domenica 24 giugno 2018

Saviano-Salvini: urgono altre scorte




Lo scrittore Roberto Saviano e il Ministro dell’Interno Matteo Salvini vanno messi sotto scorta. Uno dirà: ma se ce l’hanno già la scorta! La scorta di cui hanno bisogno è un’altra, non di uomini forzuti e armati per difenderli da eventuali attacchi fisici da parte di malintenzionati, ma di educatori.
Lo scontro dei giorni scorsi, di cui sono stati indecorosi protagonisti, ricorda le mazzate di una volta fra esagitati, il più delle volte ubriachi, a suon di pugni, schiaffi, calci, unghiate e morsicate; o fra ragazzacci all’uscita da scuola.
Saviano ha dato del “buffone” e del “codardo” a Salvini perché questi aveva avuto da ridire su certi giudizi trancianti dello scrittore in merito alle scelte del governo sugli immigrati e aveva ventilato l’ipotesi di togliergli la scorta.
Saviano vive da anni sotto scorta, fisica, perché minacciato dai casalesi, pericolosa organizzazione camorristica, in seguito ad alcuni suoi scritti. In Italia molti altri “a rischio” sono sotto scorta: giudici, imprenditori, giornalisti, persone comuni particolarmente presi di mira. Tanti scortati in un paese libero e democratico deturpano l'immagine della Nazione oltre che essere uno spreco di risorse finanziarie e un danno all’ordine pubblico. Le migliaia di agenti impegnati nelle scorte dei suddetti signori evidentemente sono sottratti a ben altri e più urgenti e importanti servizi, di cui la comunità ha bisogno.
Intendiamoci, non è agevole vivere sotto scorta, anzi, è un fastidio enorme. Si è condizionati e limitati. Ci si sottopone perché, come nel caso di certe personalità delle istituzioni, nell’esercizio dei compiti istituzionali, hanno bisogno di percorsi e di situazioni per così dire facilitati o privilegiati. Un presidente della Camera o del Senato, un ministro, un presidente della Corte Costituzionale vanno necessariamente scortati e – ça va sans dire – il Presidente della Repubblica o il Capo del Governo.
Ma gli altri, perché? Ognuno deve fare i conti con se stesso, rispondere del suo coraggio o della sua paura, della sua forza o della sua debolezza, tanto più se è un privato cittadino, come nel caso di Saviano. Uno non può farsi forte e coraggioso a spese dello Stato, che è poi a spese della comunità nazionale.
Saviano deve sapere che se scrive certe cose può andare incontro a tutta una serie di fastidi e di danni, compreso qualche attentato alla vita. Ci sono tante persone in Italia che corrono quotidianamente dei rischi e li affrontano, regolandosi nei comportamenti e negli atti che compiono: giornalisti non necessariamente famosi, insegnanti, imprenditori e commercianti minacciati da organizzazioni malavitose. Sono persone normali che vivono la quotidianità a proprie spese, in tutto e per tutto. Perché pretendere una scorta? Appartiene Saviano alla falange di chi vuole abolire in Italia i privilegi, i vitalizi e tantissimi altri ammennicoli di ogni tipo che rendono i cittadini continuamente diversi di fronte allo Stato o alla Società nel suo insieme. Dunque, sia coerente!
In questo nostro Paese non si vuole mai guardare in faccia la realtà. Si vuole ignorare che non c’è paesino nel Mezzogiorno d’Italia – e non vado oltre perché non conosco bene le altre zone del Paese – dove non si è continuamente minacciati dalla piccola organizzazione malavitosa locale. Fare il sindaco, l’assessore, il giornalista, l’imprenditore, il commerciante si corre il rischio di essere presi di mira da simili organizzazioni, che, grazie … a Dio!, non mancano, quasi fossero istituzioni alla stregua di parrocchie, scuole e uffici vari in ogni paese.
Così come si affronta la vita nel piccolo e nel normale, allo stesso modo la si dovrebbe affrontare ad altri livelli e ad altre dimensioni. Né più né meno. Dunque, basta scorte a chi non ricopre alte e altissime cariche istituzionali. Si faccia davvero di questo Paese un Paese normale!
Si dà il caso, per tornare alla rissa Saviano-Salvini, che lo scrittore napoletano fa politica da posizioni radicali in servizio permanente effettivo. Descrive e tratta certi politici allo stesso modo di come descrive e tratta i casalesi. E’ un suo diritto. Ci mancherebbe altro. E’ un suo sacrosanto diritto di cittadino elevare alte strida di fronte a scelte governative che non condivide. Ma non può indignarsi e arrabbiarsi se poi dall’altra parte, politica s’intende, giungano risposte consequenziali. I giudizi che lui esprime contro la parte politica avversa non sono di persona colta e moderata ma di chi vuole provocare risposte altrettanto forti.
Dare del “buffone” ad un Ministro della Repubblica è un modo di comportarsi non molto difforme da come i casalesi su altro piano si comportano coi loro “nemici”.
Si tratta di trovare le giuste misure. Se Saviano non le trova, fa pensare di essere irrimediabilmente della stessa razza che lui stesso con tanta forza critica e denuncia; è un “casalese” pure lui, sia pure in modo diverso.
Ciò detto, non è da Ministro della Repubblica rispondere con minacce della stessa “qualità” cinica, violenta e ricattatoria, come ha fatto Salvini.
Togliere la scorta ad uno scrittore e cittadino scomodo è un gesto inqualificabile. Bisogna togliere la scorta a chi, a prescindere dalle sue idee politiche, va ricondotto alla sua dimensione civica, di cittadino come tutti gli altri. Un normale cittadino, pur in eccezionalità di genio artistico, scientifico o letterario, non si arrischierebbe a dare del “buffone” ad un Ministro, con ciò offendendo l’istituzione e quanti in essa si riconoscono.
Il segno lo mise Socrate duemilacinquecento anni fa, tra gloria e cicuta.  

