a comprare dei piselli non si rivolge al bottegaio chiedendogli dei legumi o ancor più genericamente qualcosa da mangiare ma gli chiede dei piselli e se di questi ci sono più varietà ne indica il nome con una sola parola. Per indicare una persona di colore si dice perciò negro o negra e non nero o nera. Con negro si indica una persona, con nero si indica un colore. Ridurre una persona al solo colore della sua pelle è davvero come svilirla, deprivarla della sua dimensione umana e della sua storia. Che nei tempi di un popolo ci siano periodi negativi e periodi positivi, fortunati e sfortunati, è ovvio. Gli ebrei lo insegnano con la loro storia millenaria, ora schiavi degli egizi ora signori in casa propria e nel mondo. Un popolo che si rispetti si assume la responsabilità di tutto né si vergogna di qualcosa mentre s’inorgoglisce per altre. Una persona va indicata con tutto ciò che essa rappresenta. Se si omette deliberatamente qualcosa si commette un errore di occultamento di significato. Un negro chiamato nero è una persona senza identità, senza storia. La parola negro secondo il vocabolario Treccani deriva dal latino niger ed è così definita: “Che appartiene alle popolazioni nere, viventi per lo più in Africa e in poche regioni dell’Asia”. Fig. “Schiavo, con riferimento alle condizioni di schiavitù cui furono sottoposti molti africani soprattutto in America e in Africa”. Sin. nero. Significa che se si preferisce chiamare nero un negro si usa il sinonimo al posto del nome suo proprio. Il che non è opportuno. Restano le considerazioni sui derivati della parola, per cui negretto o negretta diventerebbero neretto e neretta. Si obietta che si potrebbe dire bambino nero e bambina nera. Ma in questo caso si spendono due parole invece di una, che è contro il principio dell’economicità comunicativa. Ma perché tutto questo battagliare su una parola che non ha niente di particolare rispetto ad altre? Perché – dicono i sostenitori dei neri e non dei negri – il politicamente corretto lo esige. La parola ha in sé qualcosa di offensivo, potendo appunto significare schiavo. Si sa che questa parola è entrata, sempre con significato negativo, in tanti modi di dire, fra cui lavorare come un negro. Negli ambienti letterari il negro è chi scrive un testo al posto di chi poi se ne dice autore. Insomma uno che lavora a beneficio di un altro. Tutto questo è vero, ma non basta o non c’entra a far cambiare la lingua. È di tutta evidenza che uno non può rivolgersi direttamente ad un negro dicendogli “ehi negro”. Questa sì che sarebbe offesa, ma altrettanto offensivo sarebbe dire “ehi, italiano” o “ehi, tedesco”, specialmente se lo si pronuncia con tono perentorio o allusivo a qualcosa di negativo. Va da sé che ad una persona ci si rivolge sempre gentilmente chiamandola signore o signora, siano essi neri o bianchi, gialli o rossi. Quanto ai negri, si ha il sospetto che chiamandoli neri si voglia solo riconoscere un avanzamento sociale nella non ancora del tutto risolta questione razziale. Tanto accade – e la parola negro non è il solo caso – perché i politici vogliono piegare tutto alle loro ideologie. E non si tirano indietro neppure nel dare i numeri a Pitagora o i triangoli a Euclide.

