sabato 18 novembre 2023

Ebrei, un destino di ritorno

Qualche giorno fa il mio barista mi chiese di spiegargli in parole povere perché gli ebrei sono così odiati da sempre e in tutto il mondo. Gli risposi: metti che un signore che viene da fuori apra un bar accanto o dirimpetto al tuo e che in poco tempo mentre lui progredisce tu sei costretto a chiudere, metti che quel signore sia un ebreo, tu non puoi non odiarlo. È stato la rovina della tua esistenza, senza peraltro commettere alcun reato. È semplificatorio, d’accordo, ma è così. È l’invidia che anima l’odio contro gli ebrei. Il non sopportare che essi siano più capaci degli altri. A questo aggiungi il deicidio, di cui sono stati accusati, e la situazione antiebraica si completa. Quando il governatore della Giudea Ponzio Pilato chiese al popolo chi liberare per la pasqua di quell’anno Barabba o Gesù, il popolo fomentato dai sacerdoti scelse Barabba. E questi, con tutti i dubbi storici che lo riguardano, era un ribelle, una sorta di terrorista ai danni degli occupanti romani. Al di là di giuste o ingiuste colpe, l’ebraico è un popolo straordinario; vive un destino di eterno ritorno. Nella storia è stato sempre perseguitato, spesso con gravi danni all’economia del paese dal quale veniva espulso, perché senza l’intraprendenza degli ebrei quel paese s’impoveriva. Accadde con la cacciata dalla Francia nel 1182 e dalla Spagna nel 1492. Gli ebrei ovunque si siano insediati hanno migliorato l’economia del paese, hanno prodotto ricchezza, migliorato i servizi, anche con piccole attività commerciali e artigianali. Il filosofo olandese di origine ebraica Baruch de Spinoza campava smerigliando lenti da occhiali. Hanno contribuito allo studio delle arti, delle lettere e delle scienze. Oggi, nel mondo, sono piene le università, le case editrici, le banche, i giornali, le televisioni. Il 20% dei premi Nobel sono stati assegnati a ebrei. Il loro destino di perseguitati ha sviluppato in loro una forte compattezza e solidarietà ovunque si trovino. Perciò chi li attacca deve vedersela con le potenze mondiali, che vivono nella stessa cultura, nella stessa economia, che hanno lo stesso stile di vita e che sanno che il successo non è dono di chissà chi, ma frutto del lavoro, dell’impegno, della tenacia, della capacità di difendere il proprio. Si consideri che le classi dirigenti di molti paesi occidentali hanno ebrei ai vertici delle loro istituzioni. Per dire: Blinken, Segretario di Stato Usa, è ebreo; Schlein, che un giorno potrebbe diventare capo del governo in Italia, è ebrea. Noi occidentali viviamo da sempre nell’etica del lavoro. Calvino (il teologo) sulla predestinazione fu chiaro: guarda alla tua condizione, se sei un fallito sulla terra sei un uomo perso nell’aldilà. Perciò, fai di tutto d’inseguire il successo e di raggiungerlo: è il segno di quel che sei ora, di quel che sarai dopo. È la filosofia del quisque est faber fortunae suae. Vale anche oggi. La terra d’Israele, rivendicata, in parte anche giustamente, dai palestinesi, una volta improduttiva e abbandonata, oggi produce ricchezza; il deserto è diventato giardino, frutteti, aziende. In Cisgiordania, territorio spettante alla Palestina per decisione dell’Onu fin dal 1947 e conquistato da Israele nella guerra del 1967, i coloni ebrei si sono insediati portando dappertutto i segni del lavoro, della crescita, della civiltà occidentale. La loro filosofia di vita è avere la spada accanto all’aratro. E, infatti, i loro kibutz sono difesi dai soldati. Gli ebrei continuano così a dimostrare di essere loro gli eletti del Signore. I vecchi abitanti di quelle terre, i palestinesi, che sono ridotti nel migliore dei casi a lavoratori subordinati, considerano la situazione intollerabile. All’invidia, alla ragione utilitaristica, si aggiunge la civiltà diversa alla quale i palestinesi appartengono, l’Islam. Le componenti più radicali di questa religione non ritengono di coesistere con altre ma delle stesse perseguono l’eliminazione. Ergo: Israele non deve esistere! È considerato un intruso in un mondo di musulmani. Deve scomparire. La posizione così radicale dei palestinesi porta Israele ad essere sempre sul piede di guerra. La sua è una questione di vita o di morte, è ciò che impedisce un duraturo accordo, è la causa del fallimento di tanti tentativi fatti dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi che ad un certo punto sembravano per raggiungere l’obiettivo. Ma quest’ultima guerra che Israele sta combattendo presenta caratteri ancor più gravi e inquietanti rispetto alle precedenti. Non si discute la sua legittimità a difendersi, ma se per farlo pone le premesse di nuovi rancori difficilmente si arriverà mai alla coesistenza dei due popoli in due stati. Il che significa che per gli ebrei, in Israele e nel mondo, è inevitabile vivere in un costante stato di guerra, a rischio del mondo intero. È tragico che altro i figli di David non possono fare.

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