domenica 17 giugno 2018

La via romana per Giorgio Almirante




L’antifascismo triumphans è tornato. E’ bastato che il Consiglio Comunale romano approvasse una mozione per intitolare una via a Giorgio Almirante. Fulmini e saette antifasciste. Gli ebrei romani si sono subito allarmati e hanno reagito con comunicati, più veloci dei raid aerei di Israele contro le basi iraniane. L’Anpi ha ripreso la solfa dell’Almirante razzista impentito, che elaborò il Manifesto sulla Razza. La sindaca Raggi ha annunciato che la mozione sarà annullata, impegnandosi a non far mai nulla che possa offendere la sensibilità antifascista dei romani. Scambia l’antifascismo per un impasto cementizio per colmare le buche di Roma!
Su Almirante continuano minchiate colossali. Il “Corriere della Sera” di sabato, 16 giugno, in una breve scheda biografica, lo ha indicato come “ex generale repubblichino”. Ma quando mai!
Fu capo-gabinetto al Ministero della Cultura Popolare della Repubblica Sociale Italiana, quando era ministro Fernando Mezzasoma. Almirante non collaborò mai al Manifesto della Razza; fu – questo è vero – segretario di redazione della rivista diretta da Telesio Interlandi “La Difesa della Razza”, che è altra cosa. Fu razzista e non lo ha mai negato né si è mai pentito. Per Almirante pentirsi non aveva senso alcuno. Più volte ha detto a chiare lettere per iscritto e a voce che le leggi razziali furono un errore gravissimo del fascismo, dannoso per l'Italia.
Chi fa dell’antialmirantismo a pie’ sospinto si legga di Almirante l’Autobiografia di un fucilatore. Almirante non ha mai negato né rinnegato nulla. Come tutti gli uomini veri e seri di questo mondo ha rivisto il proprio vissuto e lo ha criticato con onestà e coraggio.  Sul razzismo è stato chiarissimo: fu un errore. A proposito di Interlandi e riferendosi al suo impegno razzista scrisse che “condusse anche campagne sbagliate e dannose”. E di se stesso: “io le condussi in perfetta buona fede e con non minore faziosità, sotto la sua guida, e nel momento stesso in cui lealmente dichiaro che non mi compiaccio di averle condotte, dichiaro anche che lo feci in piena libertà”. Dunque, l’Almirante segretario del Msi non era razzista; lo era stato durante il fascismo. Che altro per finirla?
D’altra parte la lezione almirantiana sul razzismo è più credibile di molte altre. Che il razzismo fascista sia stato un errore me ne sono convinto attraverso di lui, per Giorgio Almirante. Da lui era credibile. Dai tanti convertiti, pentiti, trasformisti e opportunisti nulla è credibile, poiché tutto è subordinato all’interesse più immediato. Chi si pente non sa quello che dice né quello che fa; è un eterno disoccupato dello spirito in cerca di facili  riempimenti. Nella vita il tempo matura gli uomini come le piante e i fiori. Nessuno può pretendere dall’estate quel che dà l’inverno e viceversa. Tranne quelli che oggi non vogliono intitolare una via ad Almirante.
Ma questa è soltanto l’ennesima dimostrazione non solo che in questo Paese non si vuole la pacificazione nazionale nemmeno dopo 73 anni dalla fine del fascismo, ma anche che non si vuole rinunciare ad una rendita politica di cui gode ancora tanta gente, ad incominciare da tutti gli iscritti e i dirigenti delle varie sezioni dell’Anpi, di cui nessuno può dire, per oggettive ragioni temporali, di aver avuto direttamente a che fare con la guerra partigiana. E’ una delle tante associazioni che scroccano denari pubblici per fare propaganda politica di parte. Tanto dimostrano quando, invece di vigilare e denunciare forme di fascismo mascherate in essere, per le quali occorrerebbe fra l’altro un certo impegno e coraggio, se la prendono con iniziative del tutto innocue, come l’intitolazione di una via a una personalità, oggi del tutto storicizzata.
In Italia ci si può trovare, senza neppure che ce ne accorgiamo, in un sistema, non dico fascista ma a qualcosa che potrebbe somigliargli, mentre ci preoccupiamo dei fantasmi del passato.  
Quanto agli ebrei, farebbero molto meglio a spendersi per cause assai più gravi e concrete che non per l’intitolazione di una via ad una personalità che già in vita ebbe modo di chiarire il suo rapporto col loro mondo umano e culturale. Pensino piuttosto a quanto siano razzisti loro; da sempre e  non solo a parole!
Una via romana a Giorgio Almirante oggi ha un solo significato: il riconoscimento ad un uomo che nella storia di questo paese ha avuto il ruolo importante di perseguire la pacificazione dopo la guerra, in onestà di critica del passato – non solo del suo! – e di propositi per l’avvenire. La sua vita è storia, basta conoscerla. Tutto il resto è propaganda.