sabato 9 settembre 2023

L'offensiva anticriminosa del governo e il signor Benaltro

Di fronte all’ampliarsi e all’aggravarsi della delinquenza e della criminalità un governo di destra che si rispetti non può rispondere che con una offensiva forte e intimidatoria. Così ha fatto il governo Meloni, mettendo in campo in Campania e in Calabria centinaia di uomini dei Carabinieri, della Polizia e della Guardia di Finanza. Ed ha promesso, per bocca del suo ministro degli Interni Piantedosi, che altrettanto farà non episodicamente ma sistematicamente in tutto il territorio nazionale. Lo scopo è di rendere vivibili le periferie di molte nostre città e alcuni luoghi delle stesse, come le stazioni e i porti, ricettacoli tradizionali di ogni genere di reati; far sì che il cittadino possa circolare senza il rischio di correre dei pericoli. I risultati sul piano materiale non sono stati eccezionali: pochi arresti, pochi sequestri, modesta quantità di roba recuperata tra droga e denaro. Si ha il sospetto che gli “interessati” lo sapessero e si fossero preparati all’occorrenza. Cosa non improbabile. Le guerre non si vincono e non si perdono solo sul campo. Si potrebbe dire scespirianamente “tanto rumore per nulla”. Ma non è così. I risultati si sono visti e comunque gli effetti che seguiranno potrebbero essere ben più importanti. Certo, se tutto dovesse esaurirsi a Caivano, sarebbe il solito buco nell’acqua. L’azione del governo, perciò, non si è esaurita manu militari, è andata oltre con un decreto legge che prende di petto la delinquenza minorile e la violenza sulle donne e ha fatto uscire in campo studiosi ed esperti che hanno condannato il buonismo e il perdonismo, di che sono impregnate molte nostre leggi e soprattutto le sentenze dei giudici, che, come spesso accade in Italia non smettono di sorprendere per la loro sconcertante remissività. L’effetto più importante è creare nel Paese un nuovo pensiero comune che renda sempre vigile l’azione dello Stato in ogni sua ramificazione. Un periodo lungo di durata di politica interventista potrebbe far maturare nei cittadini una sensibilità nuova, quella di sentirsi partecipi dell’azione dello Stato, come accade in gran parte dei paesi europei. Dove un cittadino una mala azione non la compie perché teme che un poliziotto lo sorprenda ma per la forza del poliziotto che ha in sé, come parte integrante della sua etica. Chi gli impedisce di delinquere è quella voce di legalità che gli parla dentro. Le opposizioni, in verità, questa volta non hanno emulato le oche del Campidoglio, pur di fronte a provvedimenti legislativi seri e pesanti. Tuttavia se ne sono uscite con le solite considerazioni: le misure del governo non risolvono i problemi, non bastano, ci vuole ben altro. È venuto fuori il solito signor Benaltro, per concludere: meno poliziotti e più educatori. Come da sempre parla il pedagogismo sociale. Fatta salva la necessità dell’opposizione di difendere la propria ragione politica, che è di diventare maggioranza e sostituire l’attuale governo, e dunque di non attestarsi sulle stesse sue posizioni, ancorché palesemente inderogabili, essa non può non riconoscere il fallimento di un modello educativo, che, basato su un eccessivo e acritico buonismo, ha prodotto le situazioni che vediamo nel nostro Paese, dalla famiglia alla scuola, alla società. Ci vuole ben altro. Certo. Si può senz’altro essere d’accordo sul ben altro. Non si può dire che il provvedimento adottato dal governo Meloni sia il massimo e che ne escluda ogni altro, ma, a fronte del nulla sistematico ereditato che ha aggravato la situazione, quanto è stato messo in essere può dare il via ad una svolta. Don Patriciello, il prete del Parco Verde di Caivano, da dove tutto ha avuto inizio, questo ha cercato di mettere in evidenza. Ci sono momenti in cui è necessario intervenire con la forza e con l’inasprimento delle pene e, ovviamente, non smettere di coltivare l’azione educativa. Le cose accadute a Caivano, gli episodi criminosi dell’uccisione del giovane musicista Cutolo a Napoli, dello stillicidio dei femminicidi, punte di una criminalità che fa passare altre forme di crimini e reati, anche gravi, come fatti di normale amministrazione, richiedeva una risposta dello Stato. Altri dell’opposizione hanno voluto evidenziare la necessità per il governo Meloni di risarcire con quest’atto di forza il suo elettorato, deluso dal fallimento della politica migratoria, su cui tanto aveva detto in campagna elettorale. C’è anche questo, evidentemente, nel dibattito ci sta; ma quel che conta è il valore che ha in sé il provvedimento. E dovremmo sperare tutti che sia producente.

