sabato 11 novembre 2023

Costituzione, cambiare, ma con giudizio

Accade spesso a scuola, mio ambiente professionale, di dover cambiare un testo scolastico. Sulla materia si torna ogni anno per il caro-libri. Ma non è di questo che qui si vuole parlare, per quanto l’argomento meriti la massima considerazione. Quando un professore vuole proporre un nuovo testo deve fare una relazione in cui sono evidenziate le inadeguatezze del testo che si vuol cambiare e illustrate le bontà didattiche di quello che si chiede di introdurre. Del testo vecchio si conoscono i difetti, sperimentati, e del nuovo si ipotizzano i pregi, evidentemente ancora da sperimentare. Non è improbabile che il nuovo, una volta sperimentato, risulti peggio del vecchio. Dico questo dopo aver letto in questi ultimi giorni diversi pareri di esperti sulla riforma delle istituzioni che il governo Meloni intende proporre al Parlamento e in specifico all’elezione diretta del capo del governo, il cosiddetto premierato. Le intenzioni, a prescindere se condivisibili o meno, sono di garantire sempre un governo eletto dal popolo, che è sovrano, e impedire i cosiddetti ribaltoni. Due punti che l’attuale forma istituzionale non sempre ha garantito, specialmente in questi ultimi trent’anni. Quali sono state le “degenerazioni”? Nel fatto che i governi sono durati poco, che ce ne sono stati alcuni voluti dal Presidente della Repubblica, formalmente approvati dal Parlamento, ed altri dalle combinazioni partitiche più stravaganti e contraddittorie. Ricordiamo i berlusconiani governi dei “responsabili” e quelli grillini giallo-verde e giallo-rosso. Va da sé che i governi sono sempre voluti dal popolo, altrimenti sarebbero incostituzionali, indirettamente attraverso i suoi rappresentanti in Parlamento, direttamente attraverso le urne. Nella Repubblica parlamentare, qual è la nostra, un ruolo fondamentale ce l’hanno Presidente della Repubblica e Parlamento, il primo sceglie a chi affidare l’incarico di fare il governo, ovviamente dopo le consultazioni delle forze politiche, il secondo lo deve approvare in maggioranza. Se i governi non durano e si cambiano le maggioranze non accade per difetto della norma ma della politica. La “colpa” della norma è che consente le geometrie variabili della politica. Ora, se il governo Meloni vuole una riforma tale da garantire stabilità dei governi, correttezza politica nei confronti del popolo, ed evitare ribaltini e ribaltoni, è sicuro di riuscirci con la proposta che ha in mente di fare? Questo è il punto. Sono abbastanza noti i caratteri della politica italiana e sappiamo che anche le più granitiche aggregazioni di partiti e di uomini possono ad un certo punto collassare. Il trasformismo depretisiano è diventato pellegrinaggio parlamentare in virtù del fatto che una norma costituzionale consente al parlamentare di “responsabilizzarsi”, leggi cambiare partito, con chi vuole e tutte le volte che vuole, tradendo il mandato popolare ma non la Costituzione. Le leggi si possono cambiare, ma gli uomini chi li cambia? Con la riforma proposta dal governo si rischia di portare fuori dalla Presidenza della Repubblica e dal Parlamento gli stessi difetti di prima, forse anche aggravati, perché la norma è diversa ma gli uomini sono gli stessi. Tenendo conto della realtà delle cose e del fatto che la proposta del governo trova tutte le opposizioni compatte, il che fa pensare che essa non raggiungerà i due terzi del Parlamento in sede di approvazione e si renderà necessario il passaggio referendario, qualche politologo e costituzionalista (Panebianco, Corsera del 6 novembre) suggerisce una riforma concordata con le opposizioni, con qualche aggiustamento per evitare le derive più immorali e impopolari, quelle che hanno allontanato gli elettori dalle urne. Ma bisogna vedere fino a che punto le parti sono disponibili a trattare e se al loro interno sono compatte. Finora sul fronte della maggioranza non ci sono state crepe, ma esse potrebbero prodursi se le opposizioni dovessero lasciare sdegno e furore per proporsi davvero come compartecipi credibili e giungere ad una soluzione comune. Allo stato delle cose non sembra alle viste un avvicinamento o un incontro. Appaiono più probabili la determinazione della maggioranza di andare fino in fondo anche da sola e la volontà delle opposizioni di impedire qualsivoglia proposta di riforma. A questo punto, conviene arrivare alla resa dei conti popolare, con un voto referendario, che Giorgia Meloni crede fortemente a lei favorevole ma non vincolante alla sua permanenza a Palazzo Chigi.

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