giovedì 14 giugno 2018

Sull'immigrazione solo bugie e ipocrisie




La respinzione della nave “Aquarius” piena di migranti da parte del Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha fatto saltare il coperchio alla pentola delle buone maniere, leggi bugie e ipocrisie.
I francesi ci accusano di essere cinici e irresponsabili. Noi, che da anni e anni accogliamo immigrati, che loro respingono e costringono a rimanere in Italia, in barba al principio dell’equa distribuzione delle quote, usando anche maniere forti e ai limiti della legalità! Una presa di posizione che si spiega solo col nervosismo che la nuova politica sull’immigrazione del nuovo governo italiano sta provocando in loro e non solo in loro. Ma anche, da parte di Macron, il tentativo di esorcizzare in Francia soluzioni populistiche. L’esempio italiano dimostra che la soluzione populistica è dappertutto dietro ogni angolo di elezione.
Su questo gravissimo e difficilissimo problema, che è l’immigrazione, nessuno ha la ricetta giusta e nessuno dunque dovrebbe avere atteggiamenti sicuri e decisi. Meno degli altri i francesi, responsabili, con quel loro campione di smargiassate Sarkozy, di aver aggravato la situazione bombardando e destabilizzando la Libia, da dove gli immigrati partono per raggiungere le coste europee. Forse pensava, togliendo di mezzo Gheddafi, di liberarsi di uno che gli aveva dato bei soldini per le sue campagne elettorali. Invece ha messo nei guai l’Europa e l’Italia, in particolare, perché dalla costa libica giungono da noi moltitudini di profughi, di disperati e di avventurieri di ogni risma. Meno degli altri i francesi, che hanno dato prova finora di arroganza nei confronti dei partner europei e di disumanità nei confronti degli stessi immigrati. 
Nessun governo finora ha spiegato, né poco né molto, se l’immigrazione è un bene o è un male e se è un male fino a che punto è inevitabile. Invece, che cosa è accaduto? Che tutti, chi più e chi meno, si sono lavati la bocca con principi umanitari, leggi internazionali sull’accoglienza dei profughi, sulla solidarietà o più realisticamente opportunità di accettare quote di profughi.
Gli unici paesi che hanno parlato chiaro finora sono stati quelli del gruppo cosiddetto di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia), i quali hanno detto: non li vogliamo. E qualcuno, come l’Ungheria, lo ha anche spiegato: non vogliamo che la nostra civiltà europea e cristiana venga contaminata e trasformata in un coacervo di etnie, culture e religioni diverse.
A fronte di tanta chiarezza, discutibile quanto si vuole, gli altri, italiani compresi, che cosa hanno opposto? Comportamenti ipocriti e incerti, che vanno dal far credere che gli immigrati siano un bene al ricorrere a mille espedienti per farne giungere sempre di meno, dimostrando che essi costituiscono invece un male.