sabato 2 settembre 2023

Destra: non si può avere tutto

Mi piacerebbe chiedere a Giorgia Meloni – se non fosse fantagiornalismo! – due-tre cose. Che cosa direbbe se lei fosse all’opposizione su quanto sta accadendo in Italia nel mondo della politica e del governo, immaginando che vi fosse la Schlein o Renzi o Calenda o Conte a Palazzo Chigi. È un esercizio mentale, il mio, scontato ma parimenti interessante. Un esercizio, che, peraltro, viene fatto dai suoi oppositori, quando propongono alcune sue performance di quando era realmente all’opposizione per confrontarle con alcune prese di posizioni di oggi che la vedono protagonista in maggioranza e, a quel che si dice, ben salda in sella. In particolare le chiederei che cosa direbbe sulla situazione dei migranti, quelli che lei prometteva di chiudere nei porti d’imbarco con il blocco navale. Nei circa dieci anni di vita di Fratelli d’Italia Meloni ci ha convinti che è in corso una vera invasione del nostro Paese, mentre paventava in prospettiva una sostituzione etnica e un pericolo di irrimediabile contaminazione della civiltà italiana. Vediamo che in dieci mesi di governo di destra i migranti sono più che raddoppiati rispetto all’anno precedente e lo spettacolo che offrono alla gente gli sbarchi è che l’invasione continua ancor più di prima e peggio di prima. Un’invasione che non viene solo dal mare, ma anche dalle frontiere nordorientali del Paese, come ha allarmato il Sindaco di Trieste in questi giorni. Ora, che il blocco navale non fosse possibile lo si è sempre saputo, anche se la Meloni precisava che sarebbe stato possibile col consenso dei paesi rivieraschi nostri dirimpettai e “fornitori” di migranti. Insomma, un blocco convenuto. Gli accordi col presidente tunisino Saïed, però, non hanno funzionato, nonostante i soldi elargiti e le visite in pompa magna con la presidente della Commissione Europea Von der Leyen e il presidente olandese Rutte. E del resto lo stesso presidente tunisino ha detto che non avrebbe fatto il guardiano delle sue coste per impedire ai migranti di partire, rivelando anche, al di là delle maniere di facciata, di non averci in simpatia. A quanto pare per i migranti non c’è niente da fare. Li dobbiamo accogliere, perché così vuole l’Europa. E dei rapporti con essa, secondo quanto prometteva la Meloni, che si è fatto? Ecco, è questa la seconda domanda che le farei, perché questa questione si collega alla precedente. Ho paura che la risposta sarebbe che non si può aver tutto dalla vita. O l’appoggio dell’Europa o il contenimento dei migranti, dall’Europa “protetti”. Meloni ha scelto la prima, mentre la seconda è caduta di conseguenza. Nel momento in cui la Meloni fa una politica filoeuropeistica, prendendo anche le distanze qualche volta dai suoi vecchi amici di Visegrad, non può poi respingere o contenere i migranti. È imbarazzante sentire i ministri del governo quando piatiscono la comprensione e qualche aiuto dall’Europa, esattamente come facevano i ministri loro predecessori. Intanto dal governo si affaccia la tesi della indispensabilità dei migranti per mantenere in salute il nostro sistema socio-economico, così introducendo, senza dirlo esplicitamente, il concetto di sostituzione, se non etnica, lavorativa e contributiva. Dicono: siccome in Italia mancano lavoratori, disposti a svolgere mansioni di manovalanza, occorre sostituirli coi migranti, che invece sono disposti, i quali col loro lavoro garantiscono produttività alle imprese e coi loro contributi la pensione agli anziani. Anche qui aut aut: o produttività e pensioni assicurate dai migranti o la difesa della nazione dagli stessi. Sembra che da queste forbici non si esca incolumi. Intanto la ripresa della politica, dopo la pausa estiva, ci ha regalato un’altra perla, in parte nota. La sorella di Giorgia Meloni, Arianna, moglie del Ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, è stata nominata capo della segreteria politica del partito, in coppia diarchica col coordinatore nazionale Donzelli. Non è una bella trovata. E che direbbe Giorgia Meloni se la cosa fosse accaduta in casa d’altri? Si dirà, Arianna Meloni non può essere dimezzata perché c’è la sorella ai vertici del partito e del governo e il marito ministro; ha tutti i diritti di realizzarsi per se stessa e per quello che vale. Giusto, se la cosa fosse liquidabile in sé. Ma non possiamo tacere sul fatto che quanto meno è una cosa sconveniente che un Paese come l’Italia finisca nelle mani di un gruppo famigliare. Non si fa una bella figura. In casi del genere qualcuno deve sacrificarsi e farsene una ragione. Torna il principio, secondo cui non si può avere tutto.