Se gli immigrati sono un bene, una miniera, perché allora i governi europei non mandano le loro navi per caricarne quanti più possibile per arricchire i propri paesi, sottraendo tanta materia prima agli scafisti? Ospite della trasmissione “Di martedì” l’ex ministro dell’economia greco Varufakis, che peraltro nel 2019 si presenterà candidato in Italia al Parlamento Europeo, ha detto che i profughi andrebbero presi dalle coste africane e portati su quelle europee in sicurezza e che di tanto dovrebbero farsi carico i governi europei. Non si può dire che il ragionamento di Varufakis non sia coerente.
Ma tanto non accade, anzi accade il contrario: i profughi vengono lasciati in mano a scafisti e navi Ong, che li trasportano in Europa in condizioni di rischio e li “consegnano” ai paesi europei nel disordine più assoluto e nello sperpero di risorse pubbliche. Dunque, non un bene, ma un male sono gli immigrati. Tanto emerge dai comportamenti contraddittori dei paesi europei interessati dal fenomeno.
Assodato che l’immigrazione di massa, disordinata e incontrollata, è un male, allora occorre stabilire se e come arginare o gestire il fenomeno che sembra abbia i caratteri di uno tsunami o di un terremoto. Prima di tutto: sono veramente tutti profughi che scappano dalla guerra, dalla fame, dalle persecuzioni o non sono piuttosto anche gente che cerca una vita migliore, a danno di altri, i quali avrebbero tutte le ragioni per difendere il proprio stato politico e sociale? E’ qui che s’innesta il confronto politico più aspro.
Ci sono i comunisti o ciò che di essi resta che continuano a fare lotta di classe, che sostengono che bisogna accogliere tutti indipendentemente dalle ragioni per le quali hanno lasciato la loro terra per venire da noi. Sulla stessa lunghezza d’onda ci sono i papisti, come Paolo Mieli, che pubblicamente ha detto che lui sull’immigrazione è sulle posizioni di papa Francesco; essi ritengono che per solidarietà cristiana bisogna accoglierne quanti ne arrivano. Ma poi – e questi sono la gran parte – ci sono quelli del bastone e della carota, che, mentre accolgono quelli che arrivano, cercano di scoraggiare altri che vorrebbero partire. Molti dicono di voler salvare vite umane e magari obtorto collo lo fanno pure – come gran parte dei leghisti – altri, come Fratelli d’Italia, sono su posizioni oltranziste e vorrebbero il blocco navale. Scelta, questa, che, ove fosse fatta, non tarderebbe a creare conseguenze dagli esiti imprevedibili ma comunque gravi. Ma fra chi la spara più forte ha una sua efficacia.  
Dire che non accogliendo i profughi o non dando soccorso in mare a chi ne ha bisogno si violano gli accordi internazionali, si dice un’altra bugia sapendo di dirla. Soccorrere in mare è un dovere quando si tratta di salvare persone che sono incappate in un incidente del tutto imprevisto; ma quando si tratta di un fenomeno voluto e calcolato, come sono le ondate migratorie che invadono e pongono problemi seri di vivenza e convivenza, allora i cosiddetti accordi internazionali non contano più. Conta l’opportunità politica, che è cosa ben diversa; conta se favorire o contrastare il fenomeno, avendo come stella polare gli interessi del proprio Paese.    