sabato 26 agosto 2023

Il Generale "sproposito"

Dico in limine quel che è opportuno dire. Ce l’hanno insegnato da bambini. “Come si dice?”, grazie, prego, per favore, permesso. Al lume della buona educazione, l’iniziativa pubblicistica del generale Roberto Vannacci s’inscrive a “buon diritto” nel mondo al contrario, di cui tratta nel suo libro. Che cosa può girare più al contrario di un discorso fatto da un alto ufficiale dell’esercito in servizio contro l’establisment educativo della nazione, Costituzione alla mano? Ora si è scatenata una rissa, dopo che il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha bollato le opinioni del generale come “farneticazioni” e ha provveduto a farlo rimuovere dall’incarico che ricopriva. Un atto dovuto. Ne è seguito un tutti contro tutti, perfino a destra, la parte politica di Crosetto, peraltro tra i fondatori di Fratelli d’Italia, il partito della premier Meloni. La questione è diventata politica e scilicet elettorale. A destra le opinioni di Vannacci sono in gran parte diffuse e condivise e il “non detto” fa più rumore del “detto”. Tutto il mondo occidentale difende le minoranze, le diversità, i diritti umani, declinati in tutte le maniere. Questa è la realtà del mondo d’oggi. Piaccia o non piaccia, non la si può negare. Ma, secondo Vannacci, questo mondo gira al contrario. Rispetto a cosa e soprattutto a quando? In una società inclusiva, come la nostra, non sono ammesse esclusioni ed emarginazioni. La Costituzione e tutte le leggi conseguenti questo dicono. Altra era la società che escludeva ed emarginava. In un saggio del 1979, Gli emarginati nell’occidente medievale, lo storico Jacques Le Goff dice che “Attorno alle nozioni di comunità sacra, di purità, di normalità si articolano i giudizi di sospetto, di rifiuto o di esclusione”. La schiera degli esclusi nel medioevo era folta, c’erano “eretici, lebbrosi, ebrei, folli, streghe, sodomiti, ammalati, stranieri, declassati” ed altre figure del tempo come i beghini. Insomma c’erano tutti o quasi tutti quelli che ora sono, secondo il generale Vannacci, i padroni del pensiero unico imperante, che esercitano oggi una vera e propria dittatura. È, questo, un discorso sul quale riflettere. Esso introduce al rovescio l’esclusione di chi non la pensa allo stesso modo, del sostenitore della tradizione, del conservatore di certi valori, del difensore delle vecchie istituzioni naturali come la famiglia. Questi sono tacciati di scorrettezza politica ed indicati come i nuovi reprobi sociali da emarginare socialmente. Quando Vannacci dice che lui non è razzista, a modo suo è sincero, perché non suggerisce di perseguitare nessuno, ma non vuole neppure che venga ribaltata la nozione di normalità e sentirsi da inferiore ricacciato in un angolo. A prescindere da come uno la pensi, le opinioni del generale e di chi si è schierato con lui non sono sostenibili, per una questione di oggettiva convivenza civile. In Italia non è lecito esprimere opinioni che si configurano come reati di razzismo o di istigazione all’odio razziale. Ci sono le leggi che lo vietano. E non ci vuole molta intelligenza a capire che chiamando le cose coi loro nomi e per come sono costituisce l’anticamera dell’emarginazione, della violenza. A nessuno, tanto meno, a chi svolge un compito nelle istituzioni e soprattutto a chi le rappresenta ai diversi livelli e settori, può essere concesso di esprimere pubblicamente simili opinioni. Le può avere dentro di sé, le può sentire come inalienabili, le può coltivare come fiori nel giardino di casa sua, ma non può assolutamente renderle pubbliche senza commettere una serie di reati e di spropositi. Chi gira al contrario oggi è un tradizionalista come Vannacci. È talmente ovvio che sconcerta la posizione di chi oggi difende il generale e afferma che in fondo ha solo manifestato il suo pensiero in assoluta libertà, addirittura secondo i dettami della Costituzione e del regolamento militare. Alla situazione di oggi, in relazione ai diritti umani, si è arrivati non per aver vinto o perso ad una lotteria, ma attraverso un processo storico lunghissimo, passato per gradi di conquiste e diciamo pure di eccessi. Un attacco ad esse, per riportare a piano la situazione, ci può pure stare, ma non da parte di un generale dell’esercito. Quando ciò accade è perché la politica e la cultura latitano. La performance del generale fa pensare ad un cavaliere della tavola rotonda alla ricerca del santo graal, smarritosi in un mondo di “infedeli” insediatisi al comando per fare in modo che niente del suo mondo sopravviva: sacralità, purezza, normalità. Uno “sproposito” del genere può trovare spiegazione solo nel caldo torrido luglio-agostano di quest’anno.