domenica 10 giugno 2018

Il pentaleghismo cresce, il governo...si vedrà




L’Italia si è presentata al G7 di Canada con un Premier nuovo di zecca, Giuseppe Conte. Uno dei suoi due padrini, il pentastellato Luigi Di Maio, rivolgendosi ai suoi in Italia, ha detto: il nostro Premier sta con gli uomini più importanti del mondo in Canada. La comare lo dice alla vicina per darsi importanza. E lui? Lui, il trovato sotto un cavolo nella tarda primavera di quest’anno, ha chiesto ai suoi omologhi di comprenderlo, data l’inesperienza. La stampa italiana lo ha messo in prima pagina accanto a Trump, il quale pare avesse detto: è un bravo ragazzo, farà bene (Corriere della Sera, 10.6).  Il popolino ha recepito: abbiamo un capo del governo che ha la stima dei grandi della Terra e cordializza con loro da pari a pari.  Italia mia, chi ti ridusse a tale?
Si parlerà a lungo di questa e di simili altre performance al ribasso della nostra troika (Salvini-Di Maio-Conte). Chi più ne fa più ne offre al chiacchiericcio dei giornali e dei talk-show, fino a quando gli italiani non avranno fatto il callo. Il Presidente della Camera Fico che ascolta l’Inno nazionale con le mani in tasca è ormai un lontano ricordo, sebbene resti un’icona. Del resto, che si chiede a questi giovinotti se non di essere onesti, come hanno promesso? Cultura, preparazione, competenza? Ma tutto questo si sapeva che sarebbe mancato. Un proverbio popolare ricorda che “nessuno è nato imparato”. Onesti, però, lo devono essere, perché se no, saranno mazzate, come si usava una volta.
Anche su questo fronte, a dire il vero, s’incomincia a nutrire qualche dubbio. Conte ha truccato il suo curriculum millantando titoli; ma lo ha fatto quando neppure si sognava di diventare il presidente del consiglio. Guicciardini diceva che è la carica che svela l’uomo (magistratus facit hominem). Aspettiamo pure il contrario, che l’uomo sveli le capacità del Premier.
E veniamo ai fatti concreti. Il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ha detto: basta ora coi titoli e gli annunci, incominciate ad operare, incominciate coi fatti.  Avverte: le auto tedesche, sulle quali Trump potrebbe mettere dei dazi, spesso al 70 % sono fatte da componenti italiane. Perciò inutile cercare comprensioni separate, ammiccamenti. L’Italia non può separare il suo destino dall’Europa. Non è uno slogan, è la realtà.
Di Maio ne ha fatta un’altra. Rivolgendosi all’elettorato dei 761 comuni che oggi, domenica, 10 giugno, votano per il rinnovo di sindaco e consigli, ha detto che le amministrazioni pentastellate godranno dell’appoggio del governo nazionale. Niente di nuovo. Quando ero ragazzino e non mi perdevo nessun comizio al mio paese, anni Sessanta, sentii un noto esponente della Democrazia Cristiana dire: cittadini, potete votare per chi volete, oggi c’è libertà, ma se non votate un sindaco democristiano scordatevi di avere degli aiuti da parte del governo. Dunque, che obiettare a Di Maio? Che certe cose si combattono per eliminarle e non si dicono per raccogliere voti. Si può perdonare l’inesperienza a chi è nuovo del mestiere, ma non i vizi più consolidati. Il favoritismo di Stato non è accettabile a nessun livello. I pentastellati non possono pensare che ora, solo per il fatto che sono loro a elargirlo, è normale.  
La piccola macchia d’olio, che era la stampa favorevole ai grillini, si sta allargando. Il nucleo originario resta sempre lui, Marco Travaglio de “Il Fatto Quotidiano”, il quale dice degli spropositi quanto neppure lui saprebbe immaginare. Parla di “pregiudizi universali”, come se tutto quello che finora è accaduto non costituisse materia di giudizio. Insiste nel dire che occorre aspettare prima di giudicare questo governo. E lui, quanto ha aspettato a giudicare i precedenti governi? Forse Travaglio non frequenta gli eventi formativi della professione. La stampa non deve aspettare, deve informare su quanto accade giorno per giorno, senza occultare, minimizzare o esagerare.
Ma la macchia – si diceva – si sta ingrandendo. Maurizio Belpietro de “La Verità” è stato folgorato sulla via…anzi nell’andarsene via da Damasco. Il gruppo Caltagirone appoggia il governo pentaleghista e ha messo alla porta Massimo Barbano dalla direzione de “Il Mattino” di Napoli. Resistono, ma non si sa ancora per quanto, “La Repubblica” e il “Corriere della Sera”. Chi conosce la storia d’Italia, sia pure al livello del racconto montanelliano, sa che tutto questo è già accaduto. E’ la fisiologia della politica, intesa come lotta per il potere.    

domenica 3 giugno 2018

Governo Lega-M5S, mezza Italia ha ragione di sentirsi offesa




In coincidenza del varo del governo Di Maio-Salvini, quando ancora il Premier Giuseppe Conte era a colloquio col Presidente della Repubblica, ci è arrivata la frustata in pieno viso del Presidente della Commissione Europea Juncker. Secondo Juncker dovremmo essere noi italiani ad occuparci dei problemi del nostro Sud, dovremmo lavorare di più, non essere corrotti e non dovremmo scaricare sull’Unione Europea le colpe delle nostre inefficienze. Mai sentita una cosa simile. Al confronto il sorrisetto complice della Merkel con Sarkozy nei confronti di Berlusconi di qualche anno fa fu un simpatico siparietto.
Ecco: il governo del cambiamento annunciato dai Grillini ha preso il via e come viatico c’è questa bruciante offesa nei nostri confronti da parte della massima autorità europea.
Taiani ha immediatamente chiesto a Juncker di smentire perché se fossero veramente state dette quelle parole sarebbero inaccettabili.
In politica le cose vanno così: uno dice quello che gli passa per la mente, poi smentisce e tutto riprende come prima. E così è stato. Juncker non ha smentito ma ha detto che le sue frasi sono state decontestualizzate e fatte apparire come ostili e offensive degli italiani quando erano soltanto paternalistiche e propositive.
Soddisfatti? Per il politicamente corretto, diciamo di sì. Che si può pretendere altro?
Ma, a parte l’imprevisto junckeriano, c’è che questo neonato governo, annunciato come l’inizio della terza Repubblica, come il governo del cambiamento, come il governo degli italiani e come tante altre cose, nella realtà è stato il governo che ha aperto una gravissima crisi istituzionale e un altrettanto gravissimo contenzioso con l’Europa. Dopo le parole del Commissario europeo Hoettiger, quelle di Juncker; e non siamo che agli inizi!
Mattarella ha fatto sapere che lui è contento per cinque motivi: primo, perché finalmente l’Italia ha un governo; secondo, perché è stata rispettata la volontà dell’elettorato; terzo, perché nel suo programma e nella sua composizione rispetta gli interessi nazionali e osserva buoni rapporti con l’Europa; quarto, perché sono state ribadite le prerogative del Capo dello Stato nella formazione del governo; quinto, perché ha pacificato il Paese in vista della Festa della Repubblica del 2 giugno.
Con tutto il rispetto non ci sentiamo d’accordo su nessuno di questi punti e soprattutto sull’ultimo, quello della pacificazione nazionale.
Se la pacificazione è una “parata”, un “rituale” e basta, allora si può anche dire: evviva, siamo in pace. E guardiamo tutti in alto mentre passano le Frecce Tricolori. Ma se la pacificazione è da intendersi reale, politica, no non siamo per niente in pace. E non lo siamo non perché non vogliamo – forse ci converrebbe – ma perché effettivamente non lo siamo. Dire una cosa per un’altra non è nostra abitudine.