sabato 19 agosto 2023

Il salario minimo è "politica"

Il salario minimo sembra la pietra filosofale che gli alchimisti medievali cercavano per trasformare la materia vile in oro. I partiti dell’opposizione lo stanno gestendo alla grande. Raccolte già trecentomila firme. Si è vicini alla trasformazione del fortunato slogan in consensi e, sperabilmente quando sarà, in voti. Ma che cosa davvero significa il salario minimo nel nostro sistema socio-economico? Va capito nella sua storia, con l’aiuto anche di qualche riferimento extra. Herbert Marcuse negli anni Sessanta del secolo scorso in un suo celebre libro, Uomo a una dimensione, diffuse il concetto di “falso bisogno”, un bisogno cioè indotto da un sistema politico-economico, che, attraverso la pubblicità, ovvero la manipolazione delle coscienze, convince l’individuo ad avvertire la necessità di un dato prodotto, a volte del tutto superfluo, quando non addirittura inutile e dannoso. È l’economia tipica della società dei consumi: si lavora, si produce, si consuma; e si consuma proprio per poter continuare a lavorare e a produrre. Perché questo circolo non si interrompa e anzi si incrementi è necessario perfino inventarsi dei “falsi bisogni”, che vanno ad aggiungersi a quelli veri. Si capisce che in questa catena l’anello che tiene tutti gli altri è la concreta possibilità che il lavoratore-consumatore sia nella condizione economica di accedere ai beni prodotti. In caso contrario la catena si spezza, i prodotti restano in-consumati e l’azienda fallisce. Il salario minimo è la soglia di accesso ai beni di consumo. I soggetti del sistema politico delle democrazie occidentali, ossia i partiti, non si comportano diversamente dalle aziende. Quelli di maggioranza tendono a minimizzare e a nascondere. Quelli che sono all’opposizione, quando non hanno problematiche importanti e risolvibili, s’inventano dei “falsi problemi” pur di convincere gli elettori della bontà delle loro proposte. In politica si consumano idee come in economia si consumano merci. Gli stessi problemi, però, vengono messi da parte quando quei partiti vincono le elezioni e vanno al governo a loro volta. Dopo che sono serviti allo scopo, sono chiusi nel fondo di un cassetto per la prossima volta o per i nuovi oppositori. Il caso è noto. Quando Giorgia Meloni era all’opposizione propose il salario minimo alla maggioranza di governo, la quale, costituita all’epoca