Troppi vulnus sono stati inflitti alla Costituzione; troppa maleducazione e ignoranza sono state diffuse a piene bocche; troppa arroganza e prepotenza…troppa propaganda e soprattutto troppo potere dato ad una parte politica per un risultato elettorale che, ricordava Sabino Cassese a “Piazza pulita” del 31 maggio, è modesto e inferiore, in termini di voti, al 50 % dei votanti. Il che vuol dire che c’è in Italia un altro 50 % che si sente eccessivamente penalizzato dalla soluzione di questo governo. Più giusto sarebbe stato il ritorno al voto con un governo tecnico.
In questi tre mesi di trattative per formare il governo le procedure, le istituzioni e chi le rappresenta sono state prese a calci come da ragazzini si faceva per strada con le palle di pezza. Se quanto è accaduto col “contratto”, con i “diktat”, con i “programmi segreti”, con le assurde prese di distanza di forze della stessa coalizione fino a ritrovarsi una parte al governo e l’altra all’opposizione, con ministri raccattati in giro di qua e di là, buoni forse per essere assessori in qualche comune poco al di sopra di cinquemila abitanti, con le bugie sui ministri eletti dal popolo e via dicendo, allora, no, non siamo né d’accordo né in pace.
Ben sette dei diciannove ministri più il Presidente del Consiglio non sono stati eletti dal popolo, da quel popolo che secondo Salvini e Di Maio è sovrano. La verità è che il M5S non ha una classe dirigente all’altezza del compito e ha dovuto ripiegare su soggetti che vengono dall’odiato establishment. Tolti i ministri professori, non politici, gli altri sono raccogliticci e improvvisati. Come improvvisati sono alcuni ministeri, come quello per il Sud, vera patacca per tacitare i pupi, e quello per la famiglia e i disabili, pura propaganda.
Una riflessione a parte merita quel “grand’uomo” di Paolo Savona, che per tre mesi si è fatto strumentalizzare, divenendo oggetto di spinte e controspinte, scoppole e sgambetti, come un cachiello qualsiasi, fino ad accontentarsi di un ministero senza portafoglio, quasi fosse un principiante, un esordiente. Un vecchio saggio, quale dovrebbe essere uno di più di ottant’anni, con la fama di grande economista, si dovrebbe comportare diversamente. Se uno come lui sbava per una poltrona di ministro qualsiasi, che dovrebbero fare le caterve di neoparlamentari di fronte al rischio di essere mandati a casa senza ancora insediarsi sulle loro odiatissime poltrone?
Questo governo è figlio della rivolta dei tanti deputati e senatori di prima elezione che di tornarsene a casa non ne hanno voluto sapere. Molti di essi non hanno né arte né parte. Questo va loro riconosciuto: il M5S è stata la manna calata dal cielo. E va bene pure che tutto è prodotto dai vaffanculo di Grillo. Ma, per parafrasare il memento mori biblico, rifletti grillino: culus es et in culum reverteris.