da partiti che ora sono all’opposizione, non ne volle sapere di prenderlo in considerazione. Ora gli stessi partiti ne hanno fatto una bandiera. Lo slogan è forte, colpisce, Schlagwort dicono i tedeschi. Al solo sentirlo nominare viene di chiedersi: che più e meglio? E, infatti, dai sondaggi vien fuori che lo vogliono tutti a sinistra come a destra. Il governo, per andare incontro alle difficoltà dei lavoratori meno pagati, ha tagliato il cuneo fiscale, facendo arrivare il ricavato nelle loro tasche. Un provvedimento che probabilmente continuerà oltre il 31 dicembre. Così fa capire il governo. Intanto ha investito il Cnel (Consiglio Nazionale Economia e Lavoro) della questione, che dovrà rispondere entro 60 giorni dall’incarico. Così, non per lavarsi le mani – perfino la maggioranza dei suoi elettori è d’accordo con la proposta – ma per stemperarne la portata politica nell’immediato. Vedremo cosa accadrà. Intanto vale la pena chiedersi: ma veramente il salario minimo conviene? Ai lavoratori poveri sicuramente sì. Nel complesso, però, il provvedimento pone una serie di domande, a cui si danno risposte diverse e non sempre convincenti. Una è che il salario di un lavoratore, in una economia di mercato, è frutto della contrattazione tra datori di lavoro e sindacati, nella logica della domanda e dell’offerta. È in quella sede che si stabilisce volta per volta il “giusto” salario. Non si vede, perciò, la necessità di stabilire il minimo per legge, che peraltro viola un principio di libertà, e può, in mutate condizioni economiche, obbligare i datori di lavoro ad un costo salariale non sostenibile per l’azienda. Un’altra domanda che pone è quando un lavoratore è da intendersi povero. Se si prende il termine di 9 euro lordi all’ora secondo la proposta, la risposta è presto data: sotto quella quota. Ora il Cnel dovrebbe dire quanti sono in Italia i salariati sotto quota 9 euro e chi di essi dovrebbe essere portato a quota più alta. Ma c’è che in Italia in qualsiasi campo ci muoviamo c’è una realtà che non corrisponde alla legalità. Nel nostro caso, per una parte, quella dei lavoratori, è il sommerso; per un’altra, quella dei datori di lavoro, sono gli espedienti per aggirare la legge. Il problema, tuttavia, non può essere sottovalutato. Il salario minimo sarà pure uno slogan, ma ha una carica emotivo-rivendicazionistica straordinaria e può creare problemi alla stabilità di governo.

sabato 12 agosto 2023

La destra pragmatica della Meloni

Alcune sere fa, nel corso di una puntata de “In onda” su “La 7”, con Marianna Aprile e Luca Telese, Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, ex ministro dell’agricoltura, ex genero di Pino Rauti, da sempre rappresentante della destra sociale, tenne a chiarire che Giorgia Meloni delle due anime della destra, la liberale e la sociale, ha sempre rappresentato la prima. Qualche sera dopo nella stessa trasmissione Fabio Granata, assessore siracusano alla cultura in una giunta civica, ha rivendicato le ragioni della destra sociale per distinguerla dalle politiche nazionali e internazionali della Meloni. A loro dire la destra dell’attuale Presidente del Consiglio ha caratteri liberali, europeisti e atlantisti. Sarebbe la destra moderna democratica europea tanto evocata. È così? Non soltanto. È solo di qualche giorno fa il provvedimento del governo di tassare gli extraprofitti delle banche. Qualcosa che si connota chiaramente come sociale, se non proprio di sinistra. Qualcuno ha parlato perfino di grillata. Vero è che la destra della Meloni, fatte salve le sue convinzioni personali in tantissime materie della persona e della vita, politicamente è nel suo dirsi e nel suo farsi. È la destra dei ceti medi, non già delle potenti lobby finanziarie, da lei denunciate nel suo famigerato comizio di Catania, dove infelicemente, a proposito di tasse per alcune categorie sociali, parlò di pizzo di Stato. Nel mondo politico della Meloni c’è necessariamente un prima e un dopo la sua ascesa alla Presidenza del Consiglio. Nel prima c’è posto per la tradizione, la conservazione e il fantasy di Atreju e di tutto il mondo di Tolkien, declinati come le circostanze suggerivano. Tutte cose che con l’esercizio politico reale non avevano nulla a che fare. Quando la Meloni dice che i suoi avversari non l’hanno vista arrivare si riferisce a questo. Lei non è arrivata col chiasso dei “Boia chi molla”, delle croci celtiche, delle bandiere della Repubblica Sociale e dei saluti fascisti, ma in “compagnia” di personaggi letterari del mondo irreale e fantastico della fiaba, neppure italiana, dai significati allegorici, sfumati, non immediatamente identificabili e riconducibili ad una destra politica. Il fascino della persona Meloni e del suo misterioso mondo, popolato di maghi e di elfi, coniugato col pop – io sono Giorgia… – ha vinto. Dove non era riuscito Michelini con le sue proposte di inserimento nel sistema, né Almirante con l’alternativa al sistema della “grande destra”, né Rauti col suo gramscismo nero, è riuscita lei, con la piacevolezza personale e fascinosa, sfruttando anche il fattore F, da femmina, che “tradizionalmente” non è poco. Fa molto colpo sull’uditorio di massa quando parla inglese, francese, spagnolo, lingue dalle sfumature e inflessioni diverse, risciacquate tutte nel Tevere, o quando si lascia prendere per mano da qualche potente della Terra. Le strade della politica sono “più” infinite di quelle del Signore e le donne da sempre ne conoscono una più degli altri. Spero di non essere tacciato di sessismo. Poi c’è la Meloni di governo che ha dovuto necessariamente fare i conti con la realtà ed è venuta fuori la politica di razza, che agisce avendo dei traguardi strategici da raggiungere. Come prima cosa ha cercato di accreditarsi in campo internazionale facendo dell’europeismo e dell’atlantismo i perni della sua strategia, che non è soltanto italiana ma europea, puntando con le prossime Europee a cambiare la governance della Comunità. In questi dieci mesi di governo si può dire che abbia mostrato più il volto liberale che quello sociale della destra, quello possibilista dell’accordo piuttosto il risolutivo della drasticità. Si pensi al blocco navale per risolvere la crisi dei migranti. Ma questo non significa che a fronte delle urgenze o delle mutazioni non finisca per operare diversamente. Lo ha fatto, per esempio, col ministro di giustizia Carlo Nordio, stoppandolo in alcuni importanti punti della sua riforma d’impianto chiaramente liberale, come l’abolizione dell’abuso d’ufficio e della separazione delle carriere dei magistrati. Oggi lei non rappresenta tutta la destra, è vero, ma è sbagliato ascriverla ad una sola parte. Che alcuni (Alemanno, Granata, probabilmente altri) tentino di rimarcare differenze per scopi elettorali lo si comprende benissimo. L’anno venturo ci saranno le Europee e tutti legittimamente aspirano ad una affermazione. Alemanno nella stessa serata televisiva, in cui faceva i distinguo in casa destra, annunciò che dopo l’estate avrebbe lanciato un movimento politico di destra sociale. La Meloni, di certo, non starà a